La capacità di riproporre stereotipi come se fossero realtà, anzi rendendo evidente la loro ragione di essere cliché attraverso situazioni non eclatanti, eppure significative. Il nocu-fiction si confonde con la propria verità rendendo fittizia la storia vera, ma guadagnando alla verosimiglianza la Frontiera, come nell’assidersi al bancone del saloon per ritrovare il sapore di una birra dopo anni di astinenza – e di alcolismo, altro tema toccato con grazia –, oppure narrare l'incendio che sottrasse a Rose i suoi figli, lasciandoci in bocca il gusto amaro della patina del tempo trascorso – lenimento non in grado di annullare il dolore (al punto che l'unica concessione al surrealismo è nel ragazzino che insegue la palla) – quel distacco al fondo del quale rimane un'ombra incancellabile: le ferite di un'esistenza, parzialmente verbalizzate in mezzo ai giovani ciclisti, dispensando saggezza, magari un po' retorica, tuttavia lieve e quasi naturale (tranne il simbolismo della fascina che simboleggia la forza dell'unità familiare, fondamento della forza per affrontare la vita), come soave pacificazione con il mondo è la sensazione che promana dall'assistere al temporale da dietro le finestre.