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21 Grammi:
Apologo sul dolore
o restituzione di una narrazione fatta a "brani"?




Illustri precedenti:

Ricordate il nostro lavoro sui corpi? Ecco, risale a qualche anno fa; poi c'è stato l'uso metaforico di Olmi nel Mestiere delle armi, e già lì era comparsa la deposizione come moto iniziale e indicazione di passaggio epocale attraverso il cambiamento di stato del corpo, poi Chereau: da ultimo con Son frere, ma già prima in Intimacy

Ora il corpo è solo più involucro, simulacro utile per essere diviso in pezzi e seguire la narrazione o meglio i personaggi dislocati ora in uno spazio/tempo, ora in un altro. Lo era già stato nel remake di Solaris realizzato da Soderbergh, Iñarritu si supera e sostituisce al corpo il racconto facendogli subire quello che patisce il corpo, senza dimenticare la presenza di quest'ultimo, ma lanciando un percorso parallelo destinato a intrecciarsi in certi gangli della narrazione che si incarnano per incrociare i corpi e riprendere a delegarne la percezione al dipanarsi del racconto; così facendo restituisce corporeità ai personaggi, diversa, puramente narrativa e in grado di decostruirsi.

Regia:  Alejandro Gonzalez Iñarritu
Sceneggiatura:  Guillermo Arriaga
Fotografia:  Rodrigo Prieto
Montaqgio:  Stephen Mirrione
Cast:  Sean Penn, Benicio del Toro, Naomi Watts, Charlotte Gainsbourg, Melissa Leo
Costumi:  Marlene Stewart
Musica:  Gustavo Santaolalla
durata:  125'; anno 2003
Distribuzione:   BiM


Il testo-corpo è tornato, questa volta l'attenzione trascorre da una parte all'altra, da una situazione ad un'altra, dapprima impermeabili tra loro, poi gradualmente se ne colgono i fili fortemente intrecciati: un corpo sofferente, ancora una volta la deposizione la fa da padrone nell'iconografia, ma poi è il testo che viene fatto a pezzi come se fosse in una tavola anatomica... sisostituisce ai corpi, ma solo in parte; un cuore viene preso, anche se il suo momento viene dopo nell'intreccio, e messo da parte; e con lui si mette tra parentesi una prima storia sentimentale, forse già con i prodromi della sua fine. Poi è un'altra storia e altri corpi fatti a brandelli che occupano la scena intrecciando se stessi a frammenti di racconto composti apparentemente a casaccio; l'affastellamento serve a intrecciare tre coppie di storie, a raddoppiare le morti ("Ma quante volte si muore", sicuramente molte, se mentre si palesa questa tornata un'apparecchiatura segna la fine del film con una linea piatta di un cuore un'altra volta fermato), a far procedere la narrazione altrove.


Ma non è a casaccio: s'inserisce volta per volta un elemento, osservato dai tre punti di vista e in tempi diversi, adoperando la convergenza su un momento, che quando è ormai chiaro allo spettatore diventa un dato acquisito e quindi poco sensibile per passare al successivo, abbastanza prevedibile nella prassi normale dei racconti, ma con qualche elemento in più da renderlo avvincente. E di nuovo si raccolgono dati provenienti dalle tre storie parallele che si incontrano in un nuovo punto, che questa volta è se stesso con in più tutti i momenti centrali del percorso che aveva trovato un nuovo equilibrio nel punto clou dell'incidente. E di nuovo i personaggi sono tutti in gioco a ricoprire nuovi ruoli: il morituro spacciato riprende a tormentarsi ma da vivo con prospettive, l'architetto che ha tutto gli regala casa, cuore e moglie, la compagna che lo cura prende atto, raccoglie provette fecondate, oggetti e se ne va; la mogliettina si trasforma in quello che era prima di essere la classica madre e moglie americana e riprende abusi di droghe, solo il coatto continua a recitare la sua parte, senza riscatto, senza punizione, senza espiazione: che si getti a credere alla più pervicace fede che l'uomo abbia voluto costruirsi come una gabbia, o che sia abbandonato totalmente al nichilismo, per quanto si accusi o si danni non può accedere alla consolazione di trovare una espiazione e ripete ad anello la sua esistenza (come il remake fatto da Albanese di un film che conteneva già i propri infiniti remake), quella è la sua condanna da Sisifo, sempre uguale a se stessa.

