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Torino Film Festival 1999Torino Film Festival - 1999
Retrospettiva John Carpenter
Big trouble in Little China (1986)

Per il baldo camionista Jack Burton è tutta una questione di riflessi. A cominciare dalle sue sfide maschiliste con Wang-Chi, come quella che consiste nell’afferrare al volo una bottiglia, che decolla da un tavolo. E la prontezza di riflessi pare essere la password per capire appieno i nodi di Grosso guaio a Chinatown. Considerato impropriamente da molti come un omaggio alla cinematografia hong-konghese del fantasy e del wuxia-pian, che ha il piglio del divertissement postmoderno, il film illustra lo sforzo pregnante di John Carpenter nel voler più che riscrivere, piuttosto operare una critica sistematica ai codici dei generi hollywoodiani. Già questo logos di nome critica! Come la questione di riflessi è capace anch’esso di aprire molte finestre nell’immaginario carpenteriano. In quanto anche un livello di lettura dato da una sola visione può risaltare la disfunzionalità di questo cinema verso quello delle majors, che nel suo furore nichilistico è una stigmatizzazione delle norme, della società, delle istituzioni, della tecnologia, del cinema d’appartenenza ( la scritta Hollywood ontologicamente avvolta dalle fiamme in Fuga a Los Angeles) e del racconto ( ormai definitivamente collassato dopo Il seme della follia). E la presa di posizione contro i generi in Grosso guaio a Chinatown si fa più radicale e semiotica, attraverso quel surplus di inverosimiglianza narrativa, consono non solo al fantastico, ma anche a quella legge dell’accumulo che caratterizza il tessuto connettivo degli Hong Kong movies, fondata soprattutto sull’ibridizzazione dei generi. Di cui la pellicola, come dicevamo, fa ampio sfoggio. In una logica meticcia infatti commedia, kung fu, horror e fantasy si inseguono serratamente, traendo in inganno il critico meno indulgente. Ed anche i movimenti della m.d.p. ne traggono beneficio. Si pensi alla lotta nel vicolo fra le fazioni opposte, dove trionfa il trio iperdinamico di Lo Pen, che sembra uscito da Zu: Warriors of the magic mountain di Tsui Hark, che per i loro funambolismi ipercinetici non hanno nulla da invidiare a quelli dei combattimenti kung-fu di Samo Hung. E questo non basta. Perché anche la coppia di eroi interrazziale Burton/ Wang-Chi, non configura solo nuovamente la connotazione politica del cineasta, ma scombina le logiche della stereotipica strana coppia del cinema omologato, fino allora basata sulla differenza sessuale e le incongruenze caratteriali/umorali, e non certo etniche. Occorre quindi dare atto a Carpenter, se dunque il futuro ci avrebbe riservato sodalizi come quello Mel Gibson/Danny Glover di Arma letale, e Jackie Chan/Chris Tucker di Rush hour. In parole più povere quello che il creatore di Jena Plissken intuisce con la solita preveggenza artistica, è che il suo audiovisivo è in rotta di collisione e di contaminazione con quello dell’ex-colonia inglese. Fenomeno che molti attribuiscono erroneamente alla trasferta americana di John Woo, e alle lodi decantate nei suoi confronti da adepti come Scorsese, Tarantino e Hill. Prima quindi di meticci filmici come L’armata delle tenebre di Sam Raimi, Arma letale 4 di Richard Donner, Costretto ad uccidere di Antoine Fuqua, e Face off dello stesso Woo, il modus operandi di HK è utilizzato di prammatica dal cineasta come un efficace strumento di critica, associabile per la sua preponderanza agli studi di Olivier Assayas sugli hong-konghesi.

 

Fabio Zanello

 

 

 

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