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L'allievo - Apt Pupil
Anno: 1998
Regista: Bryan Singer;
Autore Recensione: giampiero frasca
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 13-10-1998


Apt Pupil

Apt Pupil

di Bryan Singer; con Brad Renfro, Ian McKellen, Joe Morton, Bruce Davison; Usa, 1998; colore; 111 minuti.

Tutti coloro che avevano scoperto il fenomeno Singer all’indomani del perfetto dosaggio di tensione, suspense e calibrata narrazione de I soliti sospetti, avranno sicuramente storto il naso di fronte a quest’ultimo lavoro del giovane regista newyorchese, considerandolo lento, cadenzato, fors’anche prevedibile. Invece Singer non ha fatto altro che tornare ai ritmi progressivi, armonici e crescenti di Public Access, in cui tutto è organizzato in modo quasi antinarrativo allo scopo di rendere più violenta ed inattesa la deflagrazione finale. Singer gioca sui movimenti lenti, su giustapposizioni casuali, sulla frammentazione dei punti di vista e sulla intercambiabilità delle certezze e dei valori. Il suo è un racconto fondato sull’attesa, su movimenti piani ed avvolgenti, su certezze che si sgretolano improvvisamente lasciando il posto a nuove evidenze che non appaiono mai rassicuranti. Apt Pupil è un’altra riflessione sul Male e sulle sue implicazioni psicologiche, sulla disparità tra una situazione iniziale di perfetto equilibrio ed un approdo finale nuovo e terribile nelle sue caratteristiche di antitetica presa di coscienza. Male che giunge da lontano ma trova terreno fertile nella disposizione affine di personaggi paranoici e falsamente tranquilli nelle loro rassicuranti convinzioni borghesi. Il male esiste in maniera insita, deve soltanto emergere. E Singer lo fa emergere in una scena dal forte impatto emotivo, con Ian McKellen agghindato da vecchio ufficiale nazista che marcia sempre più prepotentemente su se stesso, in una circolarità storica impressionante che si manifesta, in un montaggio serratissimo, soprattutto con dettagli su ritmici stivali e sguardo demoniaco. L’intento è di sottolineare una volta di più l’intenzione espressiva del regista, concentrata nel disseminare la narrazione di simboliche figure geometriche (il cerchio che ritorna come forma ossessiva in differenti contesti a ricordare la ciclicità dei ricorsi storici ma anche l’impossibilità di sfuggire alla magnetica contingenza delle affinità elettive) e precisi gesti forti che svolgono la funzione di vettori drammatici atti a guidare il pubblico all’interno del racconto (il guardare, atto ripetuto per tutto l’arco della pellicola, rimanda alla [im]possibilità di denotare il male dalla semplice apparenza, solitamente placida e tranquilla, e per questo ancora più spaventosa).