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Il grande Lebowski - The big Lebowski
Anno: 1998
Regista: Joel Coen;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 15-05-1998


The Big Lebowski

The Big Lebowski

Regia: Joel Coen
Sceneggiatura: Ethan & Joel Coen
Interpreti: Jeff Bridges, John Goodman, Steve Buscemi,
Julianne Moore, David Huddleston, Peter Stormare
John Turturro, Tara Reid, Philip Seymour Hoffman
Formato: 35 mm.
Durata: 89´
Provenienza: USA
Anno: 1998



Pochi anni fa il prologo di un film rese protagonista una piuma che attraversava un lungo piano sequenza, accompagnando gradualmente gli spettatori all´interno del mondo allucinato di un mentecatto; Forrest Gump era l´impietosa sovraesposizione del livello medio del grado intellettivo raggiunto con sforzo da uno statunitense qualunque a partire dal racconto realista della sua vita (metafora della Nazione, proposta secondo i canoni del falso realismo delle pellicole dei ´40s), che trova ragione di venire narrato per l´intrecciarsi della sua storia personale con quella reale del costume degli USA, confondendo immagini di repertorio e spettacolarizzazione, per alludere alla evoluzione della società americana, descrivendo tutti gli stadi del suo sviluppo con lo scopo di farli eplodere dal loro interno, una volta ricostruiti perfettamente i meccanismi che avevano potuto consentire la crescita dei fenomeni (Vietnam, movimento hippie ...).

Seguendo un rotondo arbusto, uguale a quelli che infestano il finale di Nickelodeon di Bogdanovich, i fratelli Coen danno inizio al percorso inverso a quello della piuma di Zemeckis: dallo stereotipo più risaputo dello spettacolo, la collina che sovrasta Hollywood rivelata dal rotolare dello "scrubby" lungo lo scosceso pendio trasportato dal vento del deserto (altro luogo retorico del cinema americano), si dischiude un mondo sgretolato, da cui affiorano allucinazioni che ossessionano le vite di personaggi esagerati immersi in una iperrealtà confusa non più con elementi di storia patria, ma con i frammenti della stessa, snaturati e resi irrazionali dal fatto che risultano decontestualizzati. È come se si fosse smembrato Forrest Gump per inserire il capitolo degli hippie nel personaggio di Dude, il Vietnam fosse concentrato nella rabbia impotente e fascista di Walter, suo compagno di bowling, il reaganismo nel miliardario omonimo di Lebowski e sua figlia alludesse alla mondanità eccentrica di certi ambienti di artisti ai tempi del Greenwich Village, ma la commistione delle epoche crea un´atmosfera straniante, dove quel costume statunitense risulta vilipeso, scardinato, dileggiato, non lasciando che esploda dal proprio interno attraverso un gesto dello stupido Forrest che, come un raffinato Pierino, mette alla berlina un sistema di valori, ma rappresentando la schizofrenia e accentuandola facendo collidere i diversi aspetti di ciò che è America. Non è soltanto lo sberleffo di un idiota inconsapevole (mentre più coscienti sono il regista e gli spettatori), né si tratta solamente della caustica e amara denuncia del fanatismo nazionalista e reazionario, insito non solo nella provincia di La seconda guerra civile americana di Joe Dante: in The Big Lebowski si prendono di mira anche le radici dell´immaginario che produce l´orrore della mentalità statunitense, il cui aspetto più incredibile è l´incancrenirsi dei problemi ed il radicalizzarsi delle reazioni ai tanti eventi violenti e brutali che costellano la vita americana. L´unico modo di inscenare tutto ciò è la dimensione dell´incubo, ma temperato dalla caustica comicità grottesca che raggiunge l´apice con lo spargimento controvento delle ceneri di Donny che contraddistingue i due fratelli, ai quali non sfugge nulla del repertorio: gli Eagles e i Credence, i Seattle Seven, e la Dichiarazione di Huron. Nixon.

È per questo che si incornicia il microcosmo dei giocatori di bowling nell´epica dell´io narrante, falsa voce fuoricampo (infatti nella sceneggiatura viene dapprima definita ¨voice over¨ e nel finale si svela come ¨the stranger¨), che si palesa nella sequenza finale come l´emblema dell´epopea americana: l´inventore della salsapariglia, un cowboy al bancone di un bar, in grado con la sua presenza di trasfigurare il bowling, trasformato così nella metafora della società americana. A tutto questo si aggiungono le macchiette (Turturro/Jesus è la caricatura del chicano, un ¨pervertito esibizionista¨ da applauso), i personaggi (Buscemi/Donny, vittima destinata dal suo essere sempre fuori: dalle discussioni, dai luoghi, in disparte), gli stereotipi (Gazzarra/mafioso) le coppie oppositive (la moglie Bunny e Maude, la figlia del miliardario) o complementari (i variegati aggressori di differenti nazionalità, simbolo del senso di accerchiamento e di invasione che i cittadini americani avvertono da quando si sono trasformati in impero). Sono l´involuzione del melting pot e percorrono il film nel solito tono surreale già di Arizona Junior, Barton Fink, Fargo; degna di rimanere perpetuamente scolpita nel libro delle citazioni filmiche è la frase che introduce Dude ed inizia più o meno così:
¨They call Los Angeles the City of Angels. I didn´t find it to be exactly, but I´ll allow as there are some nice folks there. ´Course, I can´t say I seen London, and I never been to France, and I ain´t never seen no queen in her damn undies as the fella says. But I´ll tell you what, after seeing Los Angeles and thisahere story I´m about to unfoldwal, I guess I seen somethin´ ever´ bit as stupefyin´ as ya´d see in any a those other places, and in English too, so I can die with a smile on my face without feelin´ like the good Lord gypped me.¨
Per finire genialmente con un lapidario e autoironico
¨Wal, I lost m´train of thought here. But--aw hell, I done innerduced him enough.¨
(ho perso il filo. Ma all’inferno, ce n´è abbastanza per una presentazione). In mezzo c´erano sintomaticamente Saddam (che riappare in una gustosa parodia di musical, ulteriore topos dello spettacolo USA) e Bush, l´ultima replica del classico scontro buono/cattivo che ha pervaso l´intera storia della Federazione nordamericana.

Sceneggiatura
Con la consueta maestria i Coen creano immagini di un nitore insolito e la precisione dei movimenti di macchina permettono di gustare tagli dell´inquadratura originali, senza per questo venire disorientati dalle innovazioni o dai punti di vista che coincidono con quelli di una palla da bowling che rotola al rallenti verso i birilli, passando da un tappeto volante cavalcato su L.A. dopo un pugno da K.O.

¨Well I like your style too, man. Got a whole cowboy thing goin´. ¨ (¨Ho sempre avuto un debole per il cowboy come concetto¨ è la traduzione dello strascicato accento del sud, che si sente nelle sale italiane.)