Lagaan e Silence... on tourne hanno alcuni aspetti comuni (musical e riferimento popolare) e altri che li pongono agli antipodi - ad esempio il tentativo di evidenziare la commistione o nascondere e appiattire la confusione di generi. Metalinguaggi, e il musical non può fare a meno di essere metalinguistico, che scavano esplicitamente la narrazione ponendo al centro la sceneggiatura, facendola diventare la protagonista assoluta della frammentazione, da cui al contrario scaturiscono spettacolo e coreografia cadenzati su ritmi che tolgono il respiro per la tensione, nascondendo dunque il lavoro della sceneggiatura per evidenziarne il messaggio didattico di liberazione e lotta.
regia.......................... Youssef Chahine Quanto di Chahine è svago, divertissement e quanto è invece scoperchiamento dei meccanismi e dunque forma rivoluzionaria della descrizione dei rapporti tra recit e degli immaginari per individuare quale finisce sempre con avere la supremazia? E quanto in Lagaan è svago piuttosto che didattico indottrinamento anticolonialista ed egualitarista e quanto invece mistificante operazione di occultamento dei meccanismi per meglio colpire l'immaginario dello spettatore senza offrirgli la minima possibilità di difendersi e proporre il proprio punto di vista? Quale è più "rivoluzionario"? Chahine come il concetto di artigiano di Wu Ming 1 (Fahrenheit, radiotre, 29 agosto, ore 15,15): il tecnico del sapere che applica al suo lavoro la sua abilità, mescolando tradizione e innovazione e si propone come divertente ripropositore di tutti i tropi conosciuti dal cinema popolare, fornendo a fianco anche la chiave per riconoscerli e difendersi; oppure Gowariker, che li fa propri per usarli in funzione anticolonialista? Il regista egiziano si inserisce nella trama decostruttiva derridiana (quanto occidentale e quanto commistione dei laboratori filosofico-linguistici degli anni settanta/ottanta?) e aggiunge ancora un aspetto, difficile da descrivere, perché sfuggente per natura, in quanto l'operazione di scomposizione del testo si affida ai generi per rilasciare allo spettatore una trama in mano, che può decidere di seguire o meno, ma contemporaneamente bistratta i diversi generi (meglio avrebbe fatto a limitarsi a quelli utilizzati dal cinema egiziano ben documentato dalla retrospettiva del festival torinese dell'anno scorso, dal quale abbiamo imparato a riconoscerne i tratti, ma sicuramente le orbite in uscita dai globi oculari alla The Mask ottengono un effetto di attenzione sul pubblico), limitandosi ad accennare ad essi proprio ripulendoli, scarnificandoli fino a lasciare solo lo stereotipo, quello magari più irritante o dozzinale, o meglio quello più smaccato. In questo seguendo la strada opposta a quella di Lagaan, che si differenzia dal resto dei Bollywood, perché cerca di mascherare i tratti più squisitamente popolari di quella tipologia di cinema, ottimizzandoli, avvicinandoli il più possibile alla perfezione dello spettacolo, curato in ogni suo aspetto; laddove invece Chahine sceglie deliberatamente di accennare a una situazione, tagliandola con l'accetta, riducendola all'essenziale dello stereotipo narrativo di quella che è la forma conosciuta di quel racconto. Perché? Probabilmente il motivo a monte di tutta l'operazione va ricercato in quel bisogno di mostrare il processo creativo che già era presente in Alessandria perché?, ovvero mettere in gioco la propria figura di autore senza dimenticare di coinvolgere sia il racconto che il pubblico, che il canale, e soprattutto il mezzo, ma concedendo ancora una scappatoia al racconto, da un lato ridotto a serie di stereotipi attraverso i quali si manifesta palesemente la sua natura, quando nel sottotesto - quello che consente di rendere la pellicola unitaria e non un'accozzaglia di spot - si riserva però di nascondere il vero racconto, che in questo caso è il gioco di sparizione e riemersione di infinite sceneggiature, ciascuna chiamata volta per volta a incarnare quella in corso e ogni volta destinata a essere abbandonata per dare corso a quella dello sceneggiatore, salvo poi accorgersi che quella, lungi dall'essere il canovaccio a cui guarda l'intreccio, ne è una cronaca a posteriori, perché quella vera si svolge prima sullo schermo e poi diventa sceneggiatura. A parte nel finale, apparentemente; quando poi l'estrema sceneggiatura risulta essere quella dello spettatore-protagonista, che finisce sulla poltrona di una sala, da questa parte dello schermo, ma da quella rispetto alla cinepresa che lo riprende spettatore sul titolo di coda, che è uguale a quello dell'inizio riportando il titolo del film dopo lo svolgimento del film: cioè dalla locandina con l'ingresso al teatro del concerto iniziale alla fine del concerto finale con al posto del manifesto d'ingresso la poltrona all'uscita, ma con la stessa scritta (almeno nell'originale arabo).
