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Lost Highway
Anno: 1997
Regista: David Lynch;
Autore Recensione: Luca Aimeri
Provenienza: Francia; Usa;
Data inserimento nel database: 08-06-1998


Untitled

Lost Highway - Strade Perdute

Tit. or: Lost Highway; regia: David Lynch; sceneggiatura: David Lynch & Barry Gifford; fotografia: Peter Deming; musiche: Angelo Badalamenti, Barry Adamson, Billy Corgan, Trent Reznor; scenografie: Patricia Norris; costumi: Patricia Norris; montaggio: Mary Sweeney; prodotto da: Deepak Nayar, Tom Sternberg, Mary Sweeney; effetti speciali: Michael Burnett Productions, Incorporated; cast: Bill Pullman (Fred Madison), Patricia Arquette (Renee Madison/Alice Wakefield), Balthazar Getty (Pete Dayton), Robert Blake (Mystery Man), Robert Loggia (Mr. Eddy-Dick Laurent), Jack Nance (Phil), N. Wagner, R. Pryor, L. Butler, M. Massee, J. Kehler, H. Rollins, G. Ribisi, S. Coffey, G. Busey, Marilyn Manson (Porno star #1), Twiggy Ramirez (Porno star #2); produzione: Asymmetrical/CiBy 2000/Lost Highway Productions; Francia/Usa, 1997; durata: 135'.

Lynch ha definito Lost Highway: 1- «Un noir-horror film del ventunesimo secolo»; 2- «Un'indagine grafica nelle crisi di identità parallele»; 3- «Un mondo in cui il tempo è pericolosamente fuori controllo»; 4- «Una terrificante corsa sulle strade perdute». Il punto 1 è indiscutibile: ci troviamo esattamente nel territorio in cui i percorsi (le strade, non così perdute: anzi, già calcate - anche dallo stesso Lynch) di noir e horror si incrociano, si sovrappongono, si fondono, fino a perdere ciascuna le proprie coordinate pur mantenendo indicazioni e segnaletica... o meglio, indicazioni, segnaletica, che vengono inghiottite dall'oscurità, appena sfiorate dai coni di luce dei fari dell'auto che sfreccia a cavallo della linea tratteggiata. (Qualche dubbio sul ventunesimo secolo.) Egualmente corretta la definizione (2) di Lost Highway come "investigazione grafica" delle crisi d'identità: è esattamente la ricerca formale a costituire la vera spina dorsale del lavoro; sono le immagini che hanno il carattere ipnotico, la forza trascinante: ci inghiottono come l'oscurità che le emana risucchia la realtà, la verità, lo spazio, il tempo, i personaggi della storia, la storia. Immagini perfettamente costruite, inquadature-quadri, movimenti calibratissimi, fotografia-luci che spezzano-segmentano come un morbido-affilatissimo bisturi, montaggio abbagliante-accecante. La crisi di identità è il tema del film: una donna che vive due volte; un uomo che moltiplica la propria identità perdendo e riconquistando il corpo, smarrendo il proprio ruolo, ritrovandosi infine esterno e parallelo alla propria storia - al punto zero, un bivio da cui non partono altro che linee di fuga dagli altri sé. Il mondo rappresentato, come da punto 3, è effettivamente un mondo in cui il tempo è pericolosamente fuori controllo: non impazzito, ma «Fuori Controllo». Una dimensione diacronica che è la necessaria premessa della "possibilità" di sviluppo e crescita di Lost Highway: identità parallele, vite possibili, percorsi reiterati, falsa circolarità, non possono che richiedere un modello di tempo non lineare, non "unico", ma soggettivo e moltiplicato, dilatato-contratto, sempre al limite dell'esplosione (o dell'implosione) come la testa del protagonista che esplora gli angoli più cupi della notte del Tempo. Il punto 4 chiude come un flano: «una terrificante corsa sulle strade perdute» - così si apre il film, così si chiude (o si richiude su se stesso). Lost Highway è un film labirintico: un gioco di dark-mirrors per lo spettatore esattamente come