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Ragazze di cittą - Girls Town Anno: 1996 Regista: Jim McKay; Autore Recensione: Giampiero Frasca Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 02-12-1997
Girls Town (Ragazze di
città), di Jim McKay. Sceneggiatura, Denise
Casano, Jim McKay. Fotografia, Russell Lee Fine. Cast:
Aunjanue Ellis (Nikki), Idina Harris (Angela), Anna Grace
(Emma), Lili Taylor (Patti Lucci), Ramya Pratt (Tomy), Asia
Minor (Marlys Giovanni), Carl Kwaku Ford (Jessie), Guillermo
Díaz (Dylan). Usa, 1996. Dur.: 1h e 30'.
Inquadratura fissa. Due o tre donne (la casistica
è sterminata) discutono con la grazia del carrettiere
dei loro problemi esistenziali, della loro noia, della
nausea per una vita che non permette loro di assurgere al
protagonismo a cui ambirebbero o alla tranquillità
(psicologica, economica) a cui aspirerebbero. Quante volte
questa scena è già stata vista in una sala
cinematografica? Se il flano di una locandina stampata su un
quotidiano o un trailer televisivo recita una frase
del tipo: <<il film indipendente che ha trionfato al
Sundance Film Festival>>, aspettatevi un film
con scene uguali o simili a quella appena ricordata.
Sinceramente non se ne può più. Indipendente
(anche se americano) non sempre è sinonimo di
qualità, ed il rinomato Festival di Robert
Redford solo alcune volte è etichetta di lavori che
incidono notevolmente nel panorama cinematografico
contemporaneo. E Ragazze di città è un
esempio calzantissimo. Opera prima del documentarista Jim
McKay, premiata con il Premio Speciale della Giuria
al Sundance del 1996, la pellicola offre tutto il
campionario dei luoghi comuni adolescenziali, le crisi, le
disfatte, la vita senza prospettive di un quartetto di
ragazze isolate nel proprio microcosmo rigidamente
femminile. Il suicidio di una componente del gruppo mette a
nudo le insicurezze delle amiche rimaste, ma permette anche
un sincero confronto interno che causa una chiusura sempre
più rigida verso l'esterno. Un esterno maschile che
si rifiuta di comprendere le esigenze del trio, tentando di
imporre il proprio potere attraverso la violenta
appropriazione corporale ravvisabile nello stupro, forse
l'atto per eccellenza in cui l'uomo impone coattivamente il
proprio potere di capobranco. Il maschio o è
inesistente (nessuna figura di padre tranne quello biologico
della figlia di Patty-Lily Taylor, un energumeno violento,
egoista e menefreghista) o incapace di capire i bisogni
femminili (il ragazzo di Emma che pretende un rapporto
esclusivo), oppure è lo stupratore da colpire senza
pietà. Il trio procede a ritmo di rap nella sua
strenua ricerca di un altrove forse inesistente, ricordando
un po' le Donne senza trucco di Katja von Garnier e
un po' le Switchblade Sisters di Jack Hill, avanzando
nella narrazione con piglio minimalista, affidandosi alla
pura evidenza dialogica cercando al contempo di mascherare
una certa povertà linguistica. Conclusione della
vicenda. Riflessioni. La felicità non è
possibile in questo mondo e l'altrove ricercato non
è raggiungibile senza uno sforzo profondo, che la
scarsa attitudine alle rotture drastiche con il proprio
passato rende veramente complicato (il treno passa oltre in
lontananza, inseguito dagli sguardi delle tre ragazze
sconsolate per non averlo mai preso nella loro vita; la luna
contemplata con dolcezza è bella ma impone qualche
difficoltà d'accesso). E si rimane così, in
attesa di una rielaborazione "a posteriori" che confermi che
la colpa di tutto, esaminando bene, è sempre di
quella metropolitanità che fagocita tutto
nell'indifferenza e nel cinismo, immolando chiunque cerchi
di non conformarsi sull'altare dell'inesistenza che rende
ombre e parvenze umane. Noia che fuoriesce dallo schermo per
investire lo spettatore. Tutto sa terribilmente di
déja-vu, i dialoghi lo confermano e la forma
cinematografica (dettata anche dal budget limitato e
quindi limitante) non profuma nemmeno un po' di
quell'estremismo visivo che si respirava in Gummo di
Harmony Korine, visto all'ultimo Festival di Venezia.
Il guaio di molti lavori indipendenti americani è che
è sempre molto più facile raccontare storie di
quotidiani disagi, evidenziabili attraverso frasi che sanno
di manifestino programmatico, piuttosto che osare qualche
eversione sul piano linguistico, rendendo così il
tutto molto più povero. (O forse. il mio, è
solo lo sfogo di un amante deluso.)
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