Solo per gli altri di nuovo tutto riparte come su una giostra: è una via di mezzo tra La Ronde e Memento (lì il corpo era colonizzato dalla produzione di storie sempre confuse nella loro espressione scritta, ma dove si arrivava sempre a uno snodo in cui era possibile il riconoscersi), dove ciascuno si appropria di ruoli sempre diversi, ma i puntelli per quei corpi "sviscerati" provengono dalle loro storie: questo è palese per la vedova Naomi Watts, che si aggrappa al disco rotto ripetuto ossessivamente dall'ultima telefonata, ascoltata come una litania salvifica, proveniente dal cellulare del marito morto qualche secondo dopo e che promette che si sarebbero visti di lì a poco, un punctum narrativo, ma anche un puntello per il bel corpo ben più appuntito dei suoi capezzoli che già sono da urlo. E a loro si aggrappa il redivivo Sean Penn, succhiandoli nell'amplesso, attaccandosi come un neonato, e davvero quella è la sua condizione di restituito alla vita, o meglio alla morte, visto che la sua coazione a ripetere è quella del moribondo, mentre quella della bella è di trovarsi sola a piangere un corpo desiderato e continuare l'attesa, essendo incinta di un nuovo soggetto in commedia; il balordo Benicio del Toro non ha bastoni fisici, basta il suo corpaccione pesante e difficile da muovere con grazia, ma il suo punto focale è trovare fuori di sé una motivazione per la sua dannazione e scoprire ogni volta che non esiste. Il suo puntello è la sua compagna, forte, determinata, decisa, positiva... che pare aver capito che non ci sono risposte valide, ma solo vicende che si affastellano e vanno affrontate; come la Gainsbourg che prende ciò che può dalla affabulazione (e dal cazzo di Penn) e ne esce, probabilmente verso nuovi loop narrativi; l'ultima coppia oppositiva è il maritino estromesso dalla storia prima ancora di comparirvi, è solo una voce in una segreteria 30 secondi prima che ci venga data la notizia della sua dipartita, diventa ingombrante presenza fotografica e... fisica. Con quel cuore destinato a fermarsi.

Paradossalmente alla fine sembra quasi che la narrazione trovi un suo stato di quiete completando un apparente anello, ma è illusorio come quelli di Escher ed è destrutturato in termini derridiani dagli infiniti anelli - lungi dal puntellarlo, lo rodono dall'interno - che aleatoriamente si vengono creando nella giustapposizione di un frammento con un altro che finisce con il creare un universo con coordinate temporali e spaziali tutt'altro che unitarie, inficiando l'anello di storie grazie alle prolessi, che sono un modo per eliminare il residuo narrativo, esasperando il coté emotivo. le tappe della sceneggiatura sono già tutte esposte, però è proprio quello che mette le basi per una nuova storia. Che potrebbe essere legata al rapporto simbolico innescato tra Benicio del Toro e un ragazzo sbandato, frequentatore della parrocchia e che è la palingenesi del padre, accusato non solo dalla propria coscienza ma anche dal figlio, consapevole della sua colpa. Tutto il film sta in quello sguardo scambiato in chiesa tra il giovane e Benicio: un'intesa, come a ribadire che gli eventi erano davvero già tutti contenuti nell'iniziale sgomento di fronte a un'ineluttabilità nemica. Una trappola dove le scelte conducono sempre a scenari prevedibili, quello che cambia l'orizzonte narrativo è il modo di affrontarli, sono le idee che passano per la mente quando gli eventi ci prostrano e ci trasformano in altro; in altri, infatti Benicio rientra per l'ultima volta a casa indossando il cappellino come il ragazzo, forse pensando così di occultare a Dio il movimento dei suoi capelli. Inchiodandoci a un altro giro di valzer a tre, come già in Amores perros.

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Adriano Boano
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