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Salvate il soldato Ryan - Saving Private Ryan
Anno: 1998
Regista: Steven Spielberg;
Autore Recensione: luca aimeri
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 09-11-1998


Saving Private Ryan (1998)

Tit. or.: Saving Private Ryan; regia: Steven Spielberg; dal romanzo: Band of Brothers, di Stephen Ambrose; sceneggiatura: Robert Rodat (e non accreditati: Frank Darabont, Scott Frank); prodotto da: Ian Bryce, Mark Gordon, Gary Levinsohn, Steven Spielberg; musica: John Williams; fotografia: Janusz Kaminski; costumi: Joanna Johnston; scenografia: Thomas E. Sanders; montaggio: Michael Kahn; cast: Tom Hanks (Captain Miller), Tom Sizemore (Sergeant Horvath), Edward Burns (Private Reiben), Barry Pepper (Private Jackson), Adam Goldberg (Private Mellish), Vin Diesel (Private Caparzo), Giovanni Ribisi (Medic Wade), Jeremy Davies (Corporal Upham), Matt Damon (Private Ryan), Ted Danson (Captain Hamill), Paul Giamatti (Sergeant Hill), Dennis Farina (Lieutenant Colonel Anderson), Joerg Stadler (Steamboat Willie), Max Martini (Corporal Henderson), Dylan Bruno (Toynbe), Daniel Cerqueira (Weller), Demetri Goritsas (Parker), Ian Porter (Trask), Gary Sefton (Rice), Julian Spencer (Garrity), Steve Griffin (Wilson), William Marsh (Lyle), Marc Cass (Fallon), Markus Napier (Major Hoess); produzione: Mutual Film Company, Mark Gordon Productions, DreamWorks SKG, Amblin Entertainment, Paramount Pictures; Usa, 1998

