The Tracker

Narrazione epica/Apologo scanzonato
Non è casuale che Favetto nella sua insipienza consideri Moulin Rouge il miglior film della passata stagione: tralasciando il kitsch insito nell'operazione di Luhrman, in quel film postmoderno si trovano i due elementi che compongono lo scenario di taluni film interessanti di questo periodo: commistione allusiva di generi, badando a nobilitare il gusto popolare; e musical.
Avevamo cominciato la disamina del musical da Chahine e Gowariker, dove entrambi gli elementi erano presenti in forme diverse: il metalinguaggio sovrintendeva al pot-pourri di Silence... on tourne, pescando tra tutti i generi popolari, e l'amalgama proveniva dalla musica inserita narrativamente e come commento esterno, esattamente come la base delle sequenze di Lagaan sprofondava nelle coreografie, anche quelle risultato di un repertorio completo del gran rimestaggio di generi che è Bollywood.
Lars von Trier, grazie a Björk, in Europa aveva preconizzato il successo di questo modo musicale di incidere sul gusto del pubblico a cavallo del secolo; l'Africa di Chahine (ma anche del senegalese Ramaka o della Caboverdiana Flora Gomes); l'Asia bollywoodiana..., mancava l'Oceania. e questa non può che cercare di sbalordire di nuovo accentuando il gusto locale (forse l'elemento del postmodernismo che più pervicacemente tenta di resistere all'omologazione del modello culturale, rischiando di innescare meccanismi che per il fatto che ripetono universalmente il tentativo di salvaguardare l'eccezione culturale del luogo, diventano fattore globalizzante). E allora la cifra del film di De Heer è l'irrisolta commistione di due culture: quella aborigena, vessata, e quella dei colonizzatori, di cui il popolo oppresso si appropria sia adottando un country-blues alla Ry Cooder per esprimere l'angoscia un po' retorica (a sottolineare l'inadeguatezza di quella forma musicale per esprimere la colonizzazione) dei perseguitati dalla prepotenza bianca, razzista e suprematista; ma anche nel dialogo il genius loci risulta spiazzato dal gioco con le citazioni latine attribuite all'aborigeno: quello è il momento in cui con maestria il regista svela il suo gioco allo spettatore: il western rivisitato nella sua componente già manieristica di Leone, si svela terreno utile per alludere, ma soprattutto per far incontrare competenze distanti come la lettura delle tracce (il sassolino spostato) e la citazione dall'epistola ai Corinzi diventano parti di un'unica cultura che surclassa la supponenza del dominatore bianco, con infinito sarcasmo e grandi dosi di accondiscendenza di chi si sa adatto a sopravvivere.

Musical Sentenzioso

regia.......................... Rolf de Heer

sceneggiatura............. Rolf de Heer
musica........................ Graham Tardif
suono........................ James Currie
band ...................Archie Roach, vocals; Martin Boyd, keyboard; Steve Salvi, guitar & dobro; Julian Barnett, guitars; Andy Salvanos, bass; Craig Lauritsen, drums

distribuzione............... Fandango
Australia, 2002.

Maschera sardonica

regia.......................... Rolf de Heer

sceneggiatura............. Rolf de Heer
fotografia................... Ian Jones
montaggio.................. Tania Nehme
disegni rupestri................Peter Coad
cast ...................David Gulpilil (la guida), Gary Sweet (il fanatico), Damon Gameau (il segugio), Grant Page (il veterano), Noel Wilton (il fuggitivo).

produzione............ Vertigo - Australia
durata........98'

















