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Il grande Lebowski - The big Lebowski Anno: 1998 Regista: Joel Coen; Autore Recensione: l.a. Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 08-05-1998
Il nuovo film dei fratelli Coen: indagine sull’indagine
Il grande Lebowski Tit. or.:
The Big Lebowski. Regia: Joel Coen.
Sceneggiatura: Ethan Coen & Joel
Coen. Fotografia: Roger
Deakins. Musica originale:
Carter Burwell. Altre musiche: Modest Moussorgsky
(da "Pictures at an Exhibition"), Wolfgang Amadeus
Mozart (dal "Requiem"). Scenografia:
Rick Heinrichs. Costumi:
Mary Zophres. Montaggio: Joel &
Ethan Coen (accreditati come Roderick
Jaynes), Tricia Cooke. Prodotto
da: Ethan Coen. Cast:
Jeff Bridges (The Dude), John
Goodman (Walter Sobchak), Julianne
Moore (Maude Lebowski), Steve Buscemi
(Donny), David Huddleston (The Big
Lebowski), John Turturro (Jesus Quintana),
Sam Elliott (Lo Straniero), David
Thewlis (Knox Harrington), Ben Gazzara
(Jackie Treehorn), Jimmie Dale Gilmore
(Smokey), Philip Seymour Hoffman (Brandt),
Tara Reid (Bunny Lebowski), Flea
(Nihilist), Peter Stormare e Torsten
Voges e Aimee Mann
(i Nichilisti), Jerry Haleva (Saddam).
Produzione: Working Title Films/PolyGram Filmed Entertainment.
Special FX: The Computer Film Company. Colore:
Technicolor. Usa, 1998.
I Fratelli Coen continuano la loro scorrazzata attraverso i generi
cinematografici, o meglio attraverso il cinema - il loro è
il cinema cannibalico di due cinefagi, dunque un metacinema a
trecentossessanta gradi (verticale, orizzontale, trasversale).
Film che sono operazioni intelligenti, sempre rigorosamente filologicamente-corrette,
e corrosive travestite da divertissement. Più che altrove,
la carica acida oltre che ludica, si palesava in Fargo
(id., 1996), con quella didascalia d'apertura che preannunciava
"una storia vera" e che, pare, fosse nient'altro che
un bluff; e oggi prende le forme de Il Grande Lebowski:
hard-boiled sulle orme di un Chandler rivisto in una prospettiva
simile a quella del Bukowsky di Pulp. Hard-boiled puro
e impuro al contempo: non semplicemente attualizzato, non semplicemente
trasposto su un piano grottesco superiore, non semplicemente parodia,
non solo... La detection che srotolandosi porta l'investigatore
(e noi con esso) ad esplorare la società, a perlustrarne
gli ambienti/gli spazi, ad incontrarne gli esistenti (i miserabili
e gli intoccabili), scandagliandola a più livelli (da quello
più basso a quello più altolocato), fino a mettere
a fuoco, a svelare, la rete che unisce ogni punto, ogni elemento,
ogni tassello: il denaro, il potere, le passioni... un puzzle
che ricomposto dà l'immagine del marcio. E di fronte a
questo specchio il detective, con il suo whisky facile, con i
suoi modi non eleganti, con le sue tecniche brutali, con la sua
solitudine, alla fine sembra quasi un dandy, quantomeno un elegantone,
un "dude". The Dude è appunto il soprannome di
Lebowski: Lebowski il piccolo, non Il Grande Lebowski. Già,
perché nella Los Angeles dei Coen ci sono due Jeffrey Lebowski:
uno è Il Grande, ricco e potente personaggio dell'alta
società; l'altro è Il-Non-Lebowski, The Dude, l'esatto
opposto, tanto che non ha nemmeno più il nome ma solo il
soprannome (sono bene accette le spiegazioni circa la traduzione
di «Dude» in «Drugo» della versione italiana).
Tutto parte da questo nome: Lebowski; una coincidenza da casellario
anagrafico (da elenco telefonico) che porta ad uno scambio di
persona, che spinge Dude nell'orbita del Grande omonimo, che profuma
di denaro facile, che comporta un ingaggio del Piccolo da parte
del Grande... Dude - probabilmente il fancazzista più totale
della Città degli Angeli (come suggerisce la voce narrante,
mai nome fu meno azzeccato per una città)... Dude, si diceva,
si trasforma prima in corriere poi in detective per il Grande
Lebowski. Ed inizia a compiere quel percorso di cui sopra, un
viaggio attraverso la società americana contemporanea,
con tutti i suoi tic manie ossessioni fobie... Dai sobborghi ai
loft d'artista, dalle ville dei magnati dell'hard-core-business
alle museificate-labirintiche residenze alla Citizen Kane, dagli
uffici di sceriffi violenti a... ecc. ecc. Un viaggio che, a livello
di intreccio, si rivelerà senza meta perché non
c'è nulla da scoprire: ancora nella migliore tradizione,
il punto di partenza coinciderà con quello d'arrivo - qui
sta la chiave dello svelamento. Ma quello che diverte, e dà
forza ad un'operazione altrimenti già tentata più
volte, è questa capacità dei Coen di costruire ogni
tappa sul cinema - sui generi, sui personaggi, sui topoi, sui
luoghi comuni, sugli spazi, sulle modalità di messa in
scena: uno scarto nello scarto nello scarto, una matriosca cinefila
che trasforma la realtà indagata in una galleria, in una
serie di quadri il cui rimando primo è appunto il cinema,
ma che di fatto sono tutt'altro che statiche istantanee di già-visto,
perchè vivi, vivi di realtà... Quella che i Coen
mostrano è una società baraccone: una realtà
che si è costruita rappresentandosi, una coscienza che
attraverso la spettacolarizzazione è riuscita a riassorbire
ogni trauma e a riconnettere al corpo ogni scheggia impazzita,
una parola che si è organizzata in frasi standardizzate
e in monologhi, una memoria ed un bagaglio che si sono fatti industria
(cinematografica, appunto)... Ed è un virus che non risparmia
nessuno, nemmeno chi ha deciso di restare ai margini, di giocare
fuori (dal) campo - o meglio, di non giocare del tutto, di restare
nell'oblio perenne per essere dimenticato - i sogni dell'outsider
Dude non sono forse delle rivisitazioni psichedeliche di frammenti
di cinema? L'America secondo i Coen è questa: una folle
realtà di celluloide dove tutti assomigliano a qualcuno,
dove si spara a qualcuno solo per avere la possibilità
di "fargli un discorsetto", dove le parole suonano sempre
come già-sentite, dove le idee e i valori sono luoghi comuni,
dove le teste sono palle da bowling sparate dritte contro dei
birilli che non sono altro che i corpi di quelle stesse teste.
E Dude, che da questo circo vorrebbe restare fuori, si trova invece
nel bel mezzo della pista: ma per due ore è la star. Kafka-break.
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