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Teatro di Guerra
Anno: 1998
Regista: Mario Martone;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 13-05-1998


Martone

Teatro di Guerra

Regia: Mario Martone
Formato: 35 mm.
Durata: 118´
Provenienza: Italia
Anno: 1998

Una delle prime volte che si riunì a Torino il comitato di solidarietà con gli indios del Chiapas nell'autunno del 1995 venne spontaneo chiedersi perché ci sentivamo emozionati e politicamente vicini alle sorti di un'etnia così distante. Qualcosa di più personale si era aggrappato all'attenzione per i nuovi zapatisti per emergere e non era solo la seduzione della mitica figura quasi letteraria del sub-comandante e dell'indubbio alone di magia profuso dalla cultura dei discendenti del popol Vuh, con i loro ritmi ctonici legati alla natura. Ciò che da parte di alcuni di noi era sentito più profondamente riguardava un possibile approccio diverso con il nostro modo di vivere qui e ora, suggerito da quei piccoli uomini di mais in lotta contro lo stesso grande nemico neo-liberista. Imparare dagli eventi vissuti da compagni distanti; ma è difficile superare la simpatia e arrivare a comprendere.
Martone passa attraverso il teatro: Jasmin, musulmano direttore artistico del Teatro della Città multietnica Sarajevo è suo "fratello" e attraverso la tragedia di Eschilo gli è possibile avvicinarsi al suo dramma. E lo spiega anche attraverso la sequenza in cui vengono contrapposti in modo informale, in cucina durante una colazione, i due atteggiamenti: quello di Iaia Forte (Luisella ), prima Antigone poi sostituita con Anna Bonaiuto, che vorrebbe radicalizzare la gestualità allo scopo di superare il testo per rendere intelliggibile il messaggio anche per coloro che parlano un altro idioma, come i bosniaci a cui sarebbe destinato l'allestimento, previsto in italiano: "Bisogna considerare loro e non fare soltanto il bel gesto, l'azione eroica". Ma Martone va oltre, ricercando una comunione fondata sul testo come universale, lo mette al centro come palinsesto a cui la realtà fa riferimento per disvelarsi e quindi la Tebe della maledetta discendenza di Edipo coincide con la Sarajevo martoriata, ma soprattutto serve al regista per vivere Napoli. Infatti il suo alter ego Leo (Andrea Renzi) taglia corto sui rilievi dell'attrice: "Dobbiamo adattare il testo alla nostra esperienza, non conosciamo la loro condizione", saranno le fasi della messa in scena della tragedia greca ad accomunare gli animi; soltanto così si potrà avere un'autentica sensibilità riguardo a quello che succede agli altri.
Infatti le prove sono improntate al più totale coinvolgimento dei sensi: il fragore, quel frastuono che pervade il testo, è affidato al generatore di corrente, che si trasfigura e contribuisce a creare l'atmosfera di panico e guerra insieme alla tattilità dei materiali prima (l'acqua, i bastoni, le coperte,...) e poi il contatto con i corpi, quando Antigone (Iaia Forte, ma anche più avanti Anna Bonaiuto) bendata trova l'appiglio di una mano a lungo agognata, brancolando nel buio. Insomma il gioco teatrale giunge a permettere di far vivere agli attori realmente Sarajevo e l'universalità di tutte le guerre, ma anche a noi di provare un'infinitesima oncia di quel terrore che solo la dignità permette di affrontare ("Si può sopportare il male, ma solo senza vergogna"), perché è la quotidianità. Ecco, rispetto allo splendido lavoro svolto da Al Pacino sul Riccardo III, Martone riesce nel rimando infinito di specchi, che non consentono più di riconoscere rappresentazione, disdette reali e guerra lontana per arrivare a sostituire all'atteggiamento retorico, insito in ogni approccio metalinguistico, una realtà che emerge da miriadi di rappresentazioni, ma soprattutto trasuda dai bassi dei quartieri spagnoli di Napoli: quello è il luogo delle vorticose prove, dell'unica intensa rappresentazione, della morte autentica di un moderno Polinice: il camorrista che controlla la zona ha il ruolo dell'arrivista di millenni prima, stigmatizzato da Eteocle in un'intervista sostenuta dall'attore di oggi, ma nei panni di allora, con il trasporto e l'immedesimazione di un bosniaco. "Non esiste alcun principio, esiste solo lo spettacolo" ed infatti diventa realtà proprio quella sera di spettacolo con la amara consapevolezza di Leo che il viaggio non si farà, lo strazio di sapere morto (forse insepolto?) il suo sodale bosniaco, "fratello" in teatro.
Dall'impotenza, sentimento dominante che pervade l'intero testo (e che traspariva anche nell'episodio di Deutschland im Herbst dedicato ad un'Antigone televisiva che piangeva l'evidente metafora di un militante della RAF nella Germania in Autunno del 1976), emergono: la disperata coesione (l'incredibile gesto da manuale teatrale che fa muovere all'unisono gli attori disposti a cerchio in una giravolta che sfocia in un urlo liberatorio), la volontà ferrea di "non riconoscere alcun potere", che è il grido essenziale di Antigone, la emersione dei singoli caratteri, che non sono privati, ma universali stereotipati, che non ci stanno a rimanere lì confinati, tanto che vengono intervistati in qualità di personaggi della tragedia, ma esprimendosi in termini colloquiali, parafrasando il testo su quello che è il loro ruolo, ma facendolo in prima persona; sconvolgente l'effetto di straniamento, ma coinvolgente, poiché l'universale si applica a Tebe, Sarajevo, Napoli, San Cristobal de las Casas, Torino... tutte città che hanno sofferto drammi come quello raccontato da Eschilo: "É meglio la morte dei miei fratelli, che la fine di una città, perché anche loro non potrebbero vivere in una città morta". E tutto ciò entra nel frammento di biblioteca inviato da Jasmin, estremo gesto di denuncia e richiesta di custodia rammemorante dello spirito piegato di Sarajevo.