per i personaggi. Le coordinate si perdono nel momento in cui il protagonista si addentra nell'oscurità del corridoio di casa propria, e vi si smarrisce per qualche attimo: quando viene restituito alla luce qualcosa è accaduto - lui non ricorda, noi non sappiamo (o meglio intuiamo ma non ci sono appigli per la logica); il resto del film è la ricerca di una verità che non sarà data perché soggettiva. Ecco, quindi, che il noir si ritrae e lascia spazio all'horror, o piuttosto al mistery mistico-paranormale. Lost Highway è la storia avvitata su se stessa (ad anelli sovrapposti, un intreccio a spirale) di qualcuno che lotta come un naufrago, fino allo stremo delle forze, con un mare nero di passioni che lo trascina sul fondo, tra le sue pieghe, alle sue (sexy o dannate -)sirene: lunghe dissolvenze-assolvenze chiudono e riaprono inquadrature-scene-sequenze tra pause a nero, imprigionando tra ali cupe e silenzi sporchi il protagonista sino all'infinito "attimo" in cui viene inghiottito dal buio ed in cui incontra l'altro se stesso, il demone, il killer dentro di noi. Ha inizio l'incubo; meglio ancora: si svela appieno e cresce, e muta veloce in altro, la dimensione thriller che ritmava, pulsava e già ammorbava il segmento precedente). La mente è un inferno che ribolle di pulsioni: se ci si tuffa nell'inconscio vi si può rimanere intrappolati; vengono meno le strutture che ci permettono l'ordinamento della "realtà", la sua catalogazione in tasselli consecutivi, il filo che li inanella... il tempo impazzisce, le azioni scivolano nel vuoto di una memoria che s'è sgretolata e non c'è più, mentre presente-passato-futuro si rincorrono come in una girandola di specchi, come in un sabbah intorno al buco nero della dannazione (di trovarsi di fronte al vero se stesso). Una struttura a parentesi: una storia tra graffe, quadre e tonde. Quello che Lynch propone è un lavoro assolutamente coerente, visivamente perfetto ed elegante, curato: eppure è un corpo in un certo senso vuoto. Come se il regista avesse voluto riproporre Eraserhead dopo averlo filtrato con tutta la sua produzione successiva, in particolare con i lavori-chiave Twin Peaks e l'ingiustamente sottovalutato Fire Walk With Me. Lost Highway dà l'impressione di viaggiare su scorciatoie piuttosto che su strade perdute, poco visibili o dimenticate: non contamina la realtà, non la incrina attraversandola con segnali disturbanti; non spinge la narrazione sui binari limite (elimina i binari, passa su un'altra linea), non la spoglia né la testa giocando sul depistamento, sulla continua divaricazione immediatamente negata o sospesa (è solo apparente in Lost Highway: in realtà è la linearità ferrea che crea il mistero, l'allucinazione perversa, e crea le trappole per lo spettatore); non fa provare la follia o l'assurdità violentando emozionalmente lo spettatore con continui sbalzi di registro, travalicamenti, scarti rispetto alle attese... La carica disturbante con cui Lynch polarizzava le realtà nei lavoro precedenti, in Lost Highway viene meno perché si è preferito affrontare un cammino netto e non ambiguo, sospeso come le strade perdute aperte fino ad ora: piuttosto che svelare l'assurdità di "un mondo cattivo, senza pietà, che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio" attraverso schegge, Lynch imbocca direttamente il tunnel che porta dritto a quel cuore (di tenebre); non è un caso che sia quasi assente l'acido côté umoristico caratteristico delle opere precedenti, e che il surreale e il grottesco lascino spazio all'"incredibile/impossibile". A dispetto della sua apparente forza d'impatto, della sua aggressività, della