Dopo avere indagato con aperture ironiche il modello mistery-giudiziario attraverso lo sguardo di un protagonista scrittore-giornalista nel deludente e sonnacchioso "Mezzanotte nel giardino del bene e del male", Clint Eastwood ritorna su una figura di giornalista per spingersi nei territori del noir più classico. In "Fino a prova contraria" il protagonista è un vero professionista della cronaca, non uno scrittore prestato a mensili patinati per articoli di costume come accadeva nel penultimo lavoro; una scelta anche filologicamente corretta, dato che il "giornalista di nera" è uno degli "eroi" della galleria noir anni’40.
Outsider complesso, cinico, disilluso, solitario, sfuggente, eppure dotato di una sua leggererezza, simpatico, con una faccia-tosta/da-schiaffi da manuale, il protagonista interpretato magistralmente dallo stesso Eastwood è la summa di pregi e i difetti dei suoi ‘colleghi-di-genere’: ha un volto che è una mappa della sregolatezza, ha problemi con l’alcool, è uno sciupafemmine, un marito infedele, e professionalmente è un cane sciolto; ha smesso di bere da due mesi, ama la sua famiglia, stravede per la figlia, vive per il suo lavoro, non scende a compromessi, ricerca la verità ad ogni costo. Un giornalista che si trasforma in detective, un personaggio d’azione nella misura in cui si mette in gioco personalmente, e dimostra coi fatti l’assurdità della pena capitale e il rischio di errore irreparabile implicito in essa, senza mai esplicitare una posizione retorica o moralistica al riguardo: il problema sta ancora altrove, nella fallibilità del sistema giudiziario.
Entro mezzanotte: il timelock, il limite di tempo, il meccanismo di drammatizzazione per antonomasia, artificio sempreverde. La corsa contro il tempo, "salvare il condannato all’ultimo momento e per un soffio": uno standard - non a caso parodiato da Altman nell’epilogo del suo "The Player/I protagonisti", come perfetto esempio di intrattenimento hollywoodiano (ecco che veniva proposta la sedia elettrica, mentre in Eastwood c’è la ‘più attuale’ iniezione letale). Nella fattispecie, uno standard del genere. Ma quello del film di Eastwood è un countdown (lungo un giorno) dilatato, quasi dimenticato/negato (‘si perde tempo’), perché spostato dall’obiettivo al personaggio: non tanto "una manciata di ore" a disposizione dell’eroe per compiere la sua missione, quanto "una manciata di ore" a disposizione del protagonista per svelarsi, lasciandosi coinvolgere o meno dall’‘avventura’. D’altra parte, come fare rispettare gli orari a un protagonista sbadato e sregolato? Non a caso "sfora" il timelock, risolve il caso non ‘all’ultimo minuto’, ma un ‘minuto dopo’, quando ormai il condannato ha già assaggiato un morso di morte. La suspense viene rilanciata dalla trasgressione del limite/regola, frustrando le attese. Ulteriore conseguenza: quando nello scioglimento rivediamo l’ex-condannato, ormai libero, con la propria famiglia a fare shopping una sera d’inverno, ci pare quasi un fantasma – il fatto che non ci sia scambio di battute oltre ad un cenno di saluto tra salvatore e salvato rafforza questa impressione di "dimensione parallela", fuori (dal) tempo; l’ambientazione natalizia fa il resto, e spinge verso il magico. Insomma, è vivo, eppure è come se fosse morto; in fondo gli sono stati rubati sei anni della sua vita ingiustamente, ed ha vissuto nel terrore: un happy-end amaro, poco rassicurante, bello.
Il percorso si muove attraverso depistamenti dei media e false testimonianze, ma, soprattutto, è accidentato dalle intersezioni delle sottotrame legate al privato dell’eroe-antieroe che permettono allo sceneggiatore e a Eastwood di creare un difficile e solido equilibrio tra intreccio e personaggio. Anzi, tanto più il lavoro pare essere teso alla costruzione del personaggio, definendolo apparentemente a scapito dell’intreccio, quanto più l’intreccio stesso si ispessisce. Una soluzione magari non originale, ma tutt’altro che facilmente gestibile; un ottimo lavoro di sceneggiatura basato sul metodico capovolgimento, sull’inversione e lo slittamento… Un esempio: la bellissima sequenza della visita allo zoo di Eastwood con la figlia, in cui senza soluzione si passa dalla comedy più kitsch al grottesco al tragico, mentre la corsa del passeggino si trasforma da gioco in dramma… Una sequenza "action" non meno forte della corsa in auto dell’ubriaco-marcio Clint (a sua volta incrinata e semi-capovolta, trasformata in un gioco "di sponda": il guard-rail, le scintille, come un’auto di un videogame manovrata da un giocatore inesperto).
La confezione rispetta come sempre quel rigore formale, quella classicità linguistica che di film in film si è venuta affinando, rappresentando la cifra dello stile di Eastwood, la chiave della sua eleganza.
Il titolo originale offre una doppia lettura che nella (inutile) titolazione italiana si perde: "True Crime", cioè crimine vero; rispetto alla costruzione drammatica e alla materia trattata ricorda/certifica il "realismo", la "verità" di ciò che racconta nonostante lo zigzagare tra i tòpoi del noir (all’origine del soggetto c’è una storia vera); d’altro canto, quel titolo, rispetto al tema trattato, può anche suggerire una possibile tesi, e il "vero crimine" risulterebbe indicato nell’errore della giustizia e nell’applicazione della pena capitale - un’esecuzione che si rivela per quello che è, un (altro) omicidio. Ma, ripetiamo, Eastwood tende a evitare prese di posizione, come a sottolineare la sua volontà di raccontare una storia innanzitutto: un racconto con tutti i crismi del cinema narrativo classico migliore, rispettando stilemi e situazioni di un genere, con piccoli scarti intelligenti, e molto sentimento. A un secondo livello (tema e personaggi), un tassello in più del ritratto d’America che i film di Eastwood vanno componendo – un mondo imperfetto, e romantico.