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Pola X
Anno: 1999
Regista: Leos Carax;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 26-05-1999


Pola X

POLA X


Regia: Leos Carax
Soggetto: Leos Carax, Jean-Pol Fargeau et Lauren Sedofsky basato su Pierre or the ambiguity di Hermann Melville
Fotografia: Jean-Yves Escoffier
Interpreti: Guillaume Depardieu, Catherine Deneuve, Katerina Golubeva, Delphine Chuillot, Laurent Lucas, Sharunas Bartas, Patachou
Produzione: Arena Films
Distribuzione: Istituto Luce
Formato: 35 mm.
Provenienza: Francia
Anno: 1999
Durata: 134'

Alex ad Anne:

"Ho questa sensazione:

se passo vicino a te,

passerò vicino ad ogni cosa e

per un tempo lunghissimo"

Mauvais Sang

Pierre - "Credevo di fare bene. Che illusione?"

Volevo darti tutto e invece non ho niente"

Isabelle - "Siamo insieme, e' tutto"

Pierre - "E dove siamo noi...?"

Isabelle - "Noi... siamo fuori da tutto"

Pola X

Un film che alterna visioni seducenti a ridicoli dialoghi, lentezze leziose mescolate a citazioniste intuizioni per un personale adattamento da Melville (l'hotel che ospiterà Pierre si chiama Ahab). Serenità luminosa e bionda a tenebre brune piene di dubbi. Geniale nel suo cullarsi nel riferimento cinematografico, soprattutto nella figura di Marie/Deneuve: splendida quella mano da tergo che emerge dalla sdraio aleggiando sul parco a tutto schermo;

 

L'ingresso alla magione di Pierre e l'avvicinamento in dolly ai battenti della finestra fanno pensare al palazzo di Porcile, con le fontane al centro: magari Carax non aveva in mente il film di Pasolini, ma uguale è l'intento dell'intera ripetitiva prima parte del film con la descrizione della vacua esistenza di Pierre, cullato nella ricchezza tra una corsa in moto e un incontro amoroso con l'efebica Lucie: il regista vuole probabilmente comunicare lo squallore della borghesia in preparazione della scelta di rottura, introducendo gradualmente l'inaccettabile marciume nascosto dietro i paraventi, ma contemporaneamente la descrizione di quel rapporto sentimentale ci ammannisce frasi (consapevolmente?) melense come "Un amore giovane e senza appello", forse esagerate nell'insistenza della estenuante rivelazione, che poi rimane ambigua e non svelata. Simile a quelle dei film sui giovani borghesi turbati degli anni'70s è anche la figura paterna: ingombrante e sistematicamente smontata nel ricordo a partire dalle vecchie carte inutili sparse sullo splendido campo-controcampo che staglia il volto di Marie languidamente (e con desideri evidentemente incestuosi) distesa lungo il letto sullo sfondo della schiena, nella prima parte perennemente nuda, di Pierre, per arrivare alla graduale distruzione della vecchia moto, insieme retaggio culturale, imbarazzante eredità, ricordo di cui liberarsi per purificarsi dell'ambiguità e definitiva nemesi. Una reliquia, come tante di quelle sparse lungo il dipanarsi della pellicola La sequenza del dialogo tra madre e figlio è una perla di attenzione fotografica e movimenti di macchina che senza stacco passano da un accenno di campo e controcampo ad una torsione che introduce entrambe le figure in un'inquadratura ancora più lasciva per l'assenza di contatto tra i due corpi ravvicinati.