Per la terza volta, Steven Spielberg ritorna sulla tragedia della Seconda Guerra Mondiale, e i soggetti che rispettivamente informano le tre pellicole toccano i punti nodali di quella vicenda storica: L’impero del Sole si concludeva tra i bagliori dell’atomica; Schindler’s List trattava dell’Olocausto; in Salvate il soldato Ryan la narrazione prende le mosse dal D-day, dallo sbarco in Normandia delle truppe americane. Omaha Beach è il punto di partenza assunto da Spielberg per raccontare una storia non vera ma che storicamente presenta agganci con una tragedia nella tragedia che purtroppo è stata ben lontana dalla fiction: non è certo un’invenzione narrativa distante dalla Storia il dramma della famiglia statunitense Ryan che sui campi di battaglia perde tre dei quattro figli; e il testo dello storico (studioso del D-day e consulente per il film) Sthephen Ambrose "Band of Brothers" (1992), in cui si narra la vera storia dell’unico sopravvissuto dei quattro fratelli Niland (due dei quali caduti a Omaha Beach) – testo al quale la sceneggiatura di Robert Rodat è ispirata-, è in qualche modo una ulteriore e triste certificazione della percentuale del realismo che impregna l’operazione. Certo, è pura fiction l’espediente narrativo cui si ricorre nello script per innescare l’intreccio, cioè la missione affidata dagli alti comandi al Cap. Miller (Tom Hanks) e ai suoi sette rangers di trovare oltre le linee nemiche e restituire alla madre il giovane Ryan, "ma è una finzione di quel genere che illumina maggiormente la verità piuttosto che offuscarla" (S. Ambrose). Sicuramente avrebbe conferito una coerenza ancora maggiore al lavoro di Spielberg un soggetto "vero" a trecentossessanta gradi; ma, da un altro punto prospettico, la storia di Ryan non evidenzia forse tutta l’assurdità della guerra, le sue contraddizioni intrinseche, le ambiguità del potere che vi sta a monte (per quanto risulti evidente che per Spielberg quella è stata una "guerra giusta")? Il segmento in cui decine e decine di segretarie sono ordinatamente sedute alle macchine da scrivere a battere lettere standard di cordoglio alle famiglie dei caduti; in cui qualcuno si accorge che sono ben tre le comunicazioni indirizzate alla stessa signora Ryan e lo comunica ai superiori; in cui, in una luce patinata al limite del flou, il generale convoca i suoi collaboratori per comunicare la decisione di organizzare la missione di salvataggio…: tutta questa parte del film non costituisce forse la zona d’ombra dell’intera narrazione? C’è qualcosa che ci suona strano mentre vediamo scorrere sullo schermo queste immagini silenziose, oniriche, dopo quelle frastornanti, "vere", dello sbarco; c’è qualcosa che stona, e non è solo il contrasto formale o drammaturgico; c’è qualcosa che sfugge: è una parte di racconto in qualche modo confusa; ed è tale perché non riusciamo a cogliere le motivazioni reali (politiche o umane?) di quella assurda decisione…siamo nel nucleo della sceneggiatura e del film e scopriamo, intuiamo quantomeno, che non si tratta d’altro che di un punto interrogativo gigantesco. Un punto interrogativo che verrà ripreso (quindi esplorato nelle sue implicazioni e filiazioni) da ciascuno dei componenti della squadra di salvataggio secondo il proprio punto di vista e secondo il proprio essere; lo stesso Ryan se lo porrà, e rifiuterà di essere salvato; nel prefinale, Tom Hanks trasformerà la domanda in un imperativo rivolto allo stesso Ryan ("dimostrami di essertelo meritato") elevando il giovane a simbolo, a fulcro di una parabola. Tutto ciò non riuscirebbe a distaccarsi da tanto altro cinema bellico, da tanta retorica sull’eroismo l’amicizia virile il patriottismo ecc., se sceneggiatore e regista non fossero riusciti a costruire il tasso di realismo che costituisce la cifra del film: un realismo imperniato sulla paura. In questo film, a differenza della maggioranza delle altre pellicole che si rifanno a questi eventi, la paura lavora a più livelli inestricabilmente connessi: non sono "solo" terribili i fatti che rievoca, le situazioni; è la paura che implicano ad essere restituita agli eroi (come in tutti i film di Spielberg, l’uomo comune viene elevato a protagonista suo malgrado), e viene comunicata direttamente allo spettatore come qualcosa di palpabile, di esperibile nella sua verità e mai nella sua estetizzazione-spetacolarizzazione. In questo meccanismo portante del film ha un ruolo fondamentale l’interminabile sequenza dello sbarco: quella che più colpisce, traumatizza, che azzera le trasposizioni precedenti… e che non è puro frutto di una ricerca visiva rigorosa come potrebbe apparire, ma che deriva anche da strategie complesse a livello di sceneggiatura mirate a frapporre e sottrarre senza soluzione filtri, a fornire allo spettatore solo minimi e labili appigli di empatia, di identificazione con un protagonista. Il meccanismo si regge proprio su quello che apparentemente potrebbe risultare come il momento maggiormente retorico, cioè quel sistema di "cornici" in cui è racchiusa la storia vera e propria.

Salvate il soldato Ryan è racchiuso in una duplice cornice: la prima, strettamente visiva, è rappresentata dalla medesima inquadratura che costituisce l’apertura e la chiusura del film - una bandiera americana sbiadita che sventola a tutto schermo, spettrali stelle e strisce di un tessuto liso di cui si intuiscono appena i colori; la seconda cornice è rappresentata da due sequenze, una introduttiva, in funzione di prologo, e una conclusiva, come scioglimento. Questi ultimi due segmenti sono ambientati nel presente, nella contemporaneità, mentre per il resto il tempo della storia è il 1944: il nucleo centrale del racconto è un lunghissimo flashback.

