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Il silenzio Anno: 1998 Regista: Mohsen Makhmalbaf; Autore Recensione: Alberto Corsani Provenienza: Iran; Data inserimento nel database: 08-02-1999
Expanded Cinemah - lavoriNcorso
È possibile che la poesia si affianchi alla politica? Sì, se la
prima non è formalismo autoreferenziale. Sì, se la seconda riesce
a andare al di là dell'occasionale tatticismo, se riesce a ipotizzare
un diverso assetto del mondo, a crearne la visione e lavorarci
su. Ancora: può la poesia indagare il reale e farsi strumento
conoscitivo della società?
Ancora sì: i libri di Paul Auster ci disvelano, fra le pieghe
di una scrittura avventurosa e modellata sui «generi», alcuni
fenomeni della società del tardo capitalismo.
Anche «Il silenzio» presenta tratti di commistione fra la poesia
e la riflessione sociale. Ma lo fa in maniera non scontata, non
esplicita, forse volutamente e abilmente nascosta. Ma io comincerei
a dire ciò che secondo me «Il silenzio» non è. Non è un film di
denuncia sociale, anche se ne avrebbe molti presupposti; non ha
vocazioni terzomondiste (da noi sono in genere gli ipocriti a
apprezzarle), non fa leva sul dramma individuale per parlare di
una condizione generale (altri film, come il bello «Salaam Bombay»,
andavano in questa direzione). Ma non è neanche un film intimista:
il suo «spazio», vedremo, va al di là protagonista; non punta
sull'emotività o peggio sul patetismo.
Al contrario, si articola e si fa scandire dalla distanza, pur
con momenti molto intensi; si basa sulla mediazione esplicita
e visibile del linguaggio. Fa «sentire» la mdp (e il montaggio,
e evidentemente la musica). Butta lo spettatore nelle false piste,
come uno sfondo che sembra bianco e neutro, su cui far risaltare
i profili, e che invece si rivela increspatura dell'acqua alle
onde che si muovono tutt'a un
tratto.
«Il silenzio» trasuda cinema moderno, cinema degli anni '60.
Le prime inquadratura del bambino ricordano il Bergman di «Persona»
(ma anche quello posteriore di «Un mondo di marionette») e il
bambino stesso sembra un Alexander uscito da un baule nella bottega
di zio Isak: ha fattezze nordiche più che persiane. Le lunghe
carrellate sulle venditrici di pane e di frutta fanno pensare
a quelle estenuanti di «Week end» o ai documentari di Resnais
o anche a «Hiroshima»; ancora: le varie sequenze in bus (gli iraniani
evidentemente hanno una passione sfrenata per i mezzi di trasporto)
reiterano aperture e chiusure delle porte, come Bresson propone
e ripropone per appartamenti e ascensori. Così pure lo strumento
che suona sotto la pioggia rimanda all'accordatura dell'organo
nel Bresson di «Il diavolo probabilmente», così bene analizzato
da Daney (ora in appendice al libro di René Prédal, Baldini&Castoldi).
Debiti di formazione del regista? In ogni caso non appesantiscono
il discorso, come spesso capita a altri.
Ma aldilà della bellezza di alcuine sequenze, direi che il fascino
del «Silenzio» sta nello straordinario strappo, nel fossato che
scava tra una situazione di sofferenza da un lato (la povertà,
lo sfratto) aggravata dall'handicap personale; e, dall'altro,
una risposta che non è reazione sul piano della resistenza materiale,
della sfida ai cattivi (il vecchio, il padrone di casa), ma è
volutamente su un altro piano, quello del sogno; non un'utopia
finalizzata a creare nuovi rapporti di forza, ma piuttosto un'idea
fissa. Le 4 note della Quinta di Beethoven sono una vera e propria
ossessione, il ragazzino molla tutto e tutti per tener dietro
a un'(idea all'apparenza assurda, e soprattutto inutile a migliorare
la vita materiale.
Inutile, ingiustificata, in qualche modo gratuita. Che ha in se
stessa la sua unica ragion d'essere. Non una fuga dal mondo per
sopportarne le durezze, ma una vera e propria auto-formazione
da parte di un piccolo individuo che cresce esercitando con pervicacia
la propria personalità intorno a un'idea. Non un ideale, ripeto,
ma un'ossessione che lo muove attraverso gli ambienti dei grandi,
le insidie della natura, le privazioni. Null'altro esiste sensatamente
all'infuori di quelle note, il ragazzo non si fa scrupolo di lavorare
in maniera scadente, quando glielo fanno osservare non ha argomenti
per contrrobattere; non se ne vanta né se ne duole; è superiore
a tutto ciò. Insegue il proprio sogno incomprensibile a chiunque
finché non si materializza nella consonanza dei forgiatori. Potenza
e magia della musica; per inciso, si potrebbe incrociare «Il silenzio»
con «La stanza della musica» di S. Ray, trasmesso da Ghezzi il
31 gennaio, oppure con le righe che Igor Man (un grande), rievocando
l'insediarsi in Iran di Khomeini, dedica all'«immagine surreale»
vista quel mattino storico del 1° febbraio 1979 di un vecchio
cieco che sembrava uscito da un quadro di Chagall: suonava piangendo
felice il suo violino scordato» La Stampa, sempre del 31.1).
E poi qui ci sono tanti cerchi concentrici: chi è legato anima
e corpo alla musica? Il protagonista? Solo lui? I bambini nella
scuola o nel campo di addestramento? I mendicanti che suonano
nei bus? Tutta la città? Tutta una civiltà? Chi è questo soggetto
uno e molteplice? Quante fattezze prende?
Torno all'inizio: possibilità che la poesia si coniughi al discorso
critico sulla realtà e sulla società. Se è vero che il ragazzino
fugge dal suo lavoro (facendolo male e fregandosene, pur nel rischio
di perdere la casa) per stare dietro al suo istinto musicale,
in questo modo egli rivendica il proprio rifiuto a farsi cadere
addosso responsabilità non sue. Alla sua età ha diritto di sognare
e di inseguire ideali assurdi. È giusto che sia così.
E il discorso è attuale. Quanti, simili a lui, oggi sono investiti
di responsabilità che i grandi non vogliono o non sono in grado
di prendere su di sé? Quanti «piccoli operai» sono costretti a
farsi «piccoli sindacalisti» per gli altri piccoli operai che
intessono tappeti di lusso? Quanti piccoli Maradona si fanno sballottare
da una città all'altra perché i loro 120 milioni di valutazione
sono una boccata d'ossigeno per la famiglia? Splendidamente formalista,
aristocratico e sapiente, «Il silenzio» ci costringe a fare i
conti con problemi delle nostre città, dei nostri soldi e delle
nostre scelte. Ce ne fossero tanti così.
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