Expanded Cinemah

27 Gennaio 2009
Sabra e Chatila nel Giorno della "Memoria": cattiva coscienza e meccanismi del Ricordo


Vals im Bashir (Valzer con Bashir) di Ari Folman


"Domenica 11 gennaio, approssimativamente alle 03:00 am, caccia F16 hanno bombardato il centro per orfani dell'associazione Dar al-Fadila, che includeva una scuola, un college, un centro informatico e una moschea in Taha Hussein Street, nel quartiere Kherbat al-'Adas a nord est di Rafah. Parte degli edifici sono andati completamente distrutti e quelli ancora in piedi sono seriamente danneggiati. La scuola assisteva circa 500 bambini senza più genitori" ... c'è la storia specifica del Sudafrica a indicarci la strada per costringere Israele razzista e colonialista a giungere a un compromesso.
Non boicottare allora quel regime di apartheid fu considerato un po' come esserne complici, cosa cambia oggi? ... Diversi ebrei israeliani si sono uniti alla campagna di boicottaggio, circa 500 finora, fra i quali Ilan Pappe e Neta Golan, sopravvissuti all'Olocausto che gridano "mai più".
(Vittorio Arrigoni, da Gaza, "il manifesto", 14 gennaio 2009)

"possiamo perdonare gli Arabi per l'uccisione dei nostri figli. Non possiamo perdonarli quando ci obbligano ad uccidere i loro figli".
(Golda Meir, conferenza stampa tenuta nel 1969)


Anche in questo caso come per l'ultimo editoriale - dedicato anch'esso all'orrore mediorientale - torniamo sul luogo del delitto.
Stavolta il link va a una recensione di un documentario del 2001, Sharon, l'accusato, The Accused (un prodotto Bbc 'incredibilmente' non registrato sull'Imdb!!), di nuovo scrivemmo quella recensione ben sette anni fa... il film di Folman non aggiunge nulla a quello di Fergal Keane, anzi al limite è un po' più reticente nell'ambito che riguarda la sfera personale, ovvero nella componente di maggior valore del film candidato all'Oscar per il miglior film straniero: per esempio, possibile che Folman (per il resto sinceramente impegnato a ricostruirsi una memoria senza infingimenti e con un'attenzione particolare ai meccanismi che la regolano) non ricordi occhi a cui lui in persona abbia tolto la luce... il suo camerata ricorda 26 cani da lui uccisi, che l'ossessionano, si narra di un altro commilitone impazzito alla vista dei cavalli morenti... e il regista stesso ha un flash tra gli ulivi di uno sheba con lanciarazzi a cui hanno (ma collettivamente) tolto la vita... ma lui, militare di Tsahal - certo non refusenik - non ha in mente nessun ricordo (o quelli li ha meticolosamente scansati ancora per un po'?) di un omicidio perpetrato da lui in persona.
Questo è un aspetto del film che lascia trapelare il suo vero intento: la strage maronita ai danni dei campi profughi del 1982 è un episodio in cui è coinvolto il ricordo personale, ma non si denuncia quello (e purtroppo neanche la criminale politica israeliana: un valido motivo per spiegarsi come mai un film così crudamente esplicito riguardo alla prassi militare non sia stato boicottato dal governo di Olmert), il lento processo di riemersione della memoria di guerra si generalizza a tutte le situazioni belliche in un afflato antimilitarista che, pur insistendo su quel caso di ferocia inaudita su popolazioni civili, trova un po' di diluizione della sua forza documentaria nei differenti racconti di quella invasione del Libano. Sabra e Chatila diventano così il climax a cui tende tutto il film, raggiunto però attraverso un percorso di guerra teso più a considerare la psicologia di ragazzini mandati allo sbaraglio a perpetrare nefandezze di cui poi si vergogneranno per sempre (se mantengono un po' di coscienza), sbilanciato sul loro disagio, mentre le sofferenze altrui sembrano essere l'indispensabile sfondo di orrore, ma pur sempre appannaggio del nemico e quindi meno importante del proprio disagio, sostanzialmente negando il diritto ad esistere alle realtà non confessionali, meglio etichettabili come invasate a livello internazionale.