In precedenza si era passati anche attraverso una gag mimica che per un attimo ha dato allo sceneggiatore il potere demiurgico di inventare la realtà in tempo - diegetico - reale, ritornando poi alla dittatura della costante diffusione del potere narrativo premasticato rispetto all'"improvvisazione", racchiusa in un impianto teatrale, fatto di ingressi e uscite di scena: una volta un personaggio offre il suo punto di vista visionario, un altro è l'immaginario di un altro, un'altra volta ancora è l'esigenza del film a dettare per un'inquadratura il mondo di riferimento, che poi è sempre e comunque condizionato dal cinema. Come nella sequenza geniale dei sogni intrecciati, bellissima e degna di essere descritta negli infiniti passaggi di montaggio che la costituiscono senza soluzione di continuità pur aderendo ciascuna inquadratura a mondi, protagonisti e situazioni, diversi e ritagliati ciascuno da un plot che risponde a generi e plot disparati, ma sorprendentemente omogenei, una comunanza data dal gusto del pubblico a cui si rivolge e dal quale trae linfa. S'inizia attraverso un falsissimo - e spettacolare - ghiaccio secco che introduce a un set cinematografico in tutto uguale alla bettola del film di Oussama Fawzi, Il paradiso degli angeli perduti (Gannat Al Shayateen, Egitto/1999), il locale in cui muore il cadavere protagonista della sgangherata commedia sarcastica, pochi secondi per tratteggiare la sordida situazione, inserire i personaggi privilegiando il punto di vista della cantante, per poi passare al sogno del giovane arrivista, che lo vede protagonista di un altro set: un diverso musical, questa volta ambientato in metropolitana, una sorta di West Side Story, più dozzinale e nelle corde egiziane, set presto abbandonato per orientarsi sugli immancabili barconi che solcano il Nilo, dove si consuma il tradimento, concludendo la sequenza nomadica laddove aveva preso inizio: sull'espressione trasognata dell'arrampicatore. L'uso del metalinguaggio non può essere tacciato di snobismo e cerebralismo intellettuale, poiché moltissimi film egiziani, anche per aggirare accuse di sovversione, usano mettere in scena altri film nel film per poi, una volta rivelata la fiction poter stornare l'accusa, esplicitando il fatto che «non è vero nulla: è solo un film»; allo stesso modo l'impostazione sentimentale viene difesa («L'amore non è reazionario», dice la vecchietta borghese all'autista Nasser rivoluzionario). È tale il plagio della narrazione che è la sceneggiatura ad essere colpevole di plagio dell'immaginario, in tutte le sue sfaccettature: da quella più innocente che mostra la laurea nel suo aspetto più tipicamente artificiale - al punto che sembra un film familiare, ma con in più i segni evidenti della finzione filmica che però immediatamente dopo vengono acquisiti come "realtà", quella stessa che subito dopo inscena una fantastica sequenza da spiaggia con ombrelloni che volano in un contesto da film spensierato di ricchi dediti a sport da spiaggia.