sua carica anarchica e devastante, Lost Highway è in fondo un lavoro senza unghie rispetto ai rasoi precedenti; meglio, con le unghie lunghe, ma laccate, ben curate, limate, ben diverse da quelle rosso fuoco di Lula Pace Fortune, o da quelle spezzate di Dorothy Vallens o Laura Palmer - non ci sono lettere sotto quelle unghie rosa confetto, nemmeno ci guardano. In altre parole, piuttosto che dimostrare che l'uomo naviga su un tappeto molliccio ed incubico, Lynch ci mostra un incubo entrando nella testa di un uomo (ed ogni suo film è aperto da un movimento di avvicinamento e penetrazione in un corpo e chiuso da un movimento di uscita: paradigmatico Velluto blu, in cui l'incubo che vive Jeffrey/Kyle MacLachlan è racchiuso tra un movimento che si insinua dentro l'orecchio mozzato che il protagonista trova per caso e un movimento di fuoriuscita dall'orecchio del protagonista stesso, come a dire "il film è compreso tra due orecchi, come una testa - e nella testa l'incubo che è la realtà"): e in quel cranio, non nel molliccio, ma nell'angolo delle certezze, ci trova anche parecchio del proprio cinema, dalle fiamme ai roghi, dalle strade nella notte ai sapori '50, dalle geometrie dei decò made-by-Lynch-himself alle strobo che li illuminano come lampi, dall'ossessione del sesso (ma niente feti questa volta) agli amplessi come vie privilegiate verso abbaglianti rivelazioni, dai terrei ometti sospesi nel tempo agli specchi deformanti... una sorta di galleria che, come ogni auto-catalogazione/auto-citazione priva forse di sufficiente ironia, insospettisce, e può essere vista come autoindulgenza, esercizio, maniera. Abbandonata la detection su vasta scala, ramificata in intrecci dilaganti nel tessuto sociale (dal singolo John Merrick e la comunità-nella-comunità, al microcosmo della provincia in Velluto blu, al macro-cosmo delle realtà che il viaggio di Sailor & Lula toccano, fino al coinvolgimento epidemico di tutti i nuclei famigliari di un'intera comunità - «è accaduto a Twin Pekas»), Lynch torna a trapanare e a cacciarsi in un cervello solo (il suo, David Lynch alias Fred Madison: Alphabet, Grandmother, Eraserhead; interessante notare che il primo corto ufficiale di Lynch, Six Figures, nasce come pellicola da proiettare su uno schermo scolpito con teste tridimensionali: si vedono «sei persone che si sentono male. Se ne vedono prima le teste, poi gli stomaci con un effetto di animazione») e si ripiega su una struttura narrativa apparentemente a circuito chiuso: gioca con il gotico, per poi ritrarsi suscitando l'impasse della logica dello spettatore - ma si tratta di un meccanismo piuttosto scontato sia rispetto alla materia narrata che nei confronti del pubblico (suscitare interrogativi attraverso l'assenza). Lost Highway non disturba, infastidisce, spinge tanto sull'imprevedibile da diventare prevedibile); non scuote, bombarda fino all'assuefazione; non mette in scacco perché propone una partita persa in partenza; eppure... non si può dire che sia un brutto film - e non perché chi scrive è un fan-atico sia di Lynch che di Barry Gifford (co-autore della sceneggiatura). Forse è un film che sa di inutilità soprattutto se collocato nel corpus lynchano: un finto passo in avanti schermato da immagini impeccabili, con molte ambizioni di maledettismo-cult. Tutto è nato quando una mattina Lynch è stato svegliato, nella sua villa di Beverly Hills, dal ronzìo del citofono; all'apparecchio la voce di uno sconosciuto ha bisbigliato "Dick Laurent is dead"; affacciatosi alla finestra non ha visto nessuno; David Lynch non aveva idea di chi fosse Dick Laurent; e non ce l'ha tuttora.