Brother. Takeshi Kitano. 2000. GIAPPONE.
Attori: Takeshi “Beat” Kitano,
Omar Epps, Claude Maki, Masaya Kato, Ren Osugi
Durata: 110'
Giappone. Il capo della sua
famiglia è stato ucciso. E’ probabile che ci sia quindi una nuova faida tra
bande Yakuza. Al funerale è domandato
alla sua famiglia di scomporsi ed abbandonare il territorio oppure di allearsi
con il vincitore. Una parte accetta di passare dall’altra famiglia, Anike
Yamamoto invece preferisce fuggire verso gli Stati Uniti e raggiungere suo fratello.
Questo lavora a L.A. come spacciatore con uno sparuto gruppo di afroamericani,
ma con il suo arrivo, il gruppo di pischelletti si ritrova a fare una vera
guerra per il territorio, prima contro gli spagnoli, poi contro un’altra
famiglia di giapponesi, infine contro gli italiani.
L’ultimo lavoro scritto e diretto
da Kitano, per la prima volta con esterni ed attori americani, è un capolavoro
di famiglie e tradizioni mafiose giapponesi. A metà strada tra Scarface
di De Palma (1983) ed Il Padrino di Coppola (1972) (perfettamente nel
mezzo in somma tra la scalata al potere di Pacino e le faide della famiglia
Brando) Brother non è comunque un film sui gangsters (detto chiaramente
attraverso le parole del boss giapponese in America) ma un lavoro che indaga la
morte, i rapporti di sangue, le parentele vere o presunte, il rispetto e la
morale yakuza. Qual è la vera famiglia? sembra domandarsi il regista di
fronte al sangue, e risponde con manifestazioni di assoluta devozione samurai
(il taglio del dito come riconoscimento di un errore nei confronti di un
superiore, il karakiri come estremo gesto di fiducia, un debito che rimane
sempre tale fino a che non è riscattato). L’ordine samurai al quale s’ispira la
morale yakuza è in ogni caso più forte di qualsiasi altro legame, forse
inferiore solo alla tradizione italiana, tanto che sarà proprio questa famiglia
a disintegrare la banda di Anike e dei suoi fratelli. Con la sua faccia
assurda, per metà paralizzata, Beat Takeshi (nazionalista, maschilista e
imperialista convinto) impersonifica senza macchia o eccessi la tradizione
giapponese, fino all’ultimo momento della battaglia, quando come un vero
samurai riconosce che è giunto il momento di morire e va incontro ai suoi
assassini. Yamamoto è freddo, imperscrutabile, cinico, quasi non avesse
sentimenti (uccide la sua donna per errore ma senza batter ciglio), se non
fosse per quelle smorfie e quelle risatine forzate ed asmatiche che ogni tanto
alleggeriscono la sua continua tensione (e così anche quella del film). Anche lui
si arrabbia, ma non sproloquia, sa zittire il suo interlocutore in diverse
maniere (ad uno gli dice semplicemente “Ma che cazzo di cravatta ti sei
messo?”). Un lavoro crudo, girato negli Stati Uniti ma cercando ambienti
che più gli ricordino la geografia giapponese, con macchine lente, inquadrature
spesso immobili che fissano un campo visivo e non lo mollano, quasi come se
tutto fosse visto attraverso gli occhi di Yamamoto-Kitano (come per quelle
inquadrature basse che tagliano le teste, quasi a non voler guardare in faccia
gli amici del fratello). Il regista lavora come sempre ha fatto, senza
snaturare il suo modo di raccontare e girare (forza persa invece da John Woo ad
esempio, una volta arrivato ad Hollywood) passando da una fase all’altra del
film con fotografie e fotogrammi che in pochi secondi riassumono l’intensità di
intere sequenze, o utilizzando l’arte del manzai per alleggerire la
tensione della gang. Un gran film sulla fratellanza e la morte, per opera del
mai deludente Kitano che anche lavorando con attori semi-sconosciuti riesce a
mostrarsi come regista di classe e bravura.
Bucci Mario
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