La furbizia dell'impianto del film è nascosta nella divisione tra ambito sentenzioso predicatorio da un lato, affidato alle ballate, che per antonomasia un po' retoriche devono esserlo e quindi non disturbano se ribadiscono concetti estremamente elementari - ancorché veri - e che hanno comunque bisogno di essere ripetuti se "er pecora" Bontempo si può permettere show indisturbati su radiouno (sproloquiando su quanto fossero state lungimiranti missioni di acculturazione di poveri selvaggi i gas usati dall'esercito italiano assassino in Etiopia e culturalmente corrette forme di evangelizzazione i massacri in Libia, nel momento in cui ci si accinge a ordire altre nefandezze in Afghanistan: abbiamo attaccato corrente elettrica alle palle dei Somali in operazioni di peacekeeping, figurarsi le torture che inventeremo in una guerra guerreggiata, benché preventiva), mentre dall'altro si temperano questi aspetti richiesti da ogni buon western che vive di manichee dicotomie, con la maschera dell'aborigeno, scanzonato, un nuovo "soldato blu" con il volto dei personaggi dinoccolati di Hugo Pratt: questi due elementi si amalgamano per il fatto che le immagini trovano un ulteriore spiazzamento nel sincretismo delle tavole disegnate da Peter Coad - un bianco entrato in sintonia ctonica con la terra - che unisce la consapevolezza del fatto che la pittura fauve è esistita, e ha lasciato tracce nel suo ordito, con la selvaggia adesione alle manifestazioni della natura. Attraverso quelle sorte di pitture rupestri filtrate dalla cultura occidentale vengono narrate le azioni violente, mai realmente inquadrate nel momento della morte, lasciando al quadro l'evocazione attraverso totali pure ingenui - talvolta - spesso in campo lungo, perché ai fugaci dettagli pensa la cinepresa che cattura un muso di cavallo in primo piano, piuttosto che un gesto repentino del fuggitivo, presenza quasi sempre fuori campo, ma ben evidente almeno quanto i tre+1, protagonisti più volte ribaditi dalle carrellate che riassumono volta per volta i singoli stati d'animo.
Le ballate musicali prendono il posto di quell'aura poetica alla Blake del Jarmush di Dead Man, ma poi quegli echi si allargano alla coralità dei personaggi, che nelle loro maschere rappresentano le molteplici facce bianche, mentre la guida da solo incarna volta per volte la pletora di forme di resistenza ed equilibrio naturale dell'indigeno, se da un lato stempera il manicheismo della contrapposizione bianchi/neri, dall'altro lo accentua nella crescita lungo tutto il film della figura della guida.
È come se il regista creasse molteplici forme di gioco a rimpiattino: ci dice fin dall'inizio che è un nostos epico ("Far Away in another land. I'm going home" sarà ribadito alla fine dal tracker) eppure fa sì che lo si dimentichi a favore dell'epica western (il falò notturno, i fucili, i cavalli, le presenze indigene, le frecce..., l'anziano, il giovane rivale, e il terzo destinato a morire..., i segni sulla pista, la lentezza del procedere al ritmo della caccia. Il pretesto per parlare dei rapporti interni a un microcosmo), a sua volta temperata dal racconto di emancipazione anticoloniale, che prende il sopravvento nel finale in un climax antirazzista confezionato mirabilmente sulla taglia di Gulpilil, un cangaceiro australiano.
Questa oscillazione tra il tono scanzonato e quello sentenzioso ("Ad ogni uomo libero, un altro paga quella libertà") tocca per entrambi gli stessi ambiti: l'uso della natura può quindi passare per una classica luna a tutto schermo, bellissima e quasi da antologia, con le ballate che la rimarcano; mentre dal'altro è la natura da erborista provetto della guida che narcotizza il giovane per vendicarsi del razzista, reazionario.
Questo pendolo tra i due approcci narrativi che va dalla musica al sarcasmo del volto, che supera la maschera, evita la macchietta, e diventa un colosso eroico di furbizia emancipativa, sintesi culturale e summa di spettacolo cinematografico, finisce con il toccare tutti i registri del genere che si è deciso di abitare e attraverso questi, consumandoli, s'introducono tutti i temi, lasciando al frequente inserto musicale il compito di incorniciarli, enunciarli e chiosarli per poi rappresentarli.
