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Lost Highway
Anno: 1997
Regista: David Lynch;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: Francia; Usa;
Data inserimento nel database: 08-06-1998


<<Lei possiede una videocamera

<<Lei possiede una videocamera?>>, <<No, non amo le immagini, preferisco basarmi sulla mia memoria>>, è la risposta che Fred Madison fornisce alla polizia dopo aver denunciato di essere stato ripreso a sua insaputa allíinterno della sua abitazione. Forte di questo assunto programmatico, Lynch ed il suo dioscuro Barry Gifford costruiscono tutto Lost Highway come immagine di una memoria distorta, malata e soggettivante. Il personaggio si fa veicolo di conoscenza per lo spettatore, attraverso la sua visione il pubblico viene condotto per mano in un universo che non conosce e scopre poco a poco, inquadratura per inquadratura, dettaglio per dettaglio, una focalizzazione informativa dietro líaltra. E lo spettatore, che ama visceralmente le immagini, si affida completamente ad esse, assolutamente (ed ingenuamente) annullato nellíattesa del suo ruolo passivo, testimone credulo di ciò che sta succedendo. In un secolo di convenzioni cinematografiche lo spettatore ha imparato ad esperire in modo totale la sua funzione di ìchiaveî attraverso cui tradurre la logica che informa e costruisce il film: sa che la sua identificazione passa prima attraverso la macchina da presa (relativamente alle immagini che si vedono sullo schermo) e poi lungo la direttrice dello sguardo di un qualunque personaggio. Il pubblico prima si identifica con il proprio sguardo, e solo in seguito sposta il fuoco della sua conoscenza sulla posizione del personaggio allíinterno della narrazione. E quel diavolo del Montana di Lynch i meccanismi di fruizione spettatoriale li conosce benissimo; crea ad arte un dualismo tra il punto di vista narrativo e quello rappresentativo, divarica ed annulla raddoppiandola (per il pubblico diventano due i personaggi attraverso cui leggere il significato della pellicola) la possibilità di identificazione, dando allo spettatore líillusione di fare riferimento alla verità indubitabile delle immagini. Soltanto che al contempo opera una leggera traslazione: le immagini sono sì vere ed incontrovertibili ma solo nella visione soggettiva di Fred Madison, dubbioso nei confronti della riproduzione video ma certo della sua fallace memoria. Lo spettatore non riesce più a distinguere líIo dallíaltro, líoggetto dal soggetto, in una regressione psicologica alla ìfase dello specchioî (quanti gli specchi nel film? E non solo per simboleggiare il tema del doppio...) in cui si invischia e da cui fatica ad uscire. Così la schizofrenia di Fred diventa quella di tutto il pubblico. E Lynch, sornione come sempre, sorride beffardo.

G.F.