American
beauty. Sam Mendes. 1999. USA.
Attori: Kevin
Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley, Mena Suvari, Chris Cooper,
Peter Gallagher
Durata: 122’
Lester ha 42 anni e tra meno di
un anno sarà già morto. È sposato con Carolyn, con la quale una volta era
felice, ed ha una figlia, Jane, arrabbiata come la maggior parte dei giovani. Entrambe
vedono Lester come un colossale perdente, e la cosa in parte è vera, poiché
Lester non è felice. Ad un balletto di ragazze pon pon, Lester mette gli occhi su
Angela, un’amica di Jane. Ad un ricevimento conosce Ricky, un cameriere che frequenta
la stessa scuola di sua figlia, e che si è trasferito con la famiglia proprio
vicino a casa loro. Con il ragazzo si fuma uno spinello, poi torna a casa. Dopo
una serie di liti con la moglie, torna proprio da Ricky e diventa abituale
fumatore di marijuana mentre Carolyn va a letto con Buddy Kane, il miglior
venditore di appartamenti. Ormai prossimo all’esaurimento famigliare, Lester
lascia il suo lavoro e si fa assumere in un fast food. Tra Jane e Ricky intanto
nasce del tenero. La relazione di Carolyn con Buddy Kane termina. Il padre di
Ricky, ex marine, spiando suo figlio con Lester, s’immagina che sia diventato
omosessuale e lo picchia, costringendolo alla fuga. Ricky però passa prima a
prendere Jane per scappare con lei. Lester invece, rimasto solo in casa con
Angela, prova a portarsela a letto, ma quando si accorge che lei è ancora
vergine, rinuncia. Rimasto solo, viene sparato alla nuca dal padre di Ricky.
È un esordio con il botto quello
del britannico Sam Mendes, regista di teatro passato dietro la m.d.p., una
delle più chiacchierate partecipazioni di fine millennio allo stantio panorama
del cinema americano. Dotato di un’estetica superlativa il film affronta crudelmente
la fine di una serie di rapporti ed illusioni e questo contrasto tra patinato e
sconcio, sebbene abbia una sua
funzione nella realizzazione della pellicola, per certi versi indispone per
intangibilità effettiva. American beauty
distrae, provoca, sublima una serie di perversioni, o di sogni nascosti sarebbe
meglio chiamarli, ai quali il mondo degli adulti sembra appartenere (ma anche
quello dei ragazzi, come Angela per esempio) e dal quale presto vengono
risucchiati. Tutto ha una natura doppia ed ambigua, che non risparmia nemmeno Ricky,
che nonostante appaia anche lui come una vittima, in realtà è un voyeur, soffre
cioè come tutti di una mancanza effettiva di amore. Ricky guarda con lo zoom
della sua videocamera negli altri appartamenti, spia la vita degli altri e
sogna la ragazza della porta accanto, ma ha bisogno di essere distante dalle
cose per apprezzarle. Sono tutti combattuti da una doppia natura, dunque,
l’ambiguità dell’apparenza che incontra quella della sostanza: vorrebbero
ucciderete tutti Lester, o togliersi la vita, e l’unico a farlo è un marine
razzista e omofobico che in nome del machismo militare vendica una possibile
omosessualità del figlio. È la vittoria del pensiero conservatore sul colpo di
coda di un cambiamento (quello messo in atto da Lester). Un disavanzo d’amore
che conduce alla morte. La maggior parte dei protagonisti proietta immagini di
successo ma vive una profonda insoddisfazione sentimentale ed emotiva, che si
risolve in un atteggiamento masturbatorio post edonistico. L’America assume il
carattere di un discorso pieno di incomprensioni e contraddizioni, ricco di
tristezze e solitudini, isterismi famigliari dove abbondano come serpi le
vitalità assopite. Ma non è solo l’America il bersaglio del regista, è anche la
famiglia, il nucleo centrale della sua critica, portata sullo schermo già ad un
passo dal fallimento matrimoniale. L’unione non fa la forza e la fuga è ad un
passo dalla morte: o l’anticipa o gli corre incontro. Girato con una forte
capacità di tenuta degli attori (nessuno fuori luogo o fuori parte), dotato di
una bellezza estetica invidiabile, forzato su alcune impressioni (immagine +
interpretazione + commento protagonista) il film cresce su se stesso evitando
la struttura circolare perfetta alla quale sembra alludere con le immagini che
anticipano i titoli, ma ottenendo comunque un discorso completo, chiuso. Il
personaggio di successo Buddy Kane forse fa riferimento a Citizen Kane (1941) di Orson Wells? Un po’ ruffiano, American beauty lo è, ma è così ben impacchettato da riuscire a nascondere
questo suo irritante lato del carattere. La pellicola, per l’appunto, ottenne
ben cinque premi Oscar: miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura
originale, miglior interpretazione maschile per Kevin Spacey, e ovviamente
miglior fotografia a Conrad Hall. Tornando alla sua estetica (ridondante), il
film può essere paragonato a Magnolia
(2000) di Paul Thomas Anderson, assolutamente diverso per contenuti ma molto
simile per la luminosità dei colori, ed in Italia a due lavori, L’ultimo bacio (2000) di Gabriele
Muccino e Santa Maradona (2001) di
Marco Ponti. Ho accennato solo alla fotografia, perché altrimenti i quattro
film cozzerebbero ovviamente fra loro. Spero di essermi evitato un linciaggio. La
sua struttura (inizio & fine + voce fuori campo) è stata oggetto di parodia
in Chiedimi se sono felice (2000) del
trio Aldo, Giovanni e Giacomo. American
beauty dunque è un film di successo (best seller) che si lascia vedere, che
attrae e rapisce, ma che non va mai preso troppo sul serio, perché non ci
riesce da solo.
Bucci Mario
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