Nel prologo, un uomo anziano, seguito dai famigliari, entra in un cimitero francese, si muove tra centinaia di croci candide, tutte uguali: è evidente che ne sta cercando una in particolare, e quando la trova si accascia sull’erba per poi alzare lo sguardo fino a incontrare "quello" dell’obbiettivo/il nostro… i suoi occhi azzurri sono liquidi, affogati nelle lacrime. Stacco. Il primo piano di un elmetto (segnato dai gradi di capitano) su cui la macchina da presa indugia, fino a quando il militare alza il capo svelando un "giovane" e terreo Tom Hanks: inevitabilmente lo spettatore associa, tende a identificare, l’anziano del prologo e questo secondo personaggio. Una didascalia ci informa della diacronia, segnando l’apertura del flashback: Omaha Beach, Normandia, 6 giugno 1944. Secondo convenzione linguistica è impossibile non far coincidere il raccordarsi delle due inquadrature dette e lo scarto temporale come l’inizio dello svelamento dell’interiorità del personaggio (altrettanto automaticamente elevato al rango di protagonista): l’anziano sembra ricordare, pare guidarci nel "suo" passato (quello di Hanks); l’elemento scatenante (quella croce) rappresenta la meta del viaggio a ritroso (incipit ad enigma: "cosa è successo "prima"? di chi è quella tomba?"). E tuttavia, la somiglianza tra i due volti è nulla; la convenzione vorrebbe che in un film a interpretare uno stesso personaggio in vecchiaia e gioventù sia il medesimo attore e questo evidentemente non accade in tale film: resta un margine di ambiguità che ogni spettatore prova di fronte al raccordo. In altri termini: non c’è la certezza di aver individuato/riconosciuto il protagonista. Intanto, dalla quiete del cimitero siamo stati scaraventati in medias res, nel bel mezzo del D-day; Hanks è a bordo di uno dei molti mezzi da sbarco, insieme ad altri soldati americani, e la spiaggia è sempre più vicina; la focalizzazione su Hanks si riduce velocemente a mano a mano che la manovra di avvicinamento alla terra ferma viene portata a termine, mentre il regista tende a evidenziare la paura mostrando mani tremanti, uomini che vomitano, altri che baciano la croce che portano al collo… Hanks è su quell’imbarcazione, in quel contesto: stop. Spielberg segna lo scarto anche formalmente: se la sequenza-prologo era caratterizzata da una fotografia luminosa e limpida, quasi patinata, da un montaggio classico ("invisibile"), e da una fluidità esacerbata dalla combinazione di dolci dolly e inquadrature lunghe; il nuovo contesto drammatico presenta, a livello formale, l’esatto opposto: opacità dell’immagine, ruvidità del montaggio e della scansione dei piani, artata imperfezione delle inquadrature nella simulazione di una presa diretta dell’azione, come se l’operatore stesse rubando le immagini e fosse parte integrante della truppa… Se da una parte abbiamo la rassicurante messa in scena del riaffiorare del ricordo di qualcosa di lontano e apparentemente risolto (il cimitero, l’ordine delle croci, la quiete), dall’altra le soluzioni visive rendono palpabile la tensione dell’imminenza di una tragedia; se in un caso le immagini vengono ammantate di un’aura di sacralità sortendo un effetto drammatico elementare quanto di sicuro effetto commovente, nell’altro è l’incertezza di una falsa immobilità a rendere palpabile l’angoscia – una molla che si carica. Le piattaforme statunitensi toccano terra, i portelloni anteriori si abbassano scoprendo le truppe accalcate, e dalle casematte naziste le mitragliatrici iniziano la carneficina spazzando quei bersagli umani fin troppo facili: oltre duemilaquattrocento caduti. Il tempo del racconto tende ad avvicinarsi al tempo della storia (indice di realismo anche questo): sono ben venticinque i minuti che Spielblerg dedica allo sbarco. Le soluzioni formali prima indicate sono spinte al parossismo: sono state utilizzate lenti riportate agli standard dell’epoca e le immagini, dallo spettro cromatico appiattito, sembrano filmati del tempo; le inquadrature sono ricostruzioni delle fotografie scattate sul campo da fotografi di guerra (come Robert Capa); il montaggio è al limite dell’asintattico, un collage-dossier di brandelli di pellicola d’archivio; il punto-di-vista/ripresa è continuamente cangiante, e passa senza soluzione da quello degli americani bersagliati a quello dei tedeschi; la macchina da presa traballa per il movimento dell’operatore "sul campo" (coinvolto nell’azione secondo le direttive del regista) e per gli spostamenti d’aria delle esplosioni; ogni respiro epico è spazzato anche a livello di