Questo movimento incantatorio tra le due sponde del film potrebbe incontrare qualche perplessità nella definizione di "musical": mancano le coreografie e non ci sono immagini spettacolari di masse in movimento fluente. In realtà il balletto si affaccia nel frame ogni volta che Gulpilil è inquadrato: il suo passo è danza apparentemente stanca e indolente, davvero spicca quell'avanzar incatenato con il passo inconfondibile che lo inserisce nella natura che lo avvolge completandola; e poi esiste un momento esilarante di vera danza improvvisata per nascondere il fuggitivo agli occhi dei bianchi, facendo leva sulle credenze occidentali di superstizioni attribuite ai nativi.
Quell'oscillazione evoca anche il movimento impresso alle catene da un corpo che penzola e le catene sono una presenza costante, fulcro attorno al quale "ruota" il film: sono le vere protagoniste simboliche di ogni passaggio: la sottomissione, la ribellione (loro trascinano l'aguzzino nella polla d'acqua), il ribaltamento, la vendetta.
L'epica trova spazio in singoli episodi, che il taglio riesce a rendere mitici nel momento che trascorrono sullo schermo. Ad esempio quando il nero si rifiuta di muoversi per attendere il ferito, frustato, non si piega, non urla, non implora, semplicemente oppone il suo rifiuto senza altre parole che non fossero "sì boss"; una laconicità che smonta l'autorità impotente nel suo sbraitare, ma che prepara invece il knock out del logos, quando si rivela raffinatissimo, in quell'incredibile, eppure accettabilissimo, "Sic transit gloria mundi", pronunciato dal "chierico aborigeno" a sancire la condanna a ogni latitudine del colonialismo mercantilista, che nella loro aulicità trovano il contraltare nelle scanzonate parole finali: "I bianchi sono gente cattiva, ambigua, ladri, di loro non ci si può fidare", ribaltando sui bianchi la frase da loro proferita verso i neri.
Ma è anche sorprendente, eppure nella logica del film, che il fuggiasco venga punito, ma non per i motivi pretestuosi e falsi dei bianchi, quanto per la legge indigena che lo considera colpevole di stupro, una sentenza che si pone a confronto con la legge dei bianchi, ritagliata su misura per i potenti, che la piegano a loro piacimento.
Questo modo di procedere per "differance" aggiunge valenza a quei momenti in cui invece un'immagine riassume tutti i discorsi, a quegli sprazzi totalizzanti, che rivelano con violenza ben maggiore il messaggio dell'intero film: per esempio le catene della tavola di Coad, che si fondono con quelle che soggiogano il tracker per l'intero viaggio - ma lui fa cenno di non patirle minimamente (e in questo sta la sua forza: conosce i bianchi e i loro simboli e perciò li sovrasta dall'alto della sua consapevolezza) - per diventare meccanismo di vendetta, andando a comporre la forca che per il contrappasso attende il perfido massacratore di nativi. Ma è di nuovo l'immagine controsole, bellissima e un po' estetizzante che rilancia la differenza con quelle sempre controluce che rivelano solo a noi la presenza del fuggitivo ("fugacemente" e s"fuggevol"mente) in campo: quell'immagine del bianco finalmente impiccato trova un nuovo rilancio narrativo se viene a far parte della coppia oppostiva che lo vede elemento della dicotomia con il pannello in cui si raffigura il massacro con impiccaggione a cui abbiamo assistito: l'intervento della memoria dello spettatore (ribadita dalla musica) innesca il nuovo meccanismo di "differance" derridiana per cui l'arte della pittura affabula l'eccidio come la messa in scena dell'impiccagione è epilogo del racconto intessuto dall'aborigeno ("Aspetto solo il momento giusto", cantava all'inizio l'alter ego canterino del musical); di nuovo i simboli umani delle culture che si affrontano e si condizionano oltrepassano la sublime indifferenza della natura titanica. Soltanto, vince colui che ha "trovato la sua collocazione", l'equilibrio in quella natura, di cui avverte gli spostamenti d'aria e le mancanze di ogni minimo dettaglio. Il segreto è saper cogliere i cambiamenti infnitesimali, l'infinitamente piccolo come l'enorme effige selenitica che assiste al redde rationem.