Dai segnali che provengono da oltreoceano si potrebbe avere l'impressione che questa di Gaza sia l'ultima strage perpetrata con queste modalità, ovvero seguendo il canovaccio che procede da sessant'anni in qua, raccontando fandonie sprezzanti senza avere neanche il pudore di costruirle bene, perché tanto l'opinione pubblica mondiale è manipolabile; l'escalation si può dire che è iniziata proprio tra Tall el Zatar (massacro ordinato da Hussein di Giordania nei primi anni Settanta) e Sabra e Chatila (strage del decennio successivo che emerge lentamente dai ricordi di Folman; fin da subito apparve attribuibile a uno Sharon più giovane di quello disegnato nel Valzer con Bashir sullo sfondo del suo ranch intento a una colazione consumata contemporaneamente da tutta la filiera del suo comando). L'impressione che possa essere l'ultima strage coloniale d'altri tempi è legata all'avvento dell'era obamiana, sviluppo del "politicamente corretto" clintoniano: a tutti interessa fingere di aver superato il brutale sistema conservatore, ma soprattutto l'orrore prodotto da una nazione incapace di vedere la sproporzione delle sue violenze potrebbe infastidire gli affari internazionali: infatti la comunità ebraica americana ha già cominciato a prendere le distanze dalla conduzione delle operazioni di guerra di Tsahal e del governo che lo ha lasciato libero di massacrare in prima persona, senza neanche l'interposto sicario falangista come a Sabra e Chatila. E questo è il secondo aspetto denunciato da taluni come ambiguo del film di Folman: in realtà a ben vedere il taglio voluto dal regista per evitare di venire attaccato dalla sua comunità, non accusa esplicitamente, riporta l'intervista fatta al giornalista, lo stesso che lui aveva visto giganteggiare, un eroe della stampa israeliana... la somma dei tasselli: il colonello che lo informa, la telefonata a Sharon, che gli ribalta la stessa domanda che lui ha fatto al colonello: "Ma lo hai visto con i tuoi occhi?" a cui risponde il responsabile dell'altura da cui con il binocolo i soldati israeliani assistevano alle fucilazioni sommarie (e quell'allusione al mascherino in b/n ricorda molto il voyeurismo dei primi film muti o dei fenachistoscopi), in un magistrale intreccio di testimonianze che cercano di inseguire il taglio documentaristico, lasciato un po' da parte dal bisogno di recuperare il proprio equilibrio psichico insieme alla propria memoria.
Non è che si tratta dell'ultima volta che i palestinesi verranno vilipesi, sottomessi, massacrati, decimati... da ora in avanti, soltanto si cercherà di eliminarli dalla Palestina in modo soft, proseguendo embarghi, blocchi, soprusi, assedi, omicidi mirati e incarcerazioni dei leader per poter dire che non ci sono interlocutori.


Cosa c'entra tutto quello che vediamo in tv in questi giorni (nonostante le ignobili veline filosioniste) con l'interessante film di Folman? quasi nulla, tant'è vero che siamo corsi a vedere Valzer con Bashir, nonostante consideriamo buona l'idea di colpire gli interessi israeliani, boicottando i prodotti con il codice a barre 729, che significa "made in Israel", che è cosa ben diversa dall'odiosa bugia disinformativa dei nostri telegiornali, giù giù, fino alla Dandini con Ovadia, i quali vorrebbero spacciare l'iniziativa (fatta propria anche da Naomi Klein) che ebbe successo con un apartheid precedente - quello sudafricano - come una riedizione della notte dei cristalli, trasformandolo in invito a boicottare i negozi degli "ebrei" (è diverso cercare di colpire gli interessi di un paese regolato da norme razziste e militariste rispetto all'intento odioso di colpire i singoli esseri umani soprattutto se ordito in base all'appartenenza etnica o religiosa), mentre quel che si intende colpire è l'economia di un paese intento da anni a rubare ai palestinesi per rivendere loro il maltolto (sia esso acqua, medicine, alimenti rincarati dall'assedio e dalla borsa nera "sotterranea").
Tutto ciò sembra che non c'entri quasi nulla con il Valzer, ma in realtà non è così, perché il film trae interesse dal fatto che guarda indietro a un episodio di 25 anni fa ripetuto a Jenin in misura minore e ora a orologeria per il gran finale: il riscuotersi della memoria in Ari nasce con un ritardo di un quarto di secolo e non può essere casuale... Durante la visione del film ci si chiede cosa avrà pensato il regista in questi 25 anni quando vedeva in tv Sharon o gli interventi dei carri armati, le uccisioni di giornalisti e pacifisti stranieri che facevano scudo alle case distrutte sistematicamente: quali meandri della memoria avrà percorso il suo pensiero per evitare di occuparsene, possibile non gli risvegliasse nulla? Ma soprattutto ci si chiede cosa sia cambiato per far insorgere persino quella memoria sopita e anestetizzata dalla potenza mediatica ora in grado di eliminare dalle coscienze un orrore che al tempo dei fatti costrinse Sharon alle dimissioni.


