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Kanzo Sensei - Dr.Akagi
Anno: 1998
Regista: Shoei Imamura;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 29-04-1999


Kanzo Sensei
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Kanzo Senseï


Regia: Shoei Imamura
Soggetto: basato su Kanzo Senseï di Ango Sakaguchi
Fotografia: Shigeru Komatsubara
Montaggio: Hajime Okayasu
Costumi: Keisuke Chiyoda, Ikuko Saito
Musica: Yosuke Yamashita
Suono: Kenichi Benitani
Produttori: Hisa Iino, Koji Matsuda
Produzione: Imamura Production
Distribuzione: Istituto Luce
Formato: 35 mm.
Provenienza: Giappone
Anno: 1998
Durata: 128'
Akira Emoto ... Dr.Akagi
Kumiko Aso ... Sonoko, assistente del dottore
Jyuro Kara...Umemoto, superiore del Tempio Enmei
Masanori Sera...Toriumi, chirurgo
Jacques Gamblin...Piet, soldato olandese
Keiko Matsuzaka... Tomiko, proprietaria della casa chiusa
Misa Shimizu... Gin, madre di Sonoko
Yukiya Kitamura... Sanchiki, contabile al comune di Hibi
Masa Yamada... Masuyo, madre di Sanchiki
Tomoro Taniguchi... Nosaka, tenente nel campo di concentramento
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Imamura raffina i personaggi del suo caustico mondo, collocato come sempre nelle selvagge isole del sud del Giappone nostalgicamente ritratte, ma di quella malinconia per i mari del sud che ammanta pure i romanzi di Ôe Kenzaburô, lì accompagna una mappa all'inizio del film, contornando il racconto con quel tono un po' da illustrazione non più abbandonato dalla pellicola e sancito dallo sberleffo canzonatore, ma anche molto triste: "Approfittiamone finché siamo vivi"; è la frase che un giovane rivolge alla ragazza che sta palpeggiando. Ella è disposta con naturalezza a fare l'amore (ricordando in questo l'atmosfera di Kamigami no Fukaki Yokubo, Il Profondo Desiderio degli Dei), ma impaurita dal frangente dei bombardamenti americani del luglio 1945 (a quanto pare una fissazione degli yankees boys, ritratti in un breve spezzone illustrato da una grafica fumettara). Prima della fine dei titoli s'introduce ancora la figura affannata del Dr.Akagi, anch'egli frutto di un tratteggio eccessivo, che scardina i rigidi fondamenti della società giapponese scricchiolanti sotto i piccoli passi del trotterellante Dottor Fegato, preso in giro per la sua fissazione per l'epatite (e fino al termine non sapremo se si tratta di un ciarlatano o di un luminare), sovvertiti dal morfinomane chirurgo Toriumi (la sua dipendenza produrrà una delle più allucinanti e disperate scene del film: "Che mondo di merda. La vita non è che un lungo addio". Commentato da un lancinante accordo jazz) e vilipesi dal monaco alcolizzato e puttaniere (paradigma di realtà a dispetto del suo ruolo), coinvolti tutti e tre in una esumazione alla Frankenstein e da altri misfatti, la tenutaria del bordello, amica di Akagi, capace di slanci generosi (si concede al comandante medico del campo, che la concupisce da tempo al punto di inventare un'epidemia di tifo per ricattarla), eppure la vediamo impegnata a convince Sonoko a prostituirsi, sostituendo una delle ragazze, il contabile ladro che impazzisce: Imamura inscena gli stessi personaggi raccontati nei film di Kurosawa degli anni '40, senza nobiltà, resi più grotteschi, ma la chiave comica non diminuisce l'effetto dirompente di denuncia della natura selvaggia dell'uomo, che si può esprimere in senso positivo con la disponibilità a distribuire amore profano e piacere di Sonoko o con l'abnegazione del dottore, che rintuzza le sue velleità di luminare dedicandosi a malati indigenti, di contro la natura beluina del tenente, che si accanisce con sadismo ottuso contro il prigioniero olandese, violento quanto l'enorme bolla di inferno con i contorni di un fegato che si scatena dalla bomba su Hiroshima, che incombe minacciosa su una natura per tutto il film solare e benigna: l'occhio spaventato della balena (simbolo omologo all'anguilla del precedente film vincitore a Cannes'97) a tutto schermo ne è inequivocabile segnale, la cui centralità è oggetto di prolessi per tutto il film, radicando nella pratica della prostituzione senza drammi l'atteggiamento positivo della ragazza, che supera con pochi traumi persino le perversioni del comandante, ricalcate con sarcasmo dall'Impero dei Segni di Oshima.