Ma persino il fatto che i tempi non sono rispettati suggeriscono che la sceneggiatura ha vita propria e muta con l'intervento del pubblico e dei protagonisti stessi («Scrivo sceneggiature da 25 anni e non riusciamo a disfarci di quello?» rivela la lesa onnipotenza dello sceneggiatore, poi in realtà l'elemento alieno, metallaro e portatore di una mentalità estranea ai canoni dei benpensanti egiziani - ma soprattutto al cinema stereotipato -, verrà reso innocuo), al punto che viene scritta dopo essere pronunciata, tranne - non a caso - il finale della storia: «Manca la mia scena madre» rivela che l'intreccio ha finora risposto a tutti i canoni, tanto che invece è scritta e viene mimata durante la sequenza finale del disvelamento che è talmente stereotipato da venire consumato nella decostruzione mimata del testo, il quale trae nuova linfa dal fatto che si evolve verso il concerto restauratore dell'equilibrio iniziale andato perduto alla fine dell'esibizione d'inizio, ripristinato da quella di fine film. Mancanza iniziale, caos e composizione finale nell'equilibrio statico dell'inizio: classica struttura narrativa. La musica rassicurante riprende il sopravvento dopo l'interposizione di Lamen, l'elemento di disturbo, ma anche quello che scatena il caos, ma solo perché la composizione della perturbanza è già prevista nelle parole che non possono essere sostituite all'uscita di scena del personaggio («Domani è un altro giorno»), che rientra nei ranghi dello spettatore. |
|
regia.......................... Ashutosh Gowariker Il quale pone la domanda fondamentale: «Non dirmi che sei soddisfatto di come vivi?», ma in fondo si era già connotato come antagonista fin dalla sua prima apparizione quando cerca di salvare il territorio dallo scempio perpetrato dall'invasore, che si diverte con sport "selvaggi" come la caccia; è come un trattato noglobal che puntigliosamente rimarca le distanze tra le diverse culture, pretendendo di salvaguardarle dalla prepotenza di chi si crede superiore: persino la storia d'amore immaginata da Elizabeth, l'algida inglese aristocratica che si accende per il bel capomanipolo, non è nemmeno considerata degna di brama, perché non appartiene al suo mondo, a mala pena si comprendono (esilarante la liberazione della donna dal peso della sua passione dopo essersi dichiarata e la confusione di Bhuvan, incapace di capire cosa significhi «I'm falling in love with you» perché è completamente fuori dal suo orizzonte di riferimento), sarebbe un'altra forma di colonialismo; come un'illustrazione dell'irredentismo - di ogni irredentismo, anche quello basco e kurdo e del polisario... - e della rivendicazione dei diritti dei lavoratori contro gli arroganti soprusi degli oppressori colonialisti nullafacenti (e in questo si racchiude il senso di sconfiggere la protervia, incarnata manicheamente in un ufficiale proprio nella loro unica attività: il cricket)... Tutto ciò Lagaan contiene e ancora di più in un ipertrofico testo di amore, frustrazione, rabbia, coesione, divisione e comunitaria condivisione, musica e danza, subordinazione dei singoli ed epica sfida, una caratterizzazione individuale che costringe all'emancipazione del singolo per arrivare alla liberazione collettiva, innanzitutto dalle proprie convenzioni, dalle sciocche superstizioni razziste, dove spiccano singole peculiarità, utili singolarmente alla causa comune, ciascuna eccezionale eppure tutte non fuori dall'ordinario, anzi talvolta menomazioni o motivi di disagio, che tornano utili. Bhuvan è l'unico a spiccare per i suoi talenti a tutto campo: privo di macchia e di difetti, risulta esagerato eroe sul cui carattere si ritaglia un personaggio totalizzante che è chiave comune alla prassi bollywoodiana, ma diventa un po' inquietante per il culto della personalità in un film che ha afflati di liberazione e livelli di impegno politico un po' desueti per il genere. Didattico. Sicuramente questo è uno degli intenti - ma nelle forme più alte, quelle proprio di Med Hondo, che non a caso ancora oggi è bandito dagli schermi mondiali e occidentali in particolare, perché il suo cinema teatrale è quanto di più dirompente si possa immaginare nella drammatizzazione della Storia intrecciata alle storie e alle credenze: dal balletto di Soleil O' a West Indies, ou Les Nègres marrons de la liberté, fino allo psicodramma Sarraounia - basti a questo proposito un'immagine di Lagaan che riassume un giudizio senza appello di ciò che fu l'impero britannico: il primo piano dell'ufficiale schiacciato sulla union jack, con quello anche l'ultimo degli indiani capisce la sineddoche rappresentata dall'ufficiale, tutti i sentimenti che scatena la sua supponente prepotenza vanno fatti confluire su quella bandiera; e di lì poi si recuperano tutti gli altri momenti istruttivi: dal sussiego alla David Lean dei graduati, all'inneggiamento all'unione di ogni singolo talento, che va a realizzare il polittico di ritratti destinati a comporsi in un bel Quarto Stato, riprodotto sotto forma di balletto.