Ebbene, si va a vedere un film con codice a barre che inizia con 729, perché alla fine quello è il massimo che riesce a porre sul piatto della bilancia antimilitarista da parte di quella cultura imbevuta di nazionalismo acritico, di odio biblico, di pretese di rivalsa affondate nel passato, anche a rischio di sovvenzionare quel modo di pensare. Tant'è vero che è sostenuto e sovvenzionato dalle istituzioni della nazione israeliana, probabilmente perché non aggiunge nulla a quello che ormai à considerato storia... e forse proprio qui si indovina il criterio che ha fatto (inconsciamente?) riemergere la memoria nel regista: ormai è storia e quindi si può affrontare con quel distacco anche il proprio affanno personale di fronte all'orrore a cui si è assistito senza muovere un dito, perché gli ordini erano quelli: eseguivano disposizioni dei superiori (proprio come nella difesa di Eichman).
Quindi in termini generali, per quello che riguarda la politica e la guerra che contrappone dal 1948 a oggi le due comunità, il film risulterebbe scontato, quasi pleonastico; dal punto di vista documentaristico poi non ci sarebbe nulla di nuovo, persino le immagini finali, non più disegnate ma finalmente con i colori un po' acidi della pellicola d'epoca, con una luce solare che abbacina illuminando il massacro, persino quella presa di coscienza, rigurgito di memoria tangibile (fisica come quel vomito che all'inizio sbocca sullo love-boat dalla figura trista del nerd con fantasie sessuali represse e sostituite con la guerra), addirittura quelle immagini che inchiodano i responsabili al loro bisogno di sangue per controllare e innescare la spirale che richiede da parte della società altro sangue in cambio di delega del potere, perfino quelle immagini viste tante volte... tutte queste diventano reperto storico come il bambino con mani alzate del ghetto di Varsavia - citato esplicitamente per poter dire in qualche modo indiretto che i comandi di Israele si sono comportati come i nazisti (una condanna che Sivan va documentando dal primo dei suoi film in modo meglio argomentato). E diventando reperto storico, sono private della loro forza di denuncia, assumono quella patina di archivio in cui 3000 morti sono assimilabili alle molte stragi di guerra di tutte le epoche. In qualche modo si supera l'orrore, ammettendolo e archiviandolo, "memorizzandolo" - finalmente - ed evidenziandone l'orrore: si storicizza... si disinnesca. Probabilmente è questa l'operazione che è piaciuta e fa vincere il Golden Globe senza disturbare Israele come stato oppressore... ma rimane l'individuo, quello che fa i conti con quella sua memoria perduta di sé.
Infatti il film non aggiunge nulla alla storia e la ricostruzione alla fine della personalissima indagine non cambia di una virgola quello che si sapeva, non solo - pur di non essere boicottato - il regista si guarda bene dallo scardinare i meccanismi devianti dell'opinione pubblica israeliana condizionata a considerare proprio diritto perpetrare un genocidio, rivendicandolo senza vergogna. Ma quelli in fondo sarebbero rimasti comunque ai margini di quanto realmente interessa a Folman: l'interesse indubbio della pellicola è orientato ai meccanismi della memoria e alla sua inibizione per istinto di conservazione (non a caso i cavalli della tauromachia picassiana conducono alla follia chi li vede dibattersi morenti); il percorso è individuale, una personale opera di ricostruzione sulle macerie della propria memoria.


