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Torino Film Festival 1999Torino Film Festival - 1999
Retrospettiva John Carpenter
Vampire$ (1998)

Dentro e oltre il genere

VampiresIl cinema dell’orrore si fonda sul bisogno psicologico di rappresentare le proprie paure e di trovare uno strumento per poterle affrontare. Erede del mito e della letteratura, il cinema ne condivide alcune funzioni, in particolare quella di rappresentare gli archetipi che strutturano la psiche, rivisitandoli continuamente e cercando per essi sempre nuove forme di rappresentazione. È un genere destinato a ripetersi e a ritornare continuamente, in quanto negli orrori raccontati dalle immagini cinematografiche non è difficile scorgere l’eco di tragedie reali. Ma tra le maglie di queste paure si insinuano anche angosce arcaiche che oltrepassano le culture e le epoche storiche. Anche Carpenter si cimenta con il filone vampirico, ma a modo suo: il suo film è un horror-western, ma contemporaneamente contiene tutto il cinema e allo stesso tempo dimentica (o modifica/supera) la sua breve storia. Dal western riprende i vasti spazi aperti, i colori, le città fantasma (che ricordano anche vecchi set cinematografici in abbandono), la caccia, gli inseguimenti. Gli stessi personaggi sembrano gli ultimi cow-boy e anche l’amicizia e l’onore che li unisce sono elementi tipici dell’epica western. Il tema hawksiano dell’amicizia virile si nasconde dietro l’apparente indifferenza e i bruschi atteggiamenti da duro: è il caso della complicità che lega Jack al suo compagno Montoya. O al giovane prete che all’inizio "punzecchiato" continuamente da Jack, poi alla fine sarà determinante per eliminare i vampiri; si assiste quasi a un’evoluzione del personaggio, una sua crescita in maturità ed esperienza. Jack e Montoya duettano, si amano litigando, si abbracciano insultandosi, come ogni buon eroe western che si rispetti.

Dall’horror Carpenter prende il motivo vampirico, le mani che spuntano dal terreno, la lotta tra giorno e notte luce e ombra (i colori caldi del giorno sono in contrapposizione alla oscurità della notte, che racchiude tutti i colori in assenza di luce), il tema del sangue e le sue simbologie.

VampiresIl Male contro il Male

Vampires è nato dallo stravolgimento carpenteriano del racconto di John Steakley, Vampire$ del 1990, e da due sceneggiature di Dan Jacoby e Don Mazur. Il regista si distacca dal mito che designava Dracula come Padre dei vampiri, e sembra più fedele alla tradizione popolare che riteneva che solo le persone con determinati requisiti fisici e morali fossero designate a diventare vampiri dopo la morte. Infatti per il regista il primo vampiro della storia è Jan Valek, un sacerdote eretico boemo del ‘300 che ha sollevato le masse per combattere certi soprusi, e perciò la Chiesa lo condannò sottoponendolo a un esorcismo. Questa pratica fallisce, o meglio, si compie in modo incompleto dando origine a un’aberrazione non prodotta dalla Natura ma dall’insensatezza umana. Il desiderio di Valek è di completare la pratica, che lo ha relegato ad una vita completamente notturna, e quindi di potersi "muovere liberamente" anche di giorno. Pare che non ci sia nulla di Male. Ma per il regista il Male sembra essere ovunque e, per questo, non essere in alcun luogo. I vampiri del film sono vampiri e basta, sono spogliati dalla loro aura gotico-romantica e da ogni parvenza di seduzione: non temono croci (visto che la croce di Beziers l’ha originato), né l’aglio, né si trasformano zoomorficamente, e non dormono nelle bare, sono i cattivi che devono combattere contro gli eroi. Solo che gli eroi non sono propriamente buoni: Jack e la sua banda cacciano i non-morti con metodi brutali e rudimentali che possono essere usati solo di giorno. Queste pratiche consistono nell’infilzare il vampiro con una freccia collegata a un argano montato su una jeep, grazie al quale il vampiro viene trascinato alla luce del sole, dove esplode tra orribili strida, infine gli ammazza-vampiri allineano i teschi delle loro vittime sul cofano della jeep. Qui si tratta di Male e basta. A dimostrarlo sono le scene iniziali del film. Jack Crow e la sua banda scovano e distruggono un covo nel New Mexico, poi festeggiano il loro successo in un motel scalcinato di periferia, simile a un saloon del Far West, con un gruppo di prostitute, ma la festa è bruscamente interrotta dall’arrivo del Gran Maestro dei vampiri, Jan Valek, sfuggito al massacro e in cerca di vendetta. Jack, il suo aiutante Montoya e la prostituta Katrina sono gli unici a sopravvivere, ma la ragazza è stata vampirizzata e Jack decide di mantenerla in vita per utilizzare la sua empatia con il vampiro nel dargli la caccia.

