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Train de vie
Anno: 1998
Regista: Radu Mihaileau;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Francia; Belgio; Olanda;
Data inserimento nel database: 12-03-1999


Train de vie

Nonostante l’ambientazione e la temperie culturale che registra la presenza massiccia del teatro yiddish, della musica klezmer, dei racconti di Singer; nonostante dunque la collocazione in una terra lontana e scomparsa, Train de vie parla agli europei dell’Ovest e di oggi, e si inserisce in un quadro in cui non è affatto scontato il giudizio sulla Shoah. Lo dice fin dall’inizio con una battuta che è un po’ agghiacciante: appena avuta notizia dal "pazzo" di quel che si sta preparando, qualcuno (forse il rabbino) dice: non potremmo dire che non ci abbiamo creduto! Invece sappiamo che in tanti non ci hanno creduto, non hanno capito o non hanno voluto capire (poi c’erano quelli che pur sapendo non hanno mosso ciglio, ma è un’altra storia). Comunque uno dei pregi del film è di entrare, con rapidità sconcertante, nel vivo, in medias res. Pochi preliminari, anzi punti. Pochi minuti e c’è già il fermento della mobilitazione generale, animata subito dalla musica e dal muoversi in pochi fotogrammi degli animali del villaggio (bellezza di queste riprese, parlanti in pochi secondi come quelle di Kiarostami, Dov’è la casa del mio amico?). Il viaggio, poi, è figura che accompagna da sempre l’ebraismo (sono ebrei molti autori di fantascienza, proprio per questo); solo che noi siamo forse più abituati al viaggio di derivazione "Ulisse", viaggio di un singolo alla ricerca di se stesso, o viaggio di formazione, come il Wilhelm Meister di Goethe (e quindi Falso movimento di Wenders); la cultura biblica antica, invece, dall’ebraismo fino ai puritani e ai fondatori degli Usa vedono il viaggio e la frontiera come itinerario collettivo. Ne scrive ancora Michael Walzer, sociologo e filosofo della politica, liberal, in Esodo e rivoluzione. L’esilio in terra d’Egitto, la schiavitù, la marcia dietro a Mosè, il passaggio del Mar Rosso sono tutti elementi, tappe decisive, che servono a una moltitudine tribale quale erano gli israeliti dell’epoca a prendere coscienza della propria esistenza come popolo, a darsi delle leggi, a darsi una visione progettuale (che, per chi ci crede, viene da Dio). Così nell’itinerario del treno i vincoli si rinsaldano, si consolidano anche gli schieramenti (perché no?) con tanto di cellule dal Partito. E nessuno, a fine viaggio, sarebbe più quello di prima, anche se il viaggio fosse avvenuto davvero, intendo.

Perché poi c’è l’altro viaggio, quello vero, quello definitivo, finale come la soluzione finale. E il procedere del film (non che la conclusione sia inaspettata per la verità...) lo annuncia di colpo brutalmente. C’è un cambio di registro, da un momento all’altro: abbiamo visto tutte le belle dinamiche della comunità itinerante, fino ai nazisti fatti fessi (giusto il richiamo di Kezich al Vogliamo vivere di Lubitsch, ma c’è anche il remake di Mel Brooks) e alla solidarietà con gli zingari. Poi... c’è un carrello avanti, in soggettiva, dal tetto dei vagoni del treno. E dire treno, dire vagoni dire binari è già sinistro. Lo è tanto più per chi ha visto il film-documento di Lanzmann. Il pensiero va allora a Serge Daney e alla carrellata di Kapò, biasimata da Rivette e acutamente stroncata da Daney che non la vide mai, ma la capiva tutta. Quel carrello avanti sulla donna fulminata dal 220 del reticolato era veramente blasfema, metteva lo spettatore in un posto dove non poteva collocarsi senza fare un arbitrio. Poteva esserci un siparietto, una cesura sulla colonna sonora, una dissolvenza: no, carrello avanti sui binari; da qui si capisce che marca male, inesorabilmente; il destino è segnato. Il che non toglie nulla al bellissimo film, ma mette in gioco la nostra competenza di spettatori, quello che sappiamo della storia, toccando corde forse nascoste ma ben sensibili.

Alberto Corsani