Si va a vedere questo film, nonostante il 729 nel codice a barre, perché questo è il massimo che si può pretendere da uno stato così imbevuto di fanatismo nazionalista e religioso; da definire pacifista e progressista il suo intellettuale più famoso che ha il coraggio di scrivere: "Uccidiamo i loro bambini adesso per salvarne tanti domani" (Abraham Yehoshua su "Haaretz"). Una presa di coscienza simile è sorprendente se si pensa a come la materia è stata trattata dalla stampa italiana, dalle veline e reticenze e falsità che abbiamo dovuto sopportare, dalla Annunziata che si indigna di fronte a reportage finalmente non anestetizzati (o a cui fa immediatamente seguito la descrizione del timor panico di due razzi di cartone in campo israeliano, su case rubate a chi è bombardato in quel momento dall'altra parte del reticolato che lo incarcera), perché la vulgata doveva far passare il diritto di un popolo (evidentemente vittima di quelli che sta bombardando dopo avergli rubato il territorio!!) di massacrarne un altro a fronte di pretesti... e vedendolo ci si ritrova soddisfatti che gradualmente l'autore a 25 anni di distanza si accorga di quello che era avvenuto sotto i suoi occhi: un generale israeliano che con un megafono riesce a decretare la fine della mattanza non è sospetto? l'inerzia della truppa che "osserva" (dove avranno preso il coraggio di non intervenire di fronte a un falangista che mima il modo in cui ha assassinato un vecchio?), ma ancora più colpevole quella delle gerarchie conniventi e i politici mandanti. Sembra un incubo, anche il colore uniforme (mai espressionista o cupo, solo inquietante) contribuisce a far apparire il tutto borderline: al confine del delirio onirico, ma ben saldato alla realtà quando i nomi degli interpellati, scritti a fianco dei loro volti durante l'inchiesta riconducono tutto il racconto alla sua dimensione "reale". E diventa geniale gradualmente la struttura che risale ai singoli episodi proprio andando a ricercare testimoni "reali" e resi ancor più tali dall'iperrealismo del disegno, quando il protagonista si rende conto che nella sua memoria c'è un buco.


Il primo commilitone - il nerd arricchito dai felafel a Utrecht - getta lì una delle molte raffinatezze di cui è costellata la pellicola: gli va bene che il regista faccia disegni di lui e suo figlio nella neve olandese, ma non riprese... forse serve per conferire distacco secondo lui, ma l'uso che ne fa Folman invece avvicina la materia e permette anche di giocare con la fantasia: come nel caso della surreale apparizione della bellissima sirena allo stesso uomo dallo sguardo e tono tristo, ragazzino represso che se lo porta in grembo nuotando placidamente mentre il mare diventa rosso sangue e i suoi camerati sono avvolti dalle fiamme... basta questo per ottenere un ritratto negativo dell'orrido arricchito che si permette anche di non stupirsi riguardo a quello che può essere successo ("I falangisti li conosco bene: sono sempre stati malvagi"), al motivo della ricerca sempre più spasmodica di Ari. E anche in questo senso la pellicola d'animazione evidenzia il suo intento principale: illustrare la vacuità, lo squallore, la pochezza della vita militare, infarcita di cameratismo machista (il comandante che guarda filmini porno nella dimora sontuosa occupata da becere truppe: un bivacco per i suoi manipoli); non c'è un interesse politico o fazioso, al centro c'è solo lo schifo prodotto dai militari in generale (in questo caso Tzahal, in altri casi le Forze Armate oggetto di culto fascista il IV novembre in Italia).




