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Le onde del destino - Breaking the waves
Anno: 1996
Regista: Lars von Trier;
Autore Recensione: l.a.
Provenienza: Danimarca;
Data inserimento nel database: 18-03-1998


Breaking the waves (Le onde del destino), scritto e diretto da Lars Von Trier. Con E. Watson, S. Skarsgart, K. Cartlidge, U. Kier. Danimarca, 1996. Dur.: 158'.

Primi anni '70. In un piccolo villaggio del nord della Scozia, la giovane Bess sposa un uomo che lavora sulle piattaforme petrolifere, Jan. Il grande amore e subito la tragedia: Jan ha un incidente, e rimane paralizzato. L'uomo desidera che Bess si costruisca un'altra vita; la spinge a cercarsi un'amante: e per convincerla di questo, le spiega che solo così potrà sentirsi ancora vivo - attraverso i racconti di lei, delle sue esperienze sessuali... Fraintendimento da parte dell'ingenua e psichicamente fragile Bess; inasprimento della malattia in Jan, con conseguenti stati di confusione mentale, deliri, depressioni, che lo portano ad assumere un atteggiamento morboso: Bess, religiosissima, vede questa situazione come una prova che Dio ha imposto alla sua fede, come un calvario da affrontare per ottenere la restituzione del marito da parte del Dio rigido e punitivo che la comunità calvinista in cui vive gli ha impresso nella mente. Inizia a frequentare uomini, fino a cercare il martirio nella speranza di un miracolo in cambio. E qualche volta i miracoli si avverano. "La passione di Giovanna d'Arco", "Ordet", "Dies Irae"... Dreyer è sicuramente un modello per Von Trier: lo cita esplicitamente a tratti, ne ripropone il senso di ineluttabilità opprimente nel complesso. Infine, spiazza con un finale alla Frank Capra - ma un Capra privato della leggerezza e dell'immediatezza: appesantito, dilatato, con troppe zone d'ombra... le onde si sono finalmente infrante (breaking the waves), ma a quale prezzo? Non credo sia azzardato parlare di cinema estremo: Von Trier sottopone lo spettatore ad un tour de force non indifferente, ad un'esperienza visiva ed emotiva al limite della fisicità. Il regista ha scelto un taglio quasi documentaristico, comunque improntato ad un realismo esasperato ed esasperante: tutto il film è girato con camera a spalla, non c'è un solo attimo di ripresa "pulita", ma sempre e solo immagini tremanti, sfocate, in movimento; il montaggio classicamente inteso è fondamentalmente assente, sostituito da una sorta di "montaggio in macchina"; non c'è musica ad enfatizzare o ad alleggerire il peso drammatico delle situazioni proposte, relegata esclusivamente negli stacchi che introducono i capitoli funge piuttosto da introduzione alla dominante emozionale del segmento cui prelude... una serie di opzioni che, sommate alla recitazione straordinaria e alla durata stessa del film, concorrono a creare una forte illusione di verità: la vicenda di Bess e Jan sembra svolgersi davanti ai nostri occhi - partecipiamo con uno sguardo perennemente in soggettiva, che non esita davanti a nulla; uno sguardo nervoso che, in continuo movimento, cerca di cogliere tutto il visibile, indugia sugli sguardi, sui dettagli, senza mai scadere nel morboso o in voyeurismi - uno sguardo che si sforza di capire, senza altri appigli al di fuori di se stesso, e che non può intervenire. Non si ha l'impressione di essere di fronte ad un dramma studiato a tavolino, strutturato e pianificato nei suoi effetti sul pubblico, sceneggiato ed infine messo in scena davanti ad un obiettivo: i fatti sembrano svolgersi nella loro linearità, nella loro semplicità, drammaticità. Abbiamo detto "documentarismo", ma si tratta di qualcosa che è ancora oltre, qualcosa d'altro, di più potente, proprio a causa della drammaticità della materia narrata. Estremo, rigoroso: Von Trier apre un baratro davanti ai suoi personaggi, e lascia che vi scivolino progressivamente; non ci sono interventi esterni, non ci sono tagli od ellissi che ne risparmino la visione: ogni momento è attestato, fotografato nel suo movimento costante, e non ci sono mezzi termini nell'affrontare questa caduta/ascesa, non ci sono pause. La struttura "a capitoli" ha forse anche una funzione brechtiana, di straniamento: arginare il coinvolgimento, l'impressione di verità che permea ogni fotogramma. Ma gli stessi stacchi, girati in 35mm poi girati in digitale ad alta definizione, paragonati giustamente a "tableaux vivants" , non danno tregua allo sguardo: piani fissi su paesaggi della durata di alcuni minuti, che impercettibilmente mutano, si tingono di bagliori, si illuminano, si trasformano in alcune loro parti. L'occhio non ha pace, come non hanno pace i protagonisti. O meglio: ci troviamo nella condizione di Jan, impossibilitati a parlare, ad intervenire fisicamente - quasi un lungo incubo troppo realistico per essere solo un brutto sogno. Le immagini scorrono, testimoniano l'estremo sacrificio di Bess, e non c'è modo di fermarle: come un flusso di memoria incessante, come il Destino. Non si riesce ad interromperlo.