auido, il commento musicale viene rimpiazzato in blocco dalla colonna audio costituita dalla registrazione di esplosioni sibili tonfi di migliaia di pallottole vere che si conficcano nella carne, rimbalzano sul metallo, scompaiono nella sabbia… Le inquadrature sono brevi, essenziali, come delle istantanee; le morti che ritraggono non hanno nulla di eroico, né c’è una azione da seguire che conferisca qualche "romanticismo" alla falcidie: quella che Spielberg mette in scena è una massa di ragazzi e uomini che viene sterminata, che striscia a terra per sfuggire a una morte inevitabile; e la steadycam rasente al suolo filma i loro ostacoli, il loro sangue, propone il loro punto di vista… Non quello di un personaggio in particolare: lo spettatore non ha una posizione privilegiata, in un certo senso non è uno spettatore ma è trascinato sul campo, perché gli è impossibile stabilire una geografia che appena è suggerita da un totale viene annullata dall’orrore di piani ravvicinati sui corpi che vengono sventratati dalle pallottole. Di norma, anche nelle scene di massa, si segue il personaggio protagonista, ma in questo caso il protagonista è una moltitudine. Tom Hanks, che potevamo aver riconosciuto come personaggio centrale, non è protagonista di situazioni differenti da quelle subite dai commilitoni: per infiniti minuti i soldati e lo spettatore sono allo sbando, privi di coordinate. L’unica certezza risiede nella star, in Tom Hanks: la stella del cast non può morire nella prima mezzora di film… ma anche di questo è impossibile essere certi (delle convenzioni il regista ha già suggerito di poter fare a meno); Spielberg in un paio di occasioni assume il punto di vista del suo personaggio, e lo fa in determinate circostanze, mirate a privare il pubblico anche di quell’unico riferimento: un’esplosione, Hanks che barcolla con le orecchie sanguinanti; si passa a una sua soggettiva totale (audio-visiva), il sonoro viene risucchiato e non ne resta che un’eco lontana (i suoi/nostri timpani sfondati), mentre attraverso i suoi occhi vediamo la scena più forte del film (un soldato sotto shock, privo di un braccio, gira su se stesso come se avesse perso qualcosa, si china e raccoglie il proprio braccio come fosse un moschetto), poi la realtà si inclina e scompare, scivoliamo sott’acqua per scoprire l’orrore in un’altra dimensione (i cadaveri che vanno a fondo, un militare che sta annegando trascinato dalla propria attrezzatura)… quello di Hanks è il punto di vista di un moribondo: quella tomba del prologo potrebbe essere effettivamente la sua. Al pubblico viene negata fin dalla prima sequenza la guida principe: il personaggio. Il prologo è ambiguo e breve, non sappiamo chi sia quell’anziano reduce; lo sbarco ha inizio senza conoscere nessuno dei protagonisti dell’azione (al di là della riconoscibilità della star): fino alla conclusione della carneficina, fino alla presa delle casematte e l’uccisione dei tedeschi, non c’è un personaggio "da seguire", non c’è un sentiero da battere per entrare nel "bosco narrativo" se non una traccia costituita dal volto dell’attore. E senza personaggio protagonista viene a mancare l’elemento fondante e riconoscibile della fiction: il pubblico è disorientato, cerca con gli occhi appigli nei volti e nei corpi che scorrono sullo schermo e che vengono regolarmente e crudamente abbattuti, e non trova altro che la paura delle vittime consapevoli; il realismo della messa in scena fa il resto. Solo quando la sequenza si avvicina alla conclusione, Spielberg inizia a costruire il protagonista centrale: la fuga tende a ricomporsi in un’azione mirata e Hanks assume il ruolo di coordinatore dei sopravvissuti della sua squadra; d’ora in avanti sarà un personaggio (ma del quale, si noti bene, non si saprà nulla quasi fino all’epilogo del film, tanto che riuscire a scoprire il suo passato diventerà presto una scommessa all’interno del gruppo). La chiusura del "capitolo" dedicato a Omaha Beach è dedicata alla risacca rosso sangue che restituisce i cadaveri… tra di essi la macchina da presa ne individua uno, di spalle (anche qui un soldato qualsiasi, di cui è impossibile vedere il volto): sullo zaino campeggia il suo nominativo, Ryan. Segue il segmento ambientato negli States di cui si è detto, in cui si stabilisce la missione: non appena viene messo a fuoco il gruppo protagonista (Hanks e i suoi rangers), Spielberg lo abbandona per passare ad altro. Il resto del film non sarà altro che il cadere, uno ad uno, di quasi tutti i personaggi: la vera guerra non risparmia le star.

