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Dakan
Anno: 1997
Regista: Mohamed Camara;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Guinea; Francia;
Data inserimento nel database: 20-04-1998


Dakan

Dakan

Regia: Mohamed Camara
Formato: 35 mm.
Durata: 89´
Provenienza: Guinea/Francia
Anno: 1997

visto al 13° Festival Internazionale
di Film con Tematiche Omosessuali
di Torino


L´unico film afro-gay riporta la questione dell´intolleranza verso i gay al tabù culturale. Il film s´inizia con la palese disapprovazione dei genitori al rientro nottetempo dei due giovani. Si tratta di una chiusura dettata dalle convenzioni in entrambi i casi: il padre di Suri, imprenditore, è animato da squallidi bisogni di continuità commerciale ed espone progetti sulla vita del figlio senza lasciargli spazio, mentre la madre di Manga esprime il disappunto derivante dall´interruzione di una tradizione di procreazione. Il punto centrale: ¨Non succede mai fin dall'inizio dei Tempi¨. Infatti la coppia gay dovrà pagare il tributo alla discendenza prima di potersi guadagnare il diritto di esistere: Suri genera un figlio.

Suri ha introiettato i dettami del padre; spesso si comporta in modo arrogante con atteggiamenti di superiorità, ma è succube dei luoghi comuni del genitore, accettando il coinvolgimento in ditta e l´esilio al villaggio. La forza del film, nonostante talune lentezze, proviene dalla crescita della madre di Manga, che percorre tutti i gradini della accettazione dell´omosessualità: cerca consiglio presso uno zio e ne risulta un verdetto di follia, che inserisce Manga tra una popolazione di freaks, offrendo esplicitamente la rappresentazione della sua diversità, uguale all´intolleranza occidentale; lo costringe a una terapia consistente in potenti magie di una curatrice, che officia riti fatti di urla agghiaccianti, poco scientifiche, ma molto legate alla Terra, corticali. Il presupposto che muove la madre incarnando la posizione della comunità in questa fase è che il villaggio, il legame con la Terra, possa avere l´antidoto di quella che lei considera una malattia ribelle alla natura, ma recuperabile attraverso la magia promanata dalla ctonicità degli approcci.
Nella fase successiva viene tranquillizzata dall´affettuosa attrazione che travolge Manga e Oumu, figlia bianca della vicina di letto all´ospedale, dove non a caso è costretta abbastanza direttamente dalle preoccupazioni relative al figlio. Da ultimo ripudierà il figlio, per pochi attimi, dopodiché si arrende e benedice la sua unione con un gesto di tenerezza materna: gli affida lo stesso braccialetto che aveva destinato a Oumu, su cui è inciso ¨Abbi cura di mio figlio¨; finalmente la tribù, la tradizione si può cambiare per consentire l´unione tra gay.

E Manga dal canto suo si era fatto violenza, seguendo un percorso altrettanto classico: si era costretto ad adattarsi alla norma, convincendosi che fosse possibile anche grazie alla tenera bellezza della fanciulla (¨Oumu mi ha cambiato la vita¨). Fino alla sequenza dell´incontro dei due corpi, cadenzata da una musica sempre più incalzante nelle percussioni, che sottolinea i particolari: la voluttuosa Oumu (la sequenza è preparata dall´esposizione del corpo maturo della ragazza contemplantesi alla specchio) e le carezze di Manga, che gradualmente prende coscienza del fatto che sta pensando a Suri, fino alla confessione: ¨Suri è ancora nella mia testa¨: tra le due frasi citate ci sono momenti in cui si sovrappongono i due baci, quello etero con Oumu sulla spiaggia e quello omo, quasi onirico, ed è bravo il regista a far passare in quella sequenza tutta la differenza tra le due differenti passioni, che li rendono possibili.

Molto espressivo della mentalità è il volto della dottoressa alla coraggiosa rivelazione di Manga dell´oggetto della sua passione. Altrettanto espressivo al contrario della enorme capacità di comprensione della ragazza è la sua benedizione, che lo sprona senza parole ad affrontare la madre; e di nuovo si passa attraverso un idolo che si erge nella notte a chiedere alla natura la forza di appropriarsi del desiderio.
Avvicinandosi all´epilogo risultano sempre meno essenziali le parole, che avevano forse volutamente appesantito l´inizio. Sia con Oumu i loro corpi ritagliati in un sapiente controluce rappresentano espressione pura, sia ancora di più nella capanna con Suri, sua moglie e soprattutto nella gestualità che accompagna la conoscenza del figlio di Suri, non si sente il bisogno di alcuna verbalizzazione: è la cultura millenaria, forse proprio quella presenza della natura nei rapporti che si voleva all´inizio del film spacciare da parte dei genitori per ancora più opprimente della nostra nel voler imporre la normalità, che consente una comprensione agita attraverso sguardi e corpi a rendere possibile l´amour fou che unisce i due ragazzi.

Pregevole la capacità linguistica di mostrare senza parole la scelta accettata da tutti di abbandonare moglie e figlia ed in questo modo attraverso un gesto porre fine al tabù culturale, un moto che fa seguito a quello del cinturino della madre.
Siamo noi occidentali in grado di comprendere tutto quello che trascorre in mezzo a quegli sguardi e saremmo capaci di spiegarci con la stessa intensità e la medesima essenzialità?