Tutto è esagerato: la radice di Konjak addentata durante la corsa lungo il mare, dai caldi toni cromatici tipici del luminosissimo cinema di Imamura, la frenesia della corsa stessa ("Un medico condotto deve avere buone gambe per correre ovunque ci sia bisogno di lui, se si perde una gamba, deve correre sull'altra e se entrambe si romperanno, allora correarà sulle proprie mani; deve correre sempre, anche se è sfinito. Fino alla fine", si ripete ossessivo), le dimensioni della lampada ad arco utilizzata per la ricerca al microscopio che occupa con gusto il centro del film, la quantità di coriandoli prodotti dalla frantumazione dell'ultima lettera del figlio di Akagi, i colori del quartiere a luci rosse nel bell'inserto di ricordo della giovane puttana orfana, un episodio che regola le sue abitudini di sessualità gioiosa, proprio perché disattende la norma di non fare l'amore gratis, ma senza connotazioni ribelli, bensì con naturalezza e consapevolezza (sintomatica la ripresa dal basso sulla barca che conferisce autorevolezza alla corporeità acerba di Sonoko, dispensatrice di piacere, titanica, esperta e applicata con dedizione al servizio offerto con generosità). Il capolavoro di equilibrio tra bozzetto esagerato e coerenza di carattere indomito e caparbio si coglie nel ritratto del dottore: vestito di bianco con elmetto legato su una spalla, cravattino nero, perennemente di corsa su quei caratteristici passetini, ridicoli ed inarrestabili, evocatori dell'inanità degli sforzi per conseguire successi prima di tutto nei confronti della grettezza dell'umanità. Gli altri personaggi sono volutamente stereotipati per proseguire il lavoro da catalogatore entomologo del regista, che in questo modo può valersi di uno stesso carattere per raccontare la vicenda e con un minimo guizzo registico renderlo macchietta comica.

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La bellezza del film si può individuare nella commistione di umorismo e malizia e nel conseguente cortocircuito che si crea tra la naturalità con cui si affrontano gli eventi come se tutto fosse normale, nonostante la drammaticità anche definitiva di certe situazioni e l'atrocità dei brutali eventi stessi, raccontati con realismo sarcastico che si trasforma nel finale in onirismo surreale, eversivo quanto la valenza rivoluzionaria della ludica esplosione di libertaria passione in Eijanaika. L'accentuazione dei contorni diverte con la complicità della radio, basso continuo che con le notizie di successive ristrettezze dimostra la graduale capacità di abituarsi alle notizie più incredibili, fino alla notizia telegrafica della morte del figlio medico in Manciuria, in attesa dell'ultimo atroce malinteso sulla natura di quel fungo pernicioso, a cui è demandato il compito di rivelare il senso della metafora epatica, che in tempo di guerra risulta maggiormente perniciosa: "É la collera della gente giapponese per la guerra" e quella massa minacciosa in cielo è una volta di più lo spirito di Gojira (Godzilla di Ishiro Honda, 1954), emanazione della natura offesa.

Già dal prologo si riconoscono i temi cari al sovversivo regista nipponico: donne protagoniste positive (Narayama Bushi-Ko,La Ballata di Narayama) e carnali (Kamigami no Fukaki Yokubo, Il profondo desiderio degli dei), invadenza delle autorità militari come in Buta to gunkan (Porci e Corazzate), in cui si stigmatizzava anche il colonialismo, riconosciuto pure in quest'ultimo lavoro come il peggiore dei mali possibili, rifiuto di qualsiasi autorità da dileggiare contrapponendole gioia di vivere (Eijanaika, Che c'importa!) e cocciuta volontà. Senza toni retorici, anzi con una carica eversiva che coinvolge tutto, persino le affermazioni anti-occidentali, commentate ironicamente da uno splendido quanto occidentalissimo Acid Jazz, per quanto l'autore condivida la repulsione per il colonialismo ("Odio l'arroganza dei militari, ma sotto il giogo occidentale sarebbe peggio").

Uno degli obiettivi dell'irriducibile sarcasmo di Imamura è il militarismo ed il momento più esilarante in questo senso si gode con la parodia delle esercitazioni che coinvolgono minutissime vecchiette, brutalizzate da un proprietario di lavanderia, autoproclamatosi ufficiale in virtù di una divisa: folgorante rivelazione della natura autoritaria nascosta sotto i panni più mansueti, che rendono ancora più agghiacciante le performance di violenza sadica del tenente, avvicinandone la natura a quella di chiunque (anche la nostra, per quanto pacifici e antimilitaristi possiamo essere). Contemporaneamente ci rimane una speranza: questa si deposita nel ridimensionamento del medico a partire dalla propria coscienza in seguito alla morte della sua paziente, da lui trascurata quando la sua mente era affollata dagli applausi del simposio medico, ma soprattutto nella genuinità di Sonoko, disarmante dea dell'amore, splendida creatura marina distesa sulla barca al sole (incarnazione della Dea Kannon ditata all'inizio del film), seminuda dopo la pesca al cetaceo, come già avveniva negli anni '70s con la protagonista di Kamigami no Fukaki Yokubo (Il Profondo Desiderio degli Dei), è lei l'unica possibile salvezza di fronte allo spaventoso (eppure antropologicamente affascinante) fegato del 6 agosto 1945, che si sostituisce nel cielo alla balena incontrata nel mare, proseguendo il discorso interrotto con Kuroi Ame (Pioggia nera), colpevolmente mai distribuito in Italia.