Nello scioglimento, si torna al "presente", al secondo segmento che con il prologo funge da cornice, ed ora lo spettatore ha gli elementi per decodificare la situazione presentatagli in apertura: il cimitero è quello di Omaha Beach in cui sono sepolte le vittime dello sbarco; l’anziano è il soldato Ryan e la croce che cercava tra tante e davanti alla quale si commuove è quella del capitano Miller. L’identificazione tra l’anziano del cimitero e il giovane in procinto di sbarcare a questo punto si rivela definitivamente fallace; ma è un fraintendimento che Spielberg ha provocato consciamente, non si tratta assolutamente di un errore "grammaticale" nella regia: retrospettivamente quella sovrapposizione Ryan-Miller è più che mai valida, ed è motivata dal sacrificio del secondo a favore del primo.

L’ultima inquadratura è identica a quella d’apertura: una bandiera americana sbiadita che sventola a tutto schermo, stelle e strisce di un tessuto liso di cui si intuiscono appena i colori… Una bandiera che, alla luce di quanto narratoci, assume valenze spettrali, rivelandosi infinitamente distante dai brillanti e patriottici drappi con cui si chiudevano, tra marcette militari e inni, tante pellicole belliche dedicate all’"ultima grande guerra".

 

filmografia di

STEVEN SPIELBERG

1998 Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan)

1997 Amistad (id.)

1996 Jurassic Park - The Lost World (Il mondo perduto)

1993 Jurassic Park (id.)

1993 Schindler’s List (id.)

1991 Hook (Hook. Capitan Uncino)

1989 Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata)

1989 Always (Always - Per sempre)

1987 The Empire of the Sun (L’impero del sole)

1985 The Color Purple (Il colore viola)

1985 Amazing Stories (Storie incredibili; episodi: Il treno fantasma; Missione)

1984 Indiana Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio maledetto)

1983 Twilight Zone, The Movie (Ai confini della realtà; episodio: Secondo episodio: Kick the Can)

1982 E.T. The Extra-Terrestrial (E.T. l’extra-terrestre)

1981 Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta)

1979 1941 (1941: allarme a Hollywood)

1977 Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo)

1975 Jaws (Lo squalo)

1974 The Sugarland Express (Sugarland Express)

1973 Savage (tv)

1972 Duel (id., tv)

1971 Something Evil (Il signore delle tenebre; tv)

1971 Columbo: Murder by the Book (tv)

1970 Four in One (tv)

1969 Night Gallery (tv)

1969 Amblin’