A fronte di quelle riprese in cui il movimento è contenuto nell’inquadratura, all’interno della quale si scontrano forze cinetiche diverse che operano su piani contrapposti, destinati a non venire mai a contatto (uomini immemori dei carri che li sfiorano), ci sono le ballonzolanti corse del nostro sguardo preso in carico dalla mdp, preposte a restituire l’emozione iniziale, il rischio di cadere nella follia, come capita temporaneamente a Gadassi: la corsa in mezzo alle trincee costellate di morti con la macchina a mano che insegue la smania frenetica di trovare un senso – cioè un vivo – tra quelle figure scomposte dalla morte.

Neanche la camera obiettiva di Gitaï dunque può registrare da sola l’orrore provato, sarebbe insopportabilmente impersonale (come le immagini di Nuit et brouillard di Resnais se fossero private della voce off, pietosamente intente ad aggiungere una misericordiosa presenza umana, la stessa che esiste in The Last Days e in Lo Specialista è sostituita dal tribunale ancora più insensibile e fascista), e quindi ha bisogno di una mediazione: l’uomo, che rasenta la dissennatezza davanti alla morte sparpagliata, inconciliabile, irreparabile, indifferente persino al suo urlo: "Evacuatelo", ripetuto ossessivamente percorrendo come un ossesso il tracciato della trincea costellato di cadaveri scomposti. Ciò che rende unico il lavoro sull’immagine, avvolgente quando si avvicina, accelerando anche la percezione, e al contrario teatralmente statico nelle riprese frontali in campo lungo (quando si rimane impaludati), è l’iperrealismo che si discosta così dalla metafora poetica di The Red Thin Line come dallo spettacolo corale di Spielberg-Stone, quella smania del dettaglio così tipica del reduce, che Stone salvaguarda talvolta dal bisogno della produzione spettacolare, mentre in Gitaï è il succo, poiché si può permettere il lusso di tenere immobile per qualche istante un profilo su un oblò dell’elicottero, costringendo lo spettatore a registrare il rumore dei motori, ineludibile.
Comunque, sia voluto o casuale il richiamo all’immaginario bellico trasposto al cinema, Kippur può rilanciare con una risposta positiva il dubbio di Armando Massarenti (Il sole 24 ore, domenica 29 ottobre 2000, p.34, recensione del libro di Julio Cabrera: Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film, Bruno Mondatori, Milano 2000, £38000), che si pone la domanda "se esista, al di là delle esperienze particolari, un’idea generale di che cos’è la guerra".