Ed è funzionale a questo la lunga sequenza del suo ritorno in licenza in una città lontana dalla guerra - o che Ari percepiva come tale -, per i ritmi, gli interessi, la vita che proseguiva immemore del fatto che lui e i suoi camerati erano al fronte... Ari fa confronti con la sua infanzia costellata di paure e si accorge che la guerra è davvero distante: Begin e Lydon (This is not a love song) si contendono le vetrine dai televisori, sembra che nessuno si renda conto della guerra in corso: sequenze di vita notturna si intervallano all'esterno frenetico... fin dal Vietnam i soldati si sentono estranei alla vita dei civili e questo sembra proprio uno di quegli innumerevoli film sulle guerre americane: non solo per le sequenze comuni alla Bigelow, oppure per la canzonaccia "Oggi ho bombardato Beirut", ripresa da una canzone della guerra di Corea (quella di M.A.S.H); è l'intento che riconduce a quella tipologia: a Folman non gliene frega nulla dei palestinesi, anche l'angoscia è per quello che lui potrebbero aver fatto e non per quello che loro possono aver subito, è solo la sua parte in causa che gli interessa e non umanitariamente rilevare il disastro che ha colpito quella comunità.
Come in genere il cinema occidentale, anche lui è ripiegato solo sul proprio ombelico a rimuginare dal suo punto di vista quanto è stato vittima di quella guerra: l'assenza di qualsiasi palestinese dall'immagine è sintomatica in quel senso. E il nemico manca a maggior ragione in licenza, e questo non fa che rimarcare il suo stupore a vedere come si dipana normalmente la vita a casa: in fondo anche al fronte i palestinesi non si vedono. Ed è importante che avvenga questo, perché si possono odiare molto più facilmente persone invisibili, si possono uccidere senza rimorsi, finché non si vede una donna che urla la sua disperazione, una bambina riversa scompostamente, una bambina con i riccioli, esattamente come la figlia del giornalista, e la mano abbandonata alla morte.
Ma di nuovo è solo rispetto a se stessi che quelle immagini colpiscono, per il proprio concorso in colpa.
Quello che manca è la valutazione umana e sovversiva che invece c'era in Robert Kramer, quando andava in Vietnam a documentare veramente: infatti la differenza tra quella indignazione che mosse le masse contro i signori della guerra di Washington sta nel fatto che nei documentari di Kramer c'erano i Vietcong, c'erano i bombardati, i massacrati dal napalm (ora si chiama fosforo bianco ed è evanescente, anche troppo bianco: non si vede se non nei reportage di Arrigoni o nelle riprese dei reporter di Al Jazeera)... a causa di quella sollevazione popolare ora il potere censura, impedisce la visione della realtà e ci impone giornalisti corrotti il cui unico scopo è "orientare il pensiero": raccontare balle, insomma.


Eppure è proprio da lì, da quella visita in Olanda presso uno spento figuro ricco ma non soddisfatto e dal ritorno a casa con l'unico scopo di riconquistare la ragazza che lo aveva appena mollato e popolava le sue fantasie nelle notti di sentinella, che cominciano a sciogliersi le sinapsi che rappresentano i meccanismi della memoria (tornando all'aeroporto di Amsterdam Folman ha il primo flash di guerra, il primo tassello di un puzzle mai appassionante - perché "potrei scoprire cose di me che non voglio conoscere" -, sempre teso e soffocato dall'incombenza di qualche tratto terribile, di cui si ha sentore ma non percezione mnemonica): uno dei primi evidenziati visivamente è quello che incornicia una mongolfiera oltre la finestra alle spalle del protagonista il quale cerca di rendersi conto di quale sia la sindrome che lo ha colpito e l'amico psicologo a cui si rivolge gli rivelerà poi di un test somministrato a 10 soggetti, 8 erano convinti di aver davvero vissuto un episodio, in realtà fittizio, comprensivo di luna park infantile. Ecco, genialmente il regista usa quella stessa ruota da baraccone e quella mongolfiera che ha in quel momento alle spalle per ricostruire una memoria inesistente prefabbricata sulle parole, che producono immagini e ricordi "irreali", inesistenti né qui, né allora... ma al Luna park
Esempio calzante, alla luce anche di un altro ricordo di Shmuel Frenkel "Patchouli", l'ardito compagno d'armi rimasto dedito ad arti marziali (quindi mai più tornato in sé, prodotto di quell'invasamento che agisce e produce deprivati in un ambito "fuori dalla realtà" memorizzabile): ricorda che, mentre erano inchiodati dai cecchini, alle finestre e sui balconi la popolazione di Beirut assisteva come di fronte a uno spettacolo... esattamente come nel bel The Hurt Locker di Bigelow, che inserisce il disinnesco di un'auto imbottita di esplosivo tra case brulicanti di occhi non propriamente bonari e amichevoli.
Quella è la memoria indotta, quasi un clone dei ricordi dei replicanti di Blade Runner (film uscito proprio nel 1982), la memoria fittizia che per forza Ari deve aver avuto, ma che nel film non compare. La consapevolezza del tempo trascorso in servizio militare deve aver lasciato qualche ricordo; manca totalmente, perché il film mira solo a ricostruire una memoria davvero vissuta... di quella fittizia rimane solo la mongolfiera.
Il problema - e allo stesso tempo il fascino del film nascosto sotto la superficie del documentario, che non è mai, nemmeno quando sapientemente intreccia i ricordi di due testimoni, piuttosto si può rubricare come apologo antimilitarista - è che mai nessun interpellato alla fine del racconto riesce a indicare con certezza gli eventi come sono in effetti accaduti: c'è sempre un punto di vista diverso, una situazione sfuggente, un dettaglio che mettono in forse quello che si è convinti di aver visto e vissuto; qualche volta si tratta del commilitone che smentisce con forza (Cna'an: "stai confondendo la realtà con il parto della tua immaginazione!"... ma sarà poi vero che quella sequenza che ricorre per ben tre volte sulla spiaggia è del tutto onirica, o piuttosto è avvenuto qualcosa che fa parte dell'ellisse?); altre volte è l'impressione che gli altri ribaltino la sensazione di abbandono e diserzione.
Colto questo, ci si rende conto che il film non è incentrato su quell'episodio che rimane più impresso e a cui si tende dall'inizio perché è il chiodo fisso del protagonista (Sabra e Chatila)... in realtà è coralmente contrario alla "memoria" della guerra, di qualsiasi Guerra: gli episodi non sono mai realmente come si pensa e comunque ci sono sempre versioni diverse rispetto a quelle appena ricostruite, perché Guerra è menzogna, è controllo delle coscienze e loro manipolazione, era rimozione (a quel tempo), sono giornalisti embedded (ora, Pagliara; non certo quello che Ari intervista e che adesso non potrebbe svolgere il suo lavoro, perché impossibilitato a entrare nei teatri di guerra) o proiettati a orientare (Annunziata per sua ammissione nello screzio con Santoro "orienta il pensiero degli italiani" non "informa gli italiani"), sarà reticenza: gli attuali militari israeliani che tra vent'anni non sapranno come liberarsi dal rimorso di essere entrati in case per deportare e ammassare, per poi magari sterminare con un missile, o dileggiare dopo un saccheggio, esattamente come - inorridendo - documenta Ari delle prassi medievali dei maroniti che si caricavano di amuleti fatti di parti dei corpi dei palestinesi uccisi; degli aviatori... come Enola Gay, raffinata e filologica citazione musicale - Orchestral Manoeuvres in the Dark incise all'inizio degli anni Ottanta quel fortunato pezzo - che rievoca l'orrore... e Mordechai Vanunu ci consente, con i suoi 18 anni di galera, di annoverare Israele tra le potenze nucleari - ma l'Iran è sotto sanzione esattamente per la stessa criminale volontà nucleare, un'intenzione che però per i persiani mai si è realizzata.

