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Go for Gold
Anno: 1997
Regista: Lucian Segura;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Spagna;
Data inserimento nel database: 11-07-1998


Lucian Segura

Go for Gold

Regia e sceneggiatura: Lucian Segura
Fotografia: Giovanni Fiore Coltellacci
Scenografia: Angel Haro
Costumi: Tabea Braun
Montaggio: Barbara von Weitershausen
Musica: Mick Harvey
Cast: Lars Rudolph, Siad Taghmaoui, Antonio Carmona,
Maria de Medeiros, Chick Ortega, Carlos Hipolito

Produttori: Wim Wenders, Adrian Lipp, Margaret Menegoz
Produzione: Road Movies Zweite Produktionen,
Marea Film sac, Le Films du Losange

Formato: 35 mm.
Durata: 100'
Provenienza: Soagna, Germania
Anno: 1997


Il wendersiano Segura affastella una serie di predicozzi su una idea che tenta di barcamenarsi tra la risaputa attrazione per la gioventù apolide ed il fascino della sregolatezza al confine con la follia. Entrambi gli atteggiamenti darebbero vita al personaggio di Evghenij Goldov, alias Jeff Gold dal momento in cui, esasperando l´aspetto ridicolo del ricordo della fuga, scavalca il Muro di Berlino nel novembre 1989, luogo topico mai realmente analizzato nelle sue conseguenze evenemenziali dal cinema, come dalla storiografia e tantomeno ciò avviene in questa opera caratterizzata dalla ossessione di rincorrere situazioni capaci di sorprendere il pubblico dei festival (che a Venezia difatti ha decretato lunghi applausi, probabilmente sotto effetto di qualche acido). Infatti in uno degli ultimi sproloqui di Gold si fa risalire a quello spartiacque della storia tedesca l´inizio del suo disturbo percettivo, mentre tutti cantano ¨Dimentichiamo!¨; risultato: un invito a non guardare indietro, oltre quel momento (¨Il più bello della mia vita¨), in cui niente lo teneva legato alla terra. Non è credibile che si tratti di un suggello alla cancellazione della punizione dei teutonici e dunque un´assoluzione dalla colpa senza espiazione, ma l´invito a ricordare immerso nell´assenza della sequenzialità razionale degli episodi sottrae partecipazione, rimeditazione, pathos. Infatti la seduzione dello stereotipo trasgressore darebbe vita a Gold, se non risultasse raffazzonata la figura, prestata al regista per decretare verità inoppugnabili, nonché banali quali lo strampalato e ispirato discorso al taxista di Benidorm sul cammino lungo o corto destinato ad ognuno, che andrebbe commisurato coi passi a disposizione, una sequenza che riesce a rendere da subito fastidiosa la tipologia del protagonista, un improvvisatore che attraverso la retorica (¨La vita è troppo corta per passarla male¨) non media nulla, neanche il suo disagio; e così si assiste ad una serie di atteggiamenti odiosi, che trovano un insufficiente riscatto nel diario tenuto dall´angelo custode (cosa non si fa per accalappiare i soldi di Wenders) marocchino, una delle poche intuizioni pregevoli del film: un oggetto patchwork, nel quale si addensano i resti delle giornate come concrezione fisica di frammenti salvati dalla dimenticanza, un puzzle quasi artistico suggellato dalla frase rivelatrice, con buona approssimazione riferita al film: ¨Giorni diversi, stessa merda¨.

Ecco, la memoria sarebbe nelle intenzioni il bisogno a cui risponde questo ammasso di parole, immagini e soprattutto suoni in supposta libertà. I ricordi che il giovane Gold perde ogniqualvolta cade nell´oblio del sonno: al suo risveglio non riconosce nessuno e la sola interfaccia possibile con il mondo diventa il faticoso recupero della connessione dei suoni prodotti dagli uomini con gli individui stessi, ed il conferimento di identità attraverso i rumori che cambiano i nomi è l´unica idea pregevole attorno a cui si avvolge il film, la teorizzazione della personalizzazione dei suoni conduce ad una rivendicazione di esistenza a seguito della attribuzione a ciascuno di un suo suono (¨Questo è il mio suono e me lo tengo per me¨ dice Moussa, al quale il maieuta Gold risponde sollecitandolo: ¨Se è il tuo, fallo suonare¨), fino al punto che Moussa, il marocchino trattato come un servo (vago sentore di razzismo ?), perso l´oggetto il cui suono lo identificava, ne produce un altro che gli vale l´identità di Boris; peccato che anche questa intuizione, valida perché riconduce tutte le sequenze ad un presupposto iniziale di riconoscimento da cui partire per un qualunque rapporto, condivisione di un passato rammemorato, succedaneo debole di una metafisica perduta, sia esagerata dalla recitazione sopra le righe di Lars Rudolph, sconciata ulteriormente dalla voce stridula di Fabrizio Vidale nella inaccettabile versione italiana. L´eccessivo agitarsi dell´attore quando viene svegliato dallo spegnimento della radio a cui è abbarbicato nel sonno è un espediente tanto sfruttato quanto innocuo, stucchevole; e in virtù di questa ¨qualitਠil film si inserisce a pieno titolo nella campagna wendersiana contro ogni tipo di violenza da lui insindacabilmente individuata come tale, senza rendersi conto dell´inutilità di siparietti risaputi sull´incapacità di vedere le cose guardate dai turisti. Questo tuttavia consente a Gold di prodursi in un pezzo di bravura ammannito ai malcapitati del Wild Adventure Tour, apprezzabile perché con il solito tono ispirato racconta ai turisti un bombardamento, estraniato dalla situazione, ma almeno senza strabuzzare gli occhi, in quanto ripreso di spalle.
Attorno all´invasato Gold gravitano altri disadattati: un gruppo di turisti, caricatura di se stessi, un sedicente gruppo di gitani (peccato che la faccina di Maria de Medeiros non aggiusti la debolezza dei siparietti di flamenco del gruppo, facendo rimpiangere l´interpretazione delle zingare di Gadjo Dilo), poliziotti degni di De Funes e altro contorno per facezie che confondono l´esaltazione della figura di questo mentecatto con l´anarchia.

Il moralismo nascosto per tutto il film sotto la patina della trasgressione finta della apparente follia dell´intreccio e del protagonista si svela alla fine stigmatizzando la scelta di Paquita, che dismessi i panni poetici della danzatrice tzigana di flamenco danza da cubista nella vetrina di un locale mafioso, ballando la sicuramente riprovevole, nelle intenzioni del wendersiano Segura, musica techno, forse confusa per un´estrema sintesi di violenza e smemoratezza.