Fin dall'inizio è una forma di istruzione non pedante, che mira a educare al riconoscimento delle soperchierie, camuffate da "protezione", un termine mafioso che fa al caso dello strapotere britannico; ma non è un atteggiamento dozzinale, anzi lo sceneggiatore coglie sia il fatto che il sistema di potere inglese si avvaleva di satrapi locali, essendo interessato solo a mungere e non a sostituirsi alla tradizione e giustamente dunque rileva una possibile falla nel momento in cui l'arroganza di un singolo impone al rajah di mangiare carne di manzo («Eat that meat!»). Su quell'episodio comincia a formarsi la breccia. Ma non è l'unico che consente di cogliere la passione storiografica: la sconfitta degli inglesi si prepara con il fatto che gli indiani lottano per la sopravvivenza e la loro terra, gli inglesi solo per il puntiglio di «uno stupido gioco». Come sempre questo ha permesso di scrollarsi ogni colonialismo («Per gli inglesi è solo un gioco, ma per noi è la speranza di una nuova vita»). E dietro al metodo di montaggio si rivela altrettanto didatticismo: affiora in poche inquadrature e carrelate ogni volta con precisione il sentire comune della comunità e contemporaneamente gli stati d'animo dei singoli e ogni volta il discorso condotto dal linguaggio cinematografico adottato va dal collettivo al singolo per progressive convergenze: l'inquadratura si fa sempre più stretta, per poi allargarsi in un movimento di onda che adotta un flusso ritmico, una melodia studiata di precisi tempi calibrati sull'epicità.
Un esempio preciso si trova nel primo allenamento: Bhuvan è solo con il ragazzino (che avrà il suo momento di gloria ben studiato nella partita, di cui è ammirevole la tensione e la partecipazione) e quelle inquadrature della pallina che rotola ora qui ora là sono una soluzione geniale, un balletto senza musica, una perfetta alternanza di sguardi e gesti che descrive, ma soprattutto insegna come si fa a creare consenso per lottare contro un nemico comune: i ricchi inglesi in quel caso, un potere arrogante impunito e stra-ricco nel caso dell'Italia d'inizio millennio. Un lancio dopo l'altro il coinvolgimento si allarga. Stesso spunto di riflessione suggerisce l'episodio dell'intoccabile: è evidente che il destinatario non può essere se non la nazione indiana, facendo leva su elementari meccanismi che possano finalmente modificare tradizioni assurde. Questi intenti didascalici, spesso palesemente democratici e anti-autoritari avvicinano il film più a Hair che a Esther Williams; anche l'inserimento di Khrishna nasconde - neanche tropppo bene - l'intento di affrancarsi dalla visione intollerabile dell'usurpatore che con sufficienza guarda alla cultura locale, da turista snob e supponente: invece Elizabeth è rapita realmente dal ballo e dalla autentica bellezza delle statue, riuscendo ad arguire la profondità di quel culto, che le si dispiega davanti nella terza danza, quella dedicata alla gelosia di Gauri; che l'intento sia proprio quello si evince dal fatto che alle suadenti danze indiane immerse nelle calde luci delle fiaccole si alternano i saloni freddi dove si balla al modo inglese: ingessati, goffi, ridicoli, a distanza di un secolo. Dal paragone deriva lo spettacolo e il messaggio lasciato al musical, che ha un chiaro intento di affermazione nazionalista a difesa della propria tradizione culturale, che diventa ribaltamento dell'atteggiamento occidentale nel momento in cui si descrivono gli invasori come poco sportivi che giocano sporco («What a shame!» si lascia sfuggire un alto ufficiale, comprendendo che la decadenza della civiltà si comincia a evidenziare anche nei mezzucci usati dai giocatori britannici). Sceneggiato con una precisione ben maggiore dei canoni con cui si confezionano normalmente i film bollywoodiani: tutti gli elementi inseriti all'inizio, i vezzi, le battute lasciate apparentemente cadere, sono riprese nel corso del film con soluzioni narrative sorprendenti o semplicemente con riprese formali che congiungono sequenze lontanissime tra loro (la madre di Bhuvan è il primo personaggio inquadrato con una ripresa aerea, mentre scruta il cielo: «Occhi pieni di speranza continuano a scrutare il cielo», quando alla fine l'apoteosi è data dalla pioggia, di nuovo si ripete la stessa inquadratura a chiudere una mancanza che aveva dato l'abbrivio al film) Ma in questo modo si rivitalizza un'antica modalità cinematografica per rendere omogeneo un prodotto altrimenti a rischio di sfilacciature - ma queste forme di spettacolo in Occidente non si fanno più - e che rende complice lo spettatore, al cui sospiro fa riscontro un - non sempre mentale - «Ah, ecco perché...!». Ad esempio il quarto inserto musicale riprende tutti i singoli punti lasciati in sospeso proletticamente nel primo incontro tra Bhuvan e Gauri. Ma questo aspetto si specchia nella struttura ad anello che racchiude il film tra le due interpretazioni della canzone della pioggia, che apre e racchiude il film in una splendida cornice dove una medesima melodia può esprimere la destabilizzazione e la composizione narrativa: il caos e il nuovo ordine. |