Altro sistema per mettere in scena i meccanismi mnemonici è la mistura di immagini fotografiche e disegni, che sono solo preludio e anticipazione della visualizzazione finale della ormai nitida memoria; capita innanzitutto con il secondo interpellato (Ronny Dayag), alle sue spalle una sorta di bacheca familiare con fogliettini e disegni dei bambini. La foto dei due bambini rimane con le caratteristiche della foto, i colori sono diversi, più reali e simili a quelli del finale: l'ingresso ai campi devastati dai maroniti orfani di Gemayel: immagini "vere". Fotografie, come quelle dei due bambini di Ronny. Inseriti però qui e là fungono da emersione della realtà in un mondo fatto di disegni, ovvero di interpretazioni non verificate, di approssimazioni azzardate, di saltuarie emersioni di memoria soffocate... unica certezza di legame con la realtà sono i ragazzini: per Dayag sono due sagome in fotografia a colori evidentemente in un momento di festa; per Carmi Cna'an il figlio Thomas (7 anni) invece deve rimanere solo disegnato, forse perché gioca già con un fucilino e gli ha chiesto curioso di fargli racconti di guerra.
E a questo punto il montaggio ha un'alzata di ingegno: a quelle immagini di ragazzino con fucile nella neve olandese si aggancia il brano Enola Gay e dall'alto di un possibile volo assassino si arriva a incrociare il "love-boat" del nerd malato di sesso vent'anni prima, che sfoga le sue "fantasie" (di nuovo il rifugio nell'irrealtà di fronte alle paure, questa volta l'inibizione sessuale: "Quando ho paura mi addormento e mi rifugio nella fantasia"). Difatti soltanto nella sua fantasia era un love-boat: anni dopo gli rivelarono che era un'unità della marina... di nuovo i meccanismi della memoria fanno cilecca e la ricostruzione viene in soccorso del terrore del vero, della paura di riconoscersi come dei mostri.