Anche Jack Crow sembra uscito dal folklore: nell’infanzia ha assistito alla vampirizzazione dei suoi genitori, di conseguenza è stato predestinato nella sua "missione" di cacciatore di vampiri, e inizia questo suo compito proprio uccidendo gli stessi genitori. Carpenter dice "Jack Crow e Valek non sono altro che la medesima persona. Sono coinvolti entrambi nella medesima ricerca! Tanto più che per essere cacciatori di vampiri bisogna essere crudeli e senza scrupoli come loro" , e anche di più. E Jack Crow sembra quasi che goda, provi piacere nell’uccidere le creature della notte, e mentre compie i suoi massacri urla e impreca, e viene incitato dai suoi compagni. Inoltre il suo nome Jack Crow, il Corvo, rimanda ad antiche credenze sciamaniche degli Indiani secondo le quali il corvo è l’aniMale che accompagna lo spirito dei defunti nel regno dei morti, ed in fondo è quello che fa Jack, in certo senso. Prendere una posizione, parteggiare per Valek o per Crow risulta difficile. In compenso è concesso di "amare" personaggi comprimari, laterali, quelli dotati di minor peso eroico e, per questo, più umani, accettabili. La storia corre su due linee diverse: da un lato il gioco duro dei protagonisti, dall’altro, la sottotrama, l’amore tra Montoya e Katrina. E se nella trama principale gli elementi vengono estremizzati fino al punto che le due figure coincidono, nella sottotrama si gioca di tensioni emotive, di sfaldamenti successivi, di avvicinamenti. Il Male invade il racconto, lo rende fastidioso infettivo. Ciò che unisce i due è un sentimento nato dal Male, dal dolore, dall’assoluta lontananza dalla normalità. I due giovani rimangono legati l’uno all’altro e sono costretti, per poter amare, a trasmettersi il virus: Katrina succhia il sangue di Montoya, e lui gode di questo gesto, prova piacere… il piacere della morte.

VampiresLo spazio del silenzio

Nella sequenza d’apertura si parte dall’alto, tra montagne isolate su un deserto vasto, poi si prosegue su una casa un po’ fatiscente, il covo dei vampiri, e si finisce su Jack che sta per stanare Valek e i suoi accoliti. In questa macrosequenza Carpenter frammenta l’azione attraverso una serie di inquadrature che si susseguono rapide prima dell’assalto al covo, creando tensione narrativa solo attraverso la frequenza del montaggio. Il film comincia con la sovrapposizione di due sguardi, quello del maestro Valek, che abbraccia con sensualità i luoghi in cui abita, e quello di Crow, nel momento in cui individua il nuovo rifugio dei vampiri. Due inquadrature in lontananza, simili ma diverse nella forma e nel tempo in cui si concedono ai nostri occhi. La prima si appropria dello spazio con silenziosa mobilità mentre la seconda appare precisa e definita nel suo essere semplicemente fissa. Una dialettica necessaria, quella tra il movimento e la fissità, che attraversa tutto il testo e lo supera.

Bresson diceva "il cinema sonoro ha inventato il silenzio", e già Herzog nel suo Nosferatu (1978) lo aveva usato in modo simbolico, ammantandolo di malinconia e di sofferenza del "dover vivere e durare nei secoli senza provare più nessun piacere". Qui il silenzio che investe molte scene si pone come segno di avvertimento. Se nelle immagini, e quindi negli occhi, sta un senso immediato di riconoscimento, nei suoni e, soprattutto, nella loro assenza si è portati a rintracciare l’eco di un tempo lontanissimo che riemerge in quei brandelli di vuoto. Nulla più del silenzio è capace di penetrare, di infilarsi, per ritornare sotto forma di memoria quella di un vampiro originario sfuggito al controllo della Chiesa, e quella del cinema. Il reale assume così una diversa consistenza, mentre anche la musica carpenteriana duplica questi infiniti piani di visione, dilatando i suoi tipici echi sintetizzati nelle sonorità distorte e ammiccanti delle chitarre.

Poi c’è il tempo, che viene contratto o dilatato in soluzioni che testimoniano la fragilità ma anche l’incredibile ricchezza. Tutta la sua complessità sta racchiusa nei pochi minuti dell’esordio, nello spostamento aereo della macchina da presa attraverso paesaggi incontaminati. In due scene consecutive e analoghe si raggiunge la stessa casa isolata, ma un tempo di centinaia d’anni si è frapposto fra la prima, che rivela un luogo rigoglioso e ancora vitale, e la seconda, che viene successivamente attribuita allo sguardo freddo e razionale di Jack Crow.

 

La battaglia del vedere

Vi è una timida apparizione del sesso, esplicito nella sequenza del motel, nelle scene di nudo e nelle battute taglienti di Crow a padre Adam, ma comunque presentato in forma fredda e distaccata, diversa dalla sensualità evocata ed esplicitata dalla maggioranza dei film vampirici.

