Il dispiacere rimasto indelebile negli occhi di Remzjia è la morte della sorella, uccisa dal marito il capodanno del 1985. Il regista ha scelto di montarne il racconto dopo una breve sequenza di festa, come a voler rinfocolare la credenza che la vita rom sia costituita da un destino fatto di spensierati balli vorticosi intrecciati inscindibilmente a lutti terribili, come forse si coglieva anche nell'andamento altalenante di Gadjo Dilo: qui è struggente il racconto di Remzjia, che con innate doti di attrice riesce a far partecipi del suo dolore, veicolarlo con il corpo e con le parole: "Da quando è morta mia sorella, è morto ogni pezzo di me". Da quel momento non ha più seguito i musicanti del suo gruppo. Il video ha il compito - si direbbe suo malgrado, di penetrare l'intimità della famiglia della presidente della Socijeta Torinese Romani Buci ritagliandone la figura, eppure lo fa lievemente; mette a nudo langoscia di questa giovane donna, ma senza travalicare o sovrapporsi alle sensazioni che prova di fronte allinvincibile campagna feroce voluta dallo spirito del nostro tempo contro il popolo rom e di buon grado accolta dalla feroce componente razzista e violenta della cittadinanza torinese; proprio questo approccio della telecamera permette all'incubo surreale di Remzjia di essere credibile: "Si è risvegliato lo spirito di Hitler". Infatti, come dice Santino Spinelli, musicista rom abruzzese che allieterà il finale di serata con la sua fisarmonica spaziando lungo tutta la diaspora nomade descritta da Toni Gatlif in Latcho Drom: "Noi siamo lo specchio della civiltà che ci ospita: siamo la cartina di tornasole dello stato di civiltà che rappresenta o della barbarie in cui si dibatte" e con questo spiega l'unica accusa proveniente da Remzjia lungo tutto il video: "É una vergogna per loro, non per noi" e lo dice non in relazione con l'atroce diffidenza che dimostrano soprattutto gli esclusi nei loro confronti o per la violenza delle cosiddette forze dell'ordine, ma lo fa a proposito del fatto che, cacciandoli malamente per blandire un elettorato ignorante, impediscono ai loro figli di andare a scuola e quindi di poter cambiare le cose.
Ma ora con la irresponsabile campagna disinformativa anche gli scolarizzati vengono cacciati dai lavori che trovano: "Mio figlio ha lavorato tre giorni in fabbrica, poi hanno scoperto che era zingaro e lo hanno cacciato". E adesso cosa dovrebbe fare? Rubare quando si ha fame è sacrosanto e "lo zingaro soffre la fame". Mentre ce lo dice alla indomita madre sorge un dubbio: "Sapete cosa vuol dire?". No, non lo sappiamo e chiniamo la testa per non sostenere quello sguardo.
Da Ferrario era stato affrontato lo spinoso problema della inadeguatezza delle insegnanti nell'affrontare i ragazzi zingari attraverso siparietti sferzanti affidati all'acquoso occhio di Mastandrea, perso nella Torino di Tutti giù per terra, con minore sarcasmo di Ferrario e molto rimpianto Remzjia conferma: "Pensavamo che la scuola ci fosse più di aiuto", il rincrescimento nasce dal fatto che lei ha scelto di fermarsi proprio per consentire ai figli di frequentare la scuola dei gadjo, quegli stessi che ora vengono di nuovo respinti verso la precarietà del nomadismo, distruggendo beni, ritirando servizi, revocando permessi di soggiorno con pretesti risalenti a dodici anni fa: "Si riesce sempre a mandare via qualcuno: solo i morti non fanno nulla, ma i vivi sempre fanno qualcosa". Invece nel mondo dell'intolleranza anche i morti agiscono: il giorno dopo la proiezione del video (11-10-99) La Stampa in cronaca cittadina si applica da par suo a sobillare la cittadinanza contro un centinaio di rom accampati nei giardini di fronte al cimitero sud di Torino, luogo vicino all'ospedale presso cui è ricoverato uno zingaro loro parente; ovviamente si tratta di un'indecenza, di un affronto al decoro e alla sicurezza, altrettanto ovvia è la serie di interviste indignate e benpensanti alle anziane frequentatrici del luogo di culto, già scatenate da irritanti campagne stampa precedenti e per la loro cromosomica diffidenza culturale.