Ma ancora diverso è l'approccio dell'episodio che mette Ronny di fronte a una foto di un Ari Folman risalente a venticinque anni prima: questa volta la foto è disegnata perché è stata scattata... nella sequenza successiva, disegnata con i camerati in posa sul carro armato: non è autentica, è parto di quel periodo, infatti il commilitone non lo riconosce, ha rimosso quell'Ari di quel periodo di servizio militare da cancellare con le sue immagini (che paradossalmente sono fatte "per ricordo").
Ed è quello stesso carrista che alla fine del lungo - troppo - racconto di come si salvò da un'imboscata, unico sopravissuto del suo mezzo blindato, nel cimitero guardando da lontano i riti in suffragio (e ricordo) dei suoi compagni morti dice: "Volevo prendere le distanze... volevo solo dimenticare". Un altro aspetto di quella "amnesia dissociante", come la definisce la psicologa a cui Ari si rivolge quando si accorge di aver partecipato a un'azione traumatica senza ricordarla, l'assassinio del ragazzino con lanciarazzi... ne soffriva un suo paziente, che poteva reggere all'impatto dell'orrore solo considerando quello che lo circondava come un "parco a tema"... e di nuovo la metafora della fotografia diventa il metodo per esprimere la sindrome e metterla in relazione con la memoria: faceva foto mentali di questo affascinante parco, finché i cavalli diventarono un segnale di impossibilità a reggere la follia. Si specchiò nei loro occhi morenti e scivolò nella sua pazzia.

C'è ancora un meccanismo che l'ex soldato Ari mette in moto e il regista Folman recupera nella sua memoria: l'"allucinazione" in cui rifugiarsi nel momento in cui la tensione per quello che sta per succedere si fa troppo pesante. La colloca nell'aeroporto, che la sua immaginazione aveva fatto funzionare al meglio, persino gli aerei bombardati sulla pista aveva aggiustato, addirittura i tabelloni che sciorinavano destinazioni... E forse la memoria a lungo termine si era fermata lì, prima che riemergesse la coscienza e la paura attanagliasse le viscere, vedendo la distruzione e l'abbandono, il saccheggio e la tristezza dell'aeroporto devastato. Cercare ricovero nell'allucinazione è un lusso che i palestinesi bombardati, massacrati, ammassati, braccati non si possono permettere, mentre con il pretesto ormai mondialmente spacciato per verità sacrosanta della presunta difesa dell'unica democrazia in apartheid diventano bersaglio di qualsiasi arma: questa loro condizione è presente nel film ed è il momento in cui Ari Folman estrae la sua anima nera di antipalestinese. L'inseguimento dell'auto rossa (mai colpita) è un videogame. Inizia con l'obbiettivo inquadrato dall'alto di un aereo (che distrugge l'area circostante l'auto), poi si punta con un fucile e viene ucciso un beduino sul cammello... esilarante forse in caserma, ma in un contesto simile è agghiacciante, realizzato come in un videogame a cui si appassionano probabilmente a Tel Aviv, lontani dai rombi dei cannoni. Probabilmente per il regista doveva essere una sorta di denuncia del fatto che si colpiscono civili inseguendo presunti terroristi, la fattura della sequenza sulle note della canzonaccia però muove al riso e mostra il reale interesse per la popolazione civile palestinese da parte di Tzahal. Figurine di un gioco di guerra: dall'allucinazione alla ricreazione.
Da lì, dal valzer con il kalashnikov che dà il titolo al film e la cifra estetica del lavoro di animazione, scorre tutto molto più veloce con attacchi sul movimento, accompagnati da muri ricoperti col faccione del falangista ucciso; tutto è infarcito di qualche didascalismo (accenno politically correct sul bambino della Shoa nel ghetto di Varsavia, molto retorico, di sfuggita e funzionale a strizzare l'occhio agli intellettuali radical), alcune affermazioni che lasciano di stucco ora a sentire i cloni uguali dell'esercito israeliano a Gaza, queste sì "indecenti" (come direbbe il presidente della Camera) perché dimostrano come il canovaccio sia lo stesso - e quindi ci si potrebbe aspettare che come 27 anni fa il mondo si indignasse ("I campi verranno lasciati una volta ripuliti dai terroristi" e "L'esercito aveva intimato di andarsene"); solo che Ari Folman quando ha concluso il film non poteva sapere che Tzahal avrebbe usato queste formule per replicare lo sporco lavoro dei maroniti. O forse sì?

