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L'assedio
Anno: 1998
Regista: Bernardo Bertolucci;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 11-02-1999


L'Assedio

BESIEGED

Regia: Bernardo Bertolucci
Soggetto e Sceneggiatura: Clare Peploe e Bernardo Bertolucci, sulla scorta del racconto di James Lasdun contenuto nell'omonimo volume pubblicato da Garzanti.
Fotografia: Fabio Cianchetti
Montaggio: Jacopo Quadri
Scenografia: Gianni Silvestri
Costumi: Graciela Mazon
Musica: Alessio Vlad
Interpreti: Thandie Newton: Shandurai
David Thewliss: Mr. Kinsky
Claudio Santamaria: Agostino

Produttore: Massimo Cortesi
Produzione: Mediaset
Distribuzione: Medusa
Formato: 35 mm.
Provenienza: Italia
Anno: 1998
Durata: 90


"Freedom. Arriving Sunday at dawn". Per conseguire la promessa dalla prima parola si dovranno immolare convinzioni, oggetti di culto, abitudini mentali... e spartiti enigmaticamente svuotati in accordo con la casa.

Un Griot accovacciato sotto il più classico degli stereotipi del baobab, la radice dell'Africa, introduce questo apologo sui rapporti tra le sensibilità corticali di due continenti: il canto è triste, in occidente non se ne comprendono le parole. Ma un montaggio di immagini si incarica di illustrare i temi probabili: lo stato delle strutture sociali, il peso dell'arrogante presenza militare, mentre le strade polverose con quella dominante gialla fin da subito ci immergono in Africa, quella da cartolina un po' impegnata. I manifesti ai muri dopo avere inserito tutti gli elementi aggiungono il commento: un militare con occhi disumani campeggia sui colori africani che contornano la mappa del continente stilizzato a pubblicizzare un National Founder's Day, che non promette nulla di buono.

In mezzo ai sapori e ai suoni di uno stato subsahariano si frammezza la figura graziosa di una donna che fin da subito incarna lo spirito della donna africana e sembra un omaggio postumo alle eroine di Djibril Diop Mambéty: le reazioni del suo corpo sono improntate alla naturalezza, le emissioni di lacrime rabbiose o il rigagnolo di piscio che scorre sulle gambe per la paura le conferiscono dignità, anziché sminuirla o renderla indifesa; acquista quello spessore, di cui era priva la verginella che ballava da sola nelle colline del Chianti, e la sua figura si erge come provenisse da quell'urlo silenzioso che conchiude il prologo con la fuga ellittica nella quale il suono di un aereo è sufficiente a trasportarla in un movimento di occhi e cinepresa che spiccano il volo in una combinazione piroettante. Quello sguardo smarrito, attonito e dolente vale centinaia di servizi giornalistici sull'emergenza immigrazione.

Gli incontri di quella splendida figura si spostano in occidente e la sua crescita viene trasfigurata in una seduzione palpabile ma non isolabile chiaramente, nonostante l'atmosfera ancora dannunziana del palazzo in cui il vate aveva ambientato Il Piacere, e che porta a confondere le cascate di sonorità simili a Keith Jarret con le pastose descrizioni di My Favourite Thing di Coltrane in un calderone dove i ritmi della tradizione di Papa Wemba si alternano alla cultura classica occidentale. La banda sonora dipana un racconto parallelo e autonomo: un cieco potrebbe seguire l'evoluzione della storia senza commenti verbali, i dialoghi sono ridotti all'essenziale; seguire le lunghissime dissolvenze musicali che annunciano l'intervento del griot vuol dire amalgamare i due mondi, anche quello reale con quello semi-onirico, ma a partire da quelli africani. Ovviamente con il retroterra europeo degli autori, ma l'approccio anche e soprattutto musicale cancella l'arroganza coloniale: le danze sono condotte dai ritmi africani, a quelli è demandata il procedere del racconto.

Nella casa di Roma l'assedio è molteplice. Prima di tutto architettonico: sembra una struttura pensata da Piranesi, con bassi ambienti isolati dalle stanze con gli altissimi soffitti padronali delle stanze superiori ariose in ali del palazzo divise con giochi di scale anguste, che dividono gli spazi e i territori di competenza in senso verticale (moltissime le plongée attraverso le luci e le ombre della tromba delle scale), dove agiscono montacarichi, la cui funzione di armadio è spesso scippata dal bisogno di comunicare (primo ralenti stroboscopico, che espunge parte dei suoi fotogrammi per richiamare l'attenzione sullo spartito vuoto di note ma con un enorme punto interrogativo e poi sul fiore recapitato tra i vestiti dell'armadio montacarichi), ma a partire da una supposizione di supremazia; in quei luoghi gli sguardi sono sempre bloccati da una balaustra, limitati da un arco, offuscati per l'interposizione di un'ombra proiettata da qualche oggetto. All'architettura oppressiva si somma il soffocamento di una cultura opprimente, decadente; la raccolta di oggetti preziosi è museale, ancorché di gusto raffinato ed eclettico, e ricopre un ruolo fondamentale nel frapporre distanze tra l'assediata e il pianista che la scruta, la studia e s'innamora del suo esotismo. Banale sarebbe, se rimanesse a questo livello di infatuazione, che denoterebbe un atteggiamento altrettanto colonialista; invece il film documenta un'evoluzione diversa a partire dal bellissimo pianto sullo scorcio delle scale, quando Shandurai diventa persona agli occhi di Mr.Kinsky, che aveva perpetuato lo stereotipo della cameriera fino a quel momento, nonostante avessimo visto la ragazza nella veste di brillante studentessa di medicina.

