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Mostra del Cinema di Venezia 2003

Diario:

E parliamo un po' del pubblico. No, non quello pagante, perché ci si incrocia raramente tra accreditati stampa e possessori di biglietti. Parliamo proprio dei nostri colleghi muniti dell'accredito più ambito, quello stampa appunto. Non so perché, ma ho come la sensazione che alle proiezioni riservate al pubblico pagante di cellulari in sala se ne sentano pochi. Qui al Palagalileo invece ogni volta è una gara a quello che squilla per primo e con la suoneria più fantasiosa... con ovvio seguente corollario di