La raffigurazione è una realtà percepita direttamente dall’occhio, rendendo lo spettatore testimone in prima persona dell’accadimento narrato. Vampires non è un film che incute terrore, il regista preferisce affidarsi esclusivamente all’orrore, alla brutalità, della visione. Un esempio è dato dalle scene dei massacri iniziali, o peggio ancora, quando Crow ritorna il giorno dopo nel motel per praticare i metodi apotropaici sui suoi compagni. Carpenter cerca di inglobare lo spettatore nelle immagini, mostra incessantemente la macchina, la soggettiva, che diventa lo strumento per comunicare con una realtà altra e ci pone angosciosamente dentro le immagini, dove i vampiri sono il (nostro) meccanismo di proiezione, il mezzo attraverso cui affrontiamo la battaglia del vedere. Si inizia con Crow che spia dal buco della serratura del covo dei vampiri nell’incipit. Poi sfruttando l’empatia che esiste tra le creature della notte, e in particolare tra Katrina (che Crow usa come telecamera remotata,) e il Gran Maestro Valek: lei è obbligata a vedere l’orrore dell’uccisione del prete quasi in diretta, come se fosse (e noi con lei) presente, il cartello segnaletico che indica la destinazione del vampiro. Grazie a questa telepatia Crow si mette in comunicazione con la realtà dell’"altro" e la mette sotto scacco in un duello finale da film western. Infine lo stesso Crow è costretto a guardare, con un misto di ansia, paura e allo stesso tempo piacere, da un monitor della prigione padre Adam che fa da esca ai vampiri.

Nella loro tensione alla libertà i vampiri sono inquietamente reali. Non è un caso allora che Carpenter scelga la semplicità di un effetto speciale che faccia immediatamente parte del corpo-attore senza particolari trucchi o mutazioni. Nel cinema di Carpenter sono gli occhi a muovere il mondo, a capovolgere le forme e a ristabilire il corretto equilibrio di una visione che tormenta e seduce. La domanda da porsi è cosa si nasconde dietro all’apparenza delle forme, cercando lo sguardo più adatto per riconoscere il bene dal Male. Un’operazione facile se non fosse che il Male, come il bene, spesso si confondono. Inoltre pone l’accento sull’idea del vedere e dell’essere visti, in quanto è proprio dalla capacità di vedere e percepire che dipende il successo dell’impresa.

Nel finale Crow uccide Valek in una sequenza omaggio al Dracula di John Badham (1979). Nel film di Badham Dracula, nella stiva di una nave, viene "agganciato" ad una cima dell’albero maestro e issato alla luce del sole che naturalmente lo uccide. Solo un brandello del suo mantello viene portato via dal vento, e il volto di Lucy, prima angosciato e straziato dal dolore per la fine del suo amore, lascia ora presagire una possibilità di ritorno, di continuazione. Carpenter gira le sue sequenze finali in una prigione, Crow lotta con Valek, lo trapassa con la croce di Beziers, ma non basta: il vampiro è più forte. Allora padre Adam fa crollare una parte del tetto lasciando entrare la luce, Crow espone a questo barlume Valek, che così viene ucciso. Ma anche Carpenter ha lasciato uno spiraglio, una possibilità di continuità. Il compito è affidato ai due nuovi vampiri, figli di Valek, ai quali non resta che scappare: con lei che ha quasi completato la trasformazione e lui all’inizio del suo cambiamento che ripete senza speranza "ce la farò". Sarà Jack a dirgli la verità, a urlargliela: "ovunque andrai, ti nasconderai, io sarò lì e ti darò la morte", ma nel frattempo gli lascia il tempo di allontanarsi.

Come l’origine del vampirismo è da ricercare, per il regista, nella Chiesa, che nel corso dei secoli ha cercato di combattere il fenomeno istituendo delle apposite squadre, delle quali Jack Crow rappresenta l’ultimo condottiero, similarmente l’origine dell’AIDS (stando a voci incontrollabili e non verificabili) è da attribuire ad un esperimento di laboratorio sfuggito di mano ai suoi ideatori. Vampirismo e AIDS vengono legati insieme dal concetto di infezione ematica, non si fatica a leggere che sia una parte di infezioni ben più vaste che colpiscono la società e le sue strutture. Nella figura del vampiro Carpenter fa balenare tutta una possibile sequenza di identificazioni: da quella del capitalismo, vampiro delle classi socialmente ed economicamente più deboli, a quella dell’AIDS e di conseguenza dell’infezione che porta gli esseri umani ad una chiusura sempre più netta nei confronti dell’altro e del diverso. Tutto ciò è possibile perché la società del benessere cloroformizza le persone e inibisce la capacità di riflessione sulla realtà che le circonda.

 

Gabriella Comini

 

 

 

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