Remzjia

Nel video come dal vivo la donna incontrata dal regista è l’emblema della femminilità non solo nomade: materna verso l’intero suo popolo, un evidente punto di riferimento per l’intera comunità dell’Arrivore, e ancora in possesso di una seduzione nelle movenze da ballerina, quale ella era in gioventù. La sua autorevolezza balza all’occhio quando la si va a trovare nella sua baracchina e si notano i sottili invisibili percorsi del campo convergere su di lei: i figli che ne cercano con gli occhi l’approvazione (e quante volte nomina anche all’obiettivo la parola "figlio"?): "I piccoli mi dispiace mandarli sulle strade. Non mi va di farmi mantenere da un piccolo"; il marito, un brav’uomo che trova appoggio nella sua calma olimpica, quella tranquillità distaccata che l'inquadratura fa emergere quando la coglie simile ad una stampa orientale assisa sui molli tappeti della sua casa e nel suo intercalare di consonanti dolcissime con pudore malcelato dice: "poche volte io chiedo l’elemosina. E comunque fuori Torino, perché molti mi conoscono e provo vergogna"; il vecchio padre, che non appare nel video, ma è un fiero partigiano titoista che ingannava i nazisti di allora usando la radio con il suo perfetto tedesco, mentre ora la sensibilità della figlia indica noi e la nostra ferocia inospitale come il nuovo subdolo nazismo acquattato nel lager di Corso Brunelleschi, luogo di detenzione per persone prive di permesso, ma che non hanno commesso nessun reato, materializzazione di quell'Auschwitz, il cui nome evoca uno sterminio abominevole (condiviso dagli zingari alla pari degli ebrei, ma misconosciuto dalla storia), che in un'iperbole appassionata diventa quasi una liberazione invocata se dovessero davvero essere sgomberati dall'Arrivore. Che sia un personaggio dotato naturalmente di carisma si nota nel video quando Calopresti abbandona il primo piano e con un carrello, senza lasciare mai il personaggio, la mostra con un codazzo di bambini aggirarsi per le misere stradine sterrate del "campo" (una parola gadjo inesistente in romani, come "riserva indiana" è un allocuzione wasp, non certo attestata in lingua comanche). E ancora di più si sente la nostalgia del ritratto momentaneamente abbandonato quando tra un argomento e l'altro il regista intercala gruppi e primi piani che sono fotografie poetiche, sottratte alla telecamera dalla calamitante presenza scenica della donna e a cagione di questa forza ridotte al minimo pur essendo indispensabili per interrompere momentaneamente il flusso di pensieri della protagonista, in bocca alla quale assumono un valore diverso anche le frasi fatte, come "Dove mangiano in due, mangiano anche in dieci", inquadrata da un leggero grandangolo che riprende la famiglia in una appena accennata ripresa dall'alto che lascia affiorare dal limite inferiore dello schermo una pentola ribollente, i cui vapori avvolgono l'ambiente sereno.
É la sintesi del principio che anima i rom: nella discussione accesasi dopo la proiezione il musicista ci informava sardonico che tra loro non si derubano mai "e non ci chiediamo l'elemosina", considerata una forma degradante e praticata solo con i gadje come atto di resistenza e di schernimento nei confronti degli atti violenti della società, mentre la loro è una comunità solidale, capace di contenere i consumi attraverso il comune appoggio.


no copyright © 1999 Expanded Cinemah Home Page No rights reserved