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Brother
Anno: 2000
Regista: Takeshi Kitano;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La grande guerra

Brother. Takeshi Kitano. 2000. GIAPPONE.

Attori: Takeshi “Beat” Kitano, Omar Epps, Claude Maki, Masaya Kato, Ren Osugi

Durata: 110'

 

 

Giappone. Il capo della sua famiglia è stato ucciso. E’ probabile che ci sia quindi una nuova faida tra bande Yakuza.  Al funerale è domandato alla sua famiglia di scomporsi ed abbandonare il territorio oppure di allearsi con il vincitore. Una parte accetta di passare dall’altra famiglia, Anike Yamamoto invece preferisce fuggire verso gli Stati Uniti e raggiungere suo fratello. Questo lavora a L.A. come spacciatore con uno sparuto gruppo di afroamericani, ma con il suo arrivo, il gruppo di pischelletti si ritrova a fare una vera guerra per il territorio, prima contro gli spagnoli, poi contro un’altra famiglia di giapponesi, infine contro gli italiani.   

L’ultimo lavoro scritto e diretto da Kitano, per la prima volta con esterni ed attori americani, è un capolavoro di famiglie e tradizioni mafiose giapponesi. A metà strada tra Scarface di De Palma (1983) ed Il Padrino di Coppola (1972) (perfettamente nel mezzo in somma tra la scalata al potere di Pacino e le faide della famiglia Brando) Brother non è comunque un film sui gangsters (detto chiaramente attraverso le parole del boss giapponese in America) ma un lavoro che indaga la morte, i rapporti di sangue, le parentele vere o presunte, il rispetto e la morale yakuza. Qual è la vera famiglia? sembra domandarsi il regista di fronte al sangue, e risponde con manifestazioni di assoluta devozione samurai (il taglio del dito come riconoscimento di un errore nei confronti di un superiore, il karakiri come estremo gesto di fiducia, un debito che rimane sempre tale fino a che non è riscattato). L’ordine samurai al quale s’ispira la morale yakuza è in ogni caso più forte di qualsiasi altro legame, forse inferiore solo alla tradizione italiana, tanto che sarà proprio questa famiglia a disintegrare la banda di Anike e dei suoi fratelli. Con la sua faccia assurda, per metà paralizzata, Beat Takeshi (nazionalista, maschilista e imperialista convinto) impersonifica senza macchia o eccessi la tradizione giapponese, fino all’ultimo momento della battaglia, quando come un vero samurai riconosce che è giunto il momento di morire e va incontro ai suoi assassini. Yamamoto è freddo, imperscrutabile, cinico, quasi non avesse sentimenti (uccide la sua donna per errore ma senza batter ciglio), se non fosse per quelle smorfie e quelle risatine forzate ed asmatiche che ogni tanto alleggeriscono la sua continua tensione (e così anche quella del film). Anche lui si arrabbia, ma non sproloquia, sa zittire il suo interlocutore in diverse maniere (ad uno gli dice semplicemente “Ma che cazzo di cravatta ti sei messo?”). Un lavoro crudo, girato negli Stati Uniti ma cercando ambienti che più gli ricordino la geografia giapponese, con macchine lente, inquadrature spesso immobili che fissano un campo visivo e non lo mollano, quasi come se tutto fosse visto attraverso gli occhi di Yamamoto-Kitano (come per quelle inquadrature basse che tagliano le teste, quasi a non voler guardare in faccia gli amici del fratello). Il regista lavora come sempre ha fatto, senza snaturare il suo modo di raccontare e girare (forza persa invece da John Woo ad esempio, una volta arrivato ad Hollywood) passando da una fase all’altra del film con fotografie e fotogrammi che in pochi secondi riassumono l’intensità di intere sequenze, o utilizzando l’arte del manzai per alleggerire la tensione della gang. Un gran film sulla fratellanza e la morte, per opera del mai deludente Kitano che anche lavorando con attori semi-sconosciuti riesce a mostrarsi come regista di classe e bravura.

 

 

Bucci Mario

        [email protected]