Una nota stonata è l'amico studente, che in omaggio ad un'insensata presa di posizione deve essere gay, perché solo un diverso si può confondere con una africana. Infatti si inserisce in sequenze inutili su episodi di burocrazia che esulano dal tema della seduzione simbolica dell'attrazione che promana dall'Africa. Un fascino che soltanto spogliandosi completamente dei propri paludamenti culturali si può compenetrare realmente: per una volta non si tratta di possesso - Shandurai dopo qualche minuto di titubanza lascia il letto vuoto con la sua impronta - da parte dell'europeo e nemmeno di integrazione della ragazza nera, che viene conquistata da una musica che è meltin'pot senza predominio.

Forse viene privilegiato il canto di Salif Keita, che emerge al termine di una lunga dissolvenza sonora la quale come per un'insorgenza della coscienza ci teletrasporta sulle ali del francobollo in Africa nuovamente, dove la protagonista è oniricamente impegnata a distruggere i manifesti del despota: il meccanismo elicoidale (come la forma delle scale) di ingresso nel sogno è sofisticato e ipnotico anche per noi, ammaliati dalla pelle vellutata del volto di Shandurai, reclinato e ripreso in macro, capace di mantenere la piacevole nenia in sottofondo finché il cambio di situazione evidenzia quella musica attraverso un movimento avvolgente della macchina da presa che a spirale si tuffa nel sogno da cui recede con la stessa sinuosa rotazione in senso orario. E allora la musica del Coro Bondeko invade tutti i nostri sensi, come avvenne per le rappresentazioni di Med Hondo o le mitologie di Emitaï di Ousmane Sembène, e anche il piacevole indugio sul corpo della donna, evidentemente a suo agio nel proprio delizioso involucro, diventa melodia come la musica afro azionata dai più impercettibili segnali, quale può essere un controluce dopo l'esame brillantemente superato, o scatenata a riempire l'oasi della propria stanza, per difendersi dall'invadenza delle note di Scriabine, Grieg, Mozart, Beethoven. La giovane freme di rabbia soltanto di fronte all'intrusione, inaccettabile, dell'anello; una soglia del livello di assedio che non riesce più a tollerare: "Io non capisco lei e non capisco la sua musica", un altro momento topico sottolineato da un nuovo ralenti sincopato che anticipa lo sconquasso del pianto successivo alla rivelazione dell'esistenza di un marito e soprattutto dell'urlo: "Cosa ne sa lei dell'Africa?", estrema accusa, che muta il corso del film e ribalta i ruoli tra cacciatore e preda.

La casa si va svuotando, ricostruiamo con la ragazza gli indizi (la comparsa del comboniano, la lettera, l'urgenza di realizzare capitali sufficienti) e sappiamo già cosa sta avvenendo, a quel punto riappare lo spartito con il punto interrogativo; il pezzo composto a partire dalla dinamicità e dai rumori dei lavori domestici di Shandurai scaturirà dalla progressiva liberazione dai canoni culturali e dall'assunzione dei modi creativi della commistione della musica africana con la civiltà americana: non è ovviamente un gospel l'ultimo brano che lo Steinway suonerà prima di venire immolato alla liberazione del marito di Shandurai, ma contiene molte anime e la ragazza seguirà la melodia come all'inizio faceva con le musiche africane ascoltate nel chiuso della sua stanza.

Non serve più lo strumento musicale protagonista di uno dei due discorsi amorosi che si intrecciano. Con quello si è ormai raggiunta la comunione di sentimenti: l'idolo ha ottenuto tutti i sacrifici, la purificazione si è compiuta e quindi la musa può concedere la propria vitalità senza acconsentire a rapporti da schiava, anzi l'incontro avviene avvolto da una naturalezza un po' ebbra, la sensualità vince, ma solo dopo che si è enunciato il criterio principale alla base di un rapporto tra umani, cioè il rispetto che Shandurai prova per Winston, il suo "uomo buono e coraggioso". Un parametro che con altrettanto ardimento Mr.Kinsky si guadagna mettendo in gioco tutto se stesso.