"Anche il cinema può essere terapeutico: le tue turbe le hai affrontate con il cinema", è l'approccio iniziale, l'interruttore che accende l'interesse del regista: fa pronunciare la battuta a Boaz Rein, l'amico traumatizzato dai cani (e l'incipit con la canizza urlante dall'oltretomba è uno degli inizi di cinema più sconvolgenti: coacervo di cattiva coscienza, bisogno di redenzione e puro panico che serpeggia per le strade inarrestabile). Sul momento Ari non si sente coinvolto, ma il ricordo dell'amico scatena la prima manifestazione del ricorrente (e mai spiegato!!!) incubo dei giovani militari di Tsahal che emergono dal mare e si appressano a una spiaggia... c'è anche l'amico "olandese" che alla fine sancirà il suo giudizio inorridito, quando Ari cerca di rammemorare, coinvolgendolo in un ricordo a quel punto così censurato da non venire spiegato, eppure ricorre tre volte uguale, con colori e nitidezze perturbanti... chissà cosa è realmente successo lì, ma il ricordo è reticente e abortito... solo che sfocia nel vicolo che funge dapprima da prolessi per il "gran finale", ma anche da raccordo tra i tre amici che emergono dal mare - quasi una costante catartica per certi versi (la sirena emerge dal mare, il carrista scappa da lì, i ricordi partono dal lungomare), una via di fuga per altri - e il racconto del giornalista alla fine, che sfocia e va a concludersi con la storia ricercata da Ari su se stesso e termina sulla sua espressione attonita.
Quello che risulta sottile è l'intreccio di testimonianze che si sovrappongono senza restituire una storia vera, né una vera storia, ma un coacervo di orrori insostenibili e violenze, quella frase di Boaz iniziale al bar alle tre del mattino davanti a una birra sulle turbe componibili con il cinema, venticinque anni dopo proseguiva insinuante: "Non hai flasback di Sabra e Chatila? Eri a 100 metri..." Una vera mazzata, infatti anche nel disegno si vede il protagonista vacillare, ripensarci sul lungomare (e quella breve e intensa pausa notturna a portiera spalancata nel vento in una luce livida è un altro segnale di come funziona la memoria: dal mare arrivano i primi flash onirici), tornare a dormire e quella notte stessa avere la prima sensazione di visitazione.

Interessante come anche presso spettatori con background e collocazioni politiche simili, modi di pensare e letture sovrapponibili, l'effetto sia molto diverso.
Un film dunque che stimola a pensare grazie alla contingenza: il suo successo deriva sicuramente dalla sua sopravalutazione, derivante da quanto sta succedendo a Gaza (e dalla sottovalutazione delle conseguenze di questo) e dal fatto che finisce con lo storicizzare anche questa nuova Nakba, relegandola nei libri di storia (o nelle memorie negate di qualche altro soldato), quando è ancora in corso e miete vittime (e così aiuta a mettere la sordina e a disinnescare l'orrore) ma contemporaneamente getta una luce - anche perversa, sanamente perversa - sui meccanismi del singolo soldato che non rifiuta la sua partecipazione, magari non si esalta, medita (poco... deve pensare di più alla sua ragazza che lo ha mollato prima della sua partenza... l'opposto del Kippur di Gitai, con la splendida sequenza dei colori a vernice spalmati addosso durante l'estremo e selvaggio amore prima della partenza), Ari invece rimuove e poi... va a ripescare e rimane senza parole, senza identità, attonito, ma con la memoria e non accetta più che si possa ripetere: insomma l'ultima ruota dell'ingranaggio del consenso (la giovane recluta facilmente esaltabile e interessato di più a riconquistare la ragazza) si può inceppare per il futuro quando storicizza il passato e non lo rimuove più. E funziona però proprio per l'adesione di tutti al sistema propagandato, si va a predisporre per non aderire più a quel consenso.
Ecco, probabilmente un racconto di questo tipo, senza nuove denunce, senza retorica... un percorso di ricerca può sembrare innocuo al potere, ma proprio perché così poco radicale, così privo di denunce esplicite, si può insinuare tra le pieghe della disinformazione, arrivare all'opinione pubblica che non si indigna di fronte alle grida di "Indecente" sollevate dall'ancora fascista Fini riguardo a una trasmissione finalmente equilibrata sulla questione e invece silenzioso di fronte allo spettacolo davvero indecente di un genocidio spietato.

Speriamo che in tanti tornino a ricordarsi come si beve la tequila bum bum e entrino nel campo con le donne per vedere cosa è realmente successo.


adriano boano






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