Da quella condizione di insostenibilità si scatena la pulsione a ricercare la Verità: l'impostazione del film impedisce di discriminare tra le tentazioni metafisiche che questa scelta sembra comportare e l'idea di purificare la propria esistenza imperniandola sul rifiuto della menzogna, impostata nell'esistenza reale allo stesso modo della ricerca narrativa dello scrittore del "romanzo di una generazione", come recita la manchette del libro di Pierre/Aladin, intitolato non a caso À la lumiere. Ma a questi due livelli, vita reale ("Tre inseparabili separati") e sprofondamento letterario ("Un fantasma intravisto nella notte"), si somma quello onirico, che trova collocazione nell'ipnosi della fotografia notturna nella foresta: Isabelle infatti compare dapprima nei sogni di Pierre, per poi materializzarsi in una zona di confine tra realtà di luce (l'ansa luminosa del fiume dove Pierre si trova con Lucie) e tenebra che avvolge la ragazza, la cui comparsa si avverte ancora in assenza. Quando Pierre è al bar con Thibaud si sente la presenza fuori campo della ragazza, e questo è un pezzo di bravura giocato sulla sospensione degli eventi, già lenti e qui ancora più rarefatti, data dalle inquadrature diverse sullo stesso asse di Pierre con le gambe accavallate al tavolino in piena luce, mentre Isabelle è un oscuro fagotto di indumenti che spariscono dietro la macchia buia di un albero. Infine viene allo scoperto, rimanendo nell'ombra di una foresta degna dei Cure (il vecchissimo video di A Forest è creditore delle due corse in moto con epiloghi differenti, come nel gioco di contaminazioni che s'innesca proprio con la fuga di Pierre, la corsa in moto della Deneuve somiglia al richiamo fumettaro di Almodovar in Mujeres al borde de un ataque de nervios), narrando di una Casa nera nell'est europeo; e un brivido corre al ricordo dell'inizio del film: un bombardamento di aerei della Guerra Mondiale Scorsa che devastano cimiteri e tombe, un presagio che non getta luce sull'intreccio, ma aggiunge un tassello di sensazioni in libertà che sono la cifra del cinema di Carax. Il lungo monologo della ragazza è un flusso di coscienza sintonizzato sulla nostra percezione: la mdp riprende in leggera plongée da davanti e ci sentiamo quasi avvolti da quei rami, tenuemente squarciati dai lampi grigiastri, camminiamo anche noi recuperando nei nostri più reconditi recessi quell'humus da cui Pierre riceve la rivelazione della propria ascendenza, ricercando nella nostra foresta personale ognuno i propri misteri. La parte oscura di Pierre, una componente oscura che vive in un tunnel di cui non vediamo mai oltre la soglia nel quale avviene la svolta. "Io ti ho detto la verità", dice la voce di Isabelle al telefonino al risveglio alle 8.27: dunque c'è il plausibile dubbio che possa essersi trattato di un sogno, nonostante la folgorazione: "Lei esiste". E non si può "dubitare di lei", un dolce dogma in cui crogiolarsi, sennò non c'è più niente che possa salvarsi: infatti è sufficiente una menzogna per macchiare tutto.

 

Con il suo tono considerato presuntuoso dai critici, Carax tiene a condensare il significato più palese del film in una frase rivelatrice: "Tutta la vita ho aspettato qualcosa che mi spingesse al di là". Eppure con l'immersione del film nel nuovo mondo, composto da Isabelle, la ragazzina e la zingara, si avverte che ci sono molteplici altre pulsioni che attirano il regista e scatenano infiniti nuovi percorsi: accennati, abbandonati e ripresi; emozioni che tornano, inchiodando lo scrittore alla sua natura e dunque al suo destino. E allora la frase che funge da filo rosso può essere: "Dopo l'ombra e il segreto, la rivelazione, la piena luce". Proprio quella spinta al di là, nascosta nell'antro del tunnel e occhieggiante nelle luci ipnotiche della foresta, ci offrono quella ridda di eventi esplosivi che popolano la seconda parte del film, durante la quale Pierre "sputa in faccia al mondo", svelandocene uno nuovo racchiuso nell'opificio, ripreso esaltandone le forme spettrali (il post-industriale per quanto ormai manierista trova lì la sua più armoniosa e ruvida espressione), il suo verticalismo (le scale alla Escher, ma anche le riprese dal basso come in una prigione piranesiana), gli usci che mettono simbolicamente alla prova la possibilità di ritrovarsi al di là della soglia, che delimita gli anfratti-loculi individuali, dove consumare un presunto incesto nuovamente da indovinare nel buio, ancora illuminato da tenui lampi nella dominante bruna delle posizioni plastiche e conturbanti, seducenti; tutte tappe lividamente popolate di guizzi di luce (o Lucie?) verso quel vaticinio musiliano della editrice: "Non possiamo prendercela con la nostra epoca, senza essere domati".

In quel gesto di issare le porte non si rintraccia tanto un bisogno di isolare, piuttosto nella nuova sospensione inserita con perizia tra il momento della chiusura e l'apertura liberatoria aiuta a rendere una conquista il rivedersi. E l'attraversamento di una quantità infinita di ponti sottolinea questa propensione alla ricerca di una comunicazione estrema, che viene meno in tv, mentre si accentua sempre di più l'urgenza della scrittura: bellissima la figura di Pierre ripreso di spalle, copertissimo nel gelo del capannone, al contrario del nudo di inizio film, impegnato a scrivere di fronte ad un imponente finestrone che lo sovrasta e lo porta a rifugiarsi nel grembo della sorella-amante, come facevano gli uomini impauriti dell'espressionismo, che si rifugiavano tra le ginocchia delle donne a loro vicine; e con la stessa immaginazione sulfurea ci regala la sequenza più emozionante e surreale: una discesa per rapide di un canyon solcato da un torrente di sangue in cui i due protagonisti sono immersi e sballottati: "Potete anche non crederci, ma poco fa ho scritto delle pagine di gioia".

 

"Dopo l'ombra e il segreto, la rivelazione, la piena luce"