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8/6/2003
La palla numero 18
Tra il referendum e Il posto dell'anima

You throw the ball against me? I throw the balls against you. I take a ball, number 8, a very good ball, black ball, and stuuum, at the ground, first stroke. A very big man, dead, at the ground. You throw the balls against me? I throw the ball against you. But I'm not a criminal, I'm a good hag.

(Monologo di Bob che in "Daunbailò" spiega l'episodio che l'ha portato in galera)

Il film soffre della firma di Starnone e della sua solita maniera, fatta di stereotipi stantii infilati uno di seguito all'altro; un altro handicap proviene dal fatto che probabilmente Riccardo Milani non ha passato un'ora della sua vita dentro uno stabilimento: infatti vediamo immagini pittoresche dell'ingresso, respirando quella aria sottile eppure pesante del mattino di quando si entrava al buio respirando il nostro vapore acqueo tra le luci irreali dei capannoni, vediamo i bidoni infuocati di tante occupazioni; le catene per inchiavardarsi ai cancelli e aggiungere ancora schiavitù a schiavitù e sudditanza a un lavoro sporco, sgradevole, faticoso... e privo di futuro. Vediamo pochi minuti di linee, rumori e lavorazioni, pochissimi e sufficienti per rievocare due secoli di sfruttamento, per ricordarsi del luddismo e delle lotte dei primi del secolo, fatte da operai consapevoli di essere indispensabili e conoscere l'intero processo di produzione, come dimostra il giovane, sveglio e intraprendente, fiero della propria dignità di operaio (la ribadisce con quelli che fanno il doppio lavoro, insiste quando avvia la attività "in proprio", la rimarca ancora confusamente durante le riprese televisive, ma soprattutto nei momenti di rabbia in cui brandisce una mazza da baseball).

Tutti motivi per decidere di aiutare a dare un taglio a questo sfruttamento indecoroso, a dichiarare finita una partita durata troppo e costata un'infinità di morti, secoli di lavoro in fabbrica senza un futuro, con l'unica chimera della pensione... basta, viene da dire, non difendiamo più questo mondo che per affermare la propria dignità è costretto a mettere al centro dell'orizzonte dei propri riferimenti il lavoro, rifiutiamolo una volta per tutte, l'annosa questione che divide operaisti e non, come emerge chiaramente nel libro di Aldo Grandi su PotOp: La generazione degli anni perduti, Einaudi 2003.

Però abbiamo visto il film in mezzo a delegati e operai, durante una proiezione organizzata per sostenere il "sì", anzi il "". Il voto non è una pratica che ci vede partecipi (e i nostri pochi trascorsi non promettono bene: la scala mobile fu una battaglia persa che decretò lo sfondamento del craxismo nella società italiana); però abbiamo sentito i commenti della nostra gente, quella che rischia di più, quella che si è esposta e con cui spesso siamo in disaccordo, perché non è ribaldo sottostare a un lavoro salariato, e tanto meno è rivoluzionario morire di cancro per "lorsignori", come li chiamava Fortebraccio. Però loro non possono fare diversamente, e noi abbiamo l'obbligo di essere sconfitti insieme a loro, come Tatanka Yotanka, il Toro Seduto sbandierato da un convincente Michele Placido affiancato a uno strepitoso Silvio Orlando; entrambi non hanno fatto un'ora di lavoro in fabbrica nella loro vita, ma lo interpretano bene.

Eppoi quella carrellata di morti: "retorica" dice il manager americano della multinazionale in un guizzo di autocritica della sceneggiatura, che prelude alla sequenza da applauso, perché tutti intorno a me fremevano dalla voglia di poterlo fare (per primo il responsabile fiom della camera del lavoro di Collegno seduto dietro di me, che si lascia andare a un commento: "potessi farlo anch'io durante la trattativa". Cazzo, e fallo! figuriamoci, non lo farà mai: è fiom): sputare in faccia al padrone. Ma anche evitare morti: ho visto incidenti, di uno sono stato testimone, quando lavoravo in fabbrica e la maggioranza erano ragazzi di ditte inferiori a 14 addetti, artigiani inesperti, mandati allo sbaraglio, a volare giù da trabatelli mal montati o a lasciarci parti di corpo nei meccanismi automatizzati. O altrove a volare giù da impalcature... La scomparsa dell'Italia industriale, come recita il titolo dell'ultimo libro di Luciano Gallino, si attuerà, ma non come avevamo immaginato noi con l'affrancamento da un lavoro che rende succubi, bensì con la schiavizzazione anche del rapporto di lavoro, non solo della mansione.

E sarà sempre peggio con il decreto del 6 giugno che prende nome da Biagi ; vogliamo sperare che il cognome del professore bolognese sia solo l'ennesima farsa di questo governo, perché il far west che ne deriverà sarà feroce e violento come quello dei film di cow boy che han fatto da modello per chi lo ha ucciso, non vogliamo credere che davvero avesse pensato nel famigerato Libro bianco del 2001 a una precarietà così priva di tutele, allo staff leasing e alla privatizzazione di tutte le forme di collocamento, che è un caporalato feudale regalato ai mafiosi più ammanicati nel territorio, all'abolizione di co.co.co, che saranno dunque costretti a riciclarsi strisciando davanti ai datori di lavoro, pur di essere riciclati come lavoratori a progetto, ammazzandosi di fatica per lo stesso compenso di prima (ma tassato di più) ed ancora più precari: possibile che non conosciate nessuno che è stato estromesso grazie alla truffa dell'outsourcing, lo spezzatino dell'azienda che agevola la vendita alle multinazionali che poi chiudono, dopo aver assorbito solo ciò che interessa e i brevetti rendendo più povera ancora la ricerca: la Banca del lavoro, supremo sberleffo per chi ancora crede a quel valore, ma sberleffo fatto rendendolo merce e non identità, sancendo una volta di più l'alienazione del singolo, il subappalto legalizzato. Ma se Biagi lo ha fatto davvero, la pietà nei confronti di un nemico morto non può che tramutarsi in ... una scheda che sommata a milioni di altre sparate nell'urna vada a sotterrare i comma I, II, III della legge 300/70 e i comma I, III della legge 108/70 dell'art.18.

Ecco: votare è un po' come sputare in faccia al padrone. Noi non abbiamo l'abitudine all'urna, ma stavolta pensiamo che sia sufficientemente ribaldo il gesto di andare a mandare a cagare queste politiche affamatrici; porre un argine, come stanno facendo i compagni al di là delle Alpi nel silenzio dei nostri mezzi di informazione, ma se date un'occhiata a indymedia France (Paris. Lille, Nice) vedrete come si fa una lotta per mantenere i diritti.
Poi ci sono tutti gli orpelli che Starnone ha voluto infilare: la Cortellesi, e i "gnicchetti", l'orso e le altre puttanate che rendono il film un'operazione scontata, ma la denuncia del ragazzino figlio del sindacalista Placido che lo inchioda alle sue responsabilità, perché sapeva e non ha fatto niente, che ha coperto la nocività dell'azienda, pur di non perdere il posto, quelle sono collusioni che rimangono e di cui si potrà parlare quando si sia arginato l'orrore di una destra incontrastata.

Prima viene l'estensione doverosa di una norma che tutela tutti i lavoratori dai soprusi e dall'arroganza dei padroni.