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EdTv
Anno: 1999
Regista: Ron Howard;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 10-06-1999


EDtv
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EDtv


Regia: Ron Howard
Sceneggiatura: Lowell Ganz&Babaloo Mandel
Dialoghi: Bitty O'Sullivan-Smith Marc Laub
Fotografia: John Schwartzman, A.S.C.
Effetti Video: Matthew Morrissey
Scenografia: Michael Corenblith
Montaggio: Mike Hill, Dan Hanley
Musica: Randy Edelman
Effetti sonori: Daniel Pagan
Costumi: Rita Ryack
Produttore: Brian Grazer
Produzione: Universal
Distribuzione: Uip
Formato: 35 mm.
Provenienza: USA
Anno: 1998
Durata: 122'
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Ed Pekurny ... Matthew McConaughey
Shari ... Jenna Elfman
Woody Harrelson
Jeanette...Sally Kirkland
Al...Martin Landau
Cynthia Topping... Ellen DeGeneres
Jim Whitekare... Rob Reiner
Hank Pekurny... Dennis Hopper
Jill...Elizabeth Hurley
John...Adam Golberg

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Delegare ad un altro la propria vita e limitarsi a partecipare a distanza ai suoi arrembaggi, assistendo al suo veloce intrappolamento nel meccanismo perverso: il pubblico.

Ubiquo, un occhio perennemente acceso, in grado di moltiplicare all'infinito una realtà, che possiede un solo approccio: quello della telecamera. Non ne esiste nessun altro e quindi è un punto di vista unico che in quanto tale sottrae verità tridimensionalità e naturalezza.

I ruoli non vengono giocati (play è il termine inglese per recitare), ma giocano e reificano i personaggi; producono stereotipi bidimensionali piattamente quotidiani, dove non esiste alcuna emozione, non c'è storia: si gioisce di un incontro, combinato. Tutti gli attori si sottopongono a questo depauperamento, tutti tranne uno: Dennis Hopper. É l'unico fuori ruolo, perché crea un personaggio, anziché restituire in uno specchio la società americana scremata di sentimenti non televisivi, al punto da morire fuori campo (imperdonabile) in un frangente "eroico" e scandaloso, realmente dirompente. Sarà Hopper che ha imposto un rallentamento nel ritmo delle telecamere, l'uso di un campo-controcampo classico per marcare la differenza del suo intervento rispetto al resto della sitcom? Certo che rimane un oasi di cinema nella temperie televisiva: davvero un blob che congloba tutto.

La nuova forma del potere si presenta ribaltando la strategia censoria che teneva finora: l'accesso è assicurato, anzi la difficoltà è tornare nell'ombra. Ovviamente il film statunitense non può proporre una soluzione antagonista, che preveda l'uso della telecamera per proclami libertari che fungessero da paradigmi di sovversione, che avrebbero decretato l'immediata espulsione dal video onde evitare facilmente prevedibili fenomeni di emulazione, ma, come ormai d'obbligo dopo le vicissitudini sessuali di Clinton, si preferisce ricattare e, nei film come nella realtà, tenere in scacco il demiurgo in materia sessuale, anziché scardinare il sistema stesso con le sue leggi.

Non è nemmeno un caso che si confrontino le due grandi istituzioni di Cunningham-Howard: la famiglia e la tv. A trent'anni di distanza entrambe si sono evolute nelle loro prassi oppressive e ossessive. La famiglia è al centro di tutto e viene coinvolta in ogni sua componente, sviscerata più a fondo e con meno ingenuità di quello che in modo più naïf e con altri intenti dissacratori faceva Vincent Gallo in Buffalo 66, ma senza la forza nichilista e con molta più pruderie (ce lo vogliono dire - almeno nei titoli di coda - l'indirizzo del sito che pubblica le tette di Shari, ché noi non le abbiamo viste?!): se vogliono farci credere di avere accesso a tutti i più reconditi recessi dell'intimità di un uomo - e di conseguenza farci vergognare della nostra pochezza attraverso la rappresentazione di un nostro simile (più bello, ovviamente) - devono metterci in condizione di vedere proprio tutto e non limitarsi a sbirciare da sotto una porta del cesso come alla scuola media.

L'intento perseguito dal film meglio riuscito: è difficile criticare la scelta di rimpinzare l'immagine ipersemantizzata (si pensi soltanto alla tavola imbandita di ogni ben di Dio durante la colazione oberata di prodotti, marche, corn flakes, carta di Kentucky Fries, mais,...senape, che sembra offrire i soliti colori in cui sono immerse le cucine americane kitsch che ammorbano la sala di effluvi di burro di noccioline e pane tostato, percorse dal dilemma esistenziale: "Pepsi or Coke") con scritte televisivamente filologiche, che spesso lasciano il posto a pubblicità talvolta false e talaltra obliquamente autentiche (yahoo, cazzo!!!).

Non è criticabile perché moltiplica il gioco di rimandi e palesa i meccanismi televisivi; certo che è un metodo un po' ruffiano e molto furbo, che si avvale della presenza costante di uno schermo che duplica immediatamente la "realtà", mettendo quindi costantemente in dubbio che quello sia davvero il mondo che esperiamo quotidianamente e contemporaneamente affermandolo in una sorta di dissociata schizofrenia.

Il grande limite del film è quello di organizzare ottimamente l'analisi della realtà, accentuare la superficialità con un montaggio che alterna sgranature video e racconto cinematografico, riproponendo una volta di più il dilemma del Cinéma-veritée, senza andare oltre al solito impasse che racchiude la storiella comunque proiettata su uno schermo a seguito di convenzioni che filtrano la realtà, nonostante riesca talvolta a far scaturire il dubbio dell'innaturalezza iperreale proprio nei frangenti in cui i meccanismi di assimilazione scattano per accentuare l'immedesimazione con gli eroi dello schermo, che però cercano complicità (come Funny Games, ma senza lo spessore filosofico di Haneke) con il pubblico grazie alla naturalezza con cui Ed affronta l'invasione della sua vita, finché non capisce che non sarà possibile uscirne: è la solita questione che rende accettabile qualunque situazione se non è eterna.

Quella goffaggine, che scatena l'ilarità e consente al pubblico di aderire al messaggio riconoscendosi in almeno uno degli ambienti riproposti come centri di ascolto collettivo (unica forma di socializzazione), è la dimostrazione che tutto è costruito e nel momento in cui si scopre l'artificio, esso diventa il modo di fine millennio per mostrare che in realtà è tutto vero, o meglio che quell'artificiosità occulta malamente l'atteggiamento più emotivamente vicino al sentimento che si vuole nascondere in un rigurgito di timidezza ed è travolto dall'irruenza delle tre telecamere che irrompono nei momenti più inusitati al punto che anche un popolo di guardoni come noi insorge indignato di fronte alla discesa notturna sui due amanti appartati in macchina. La steadycam diventa metafora della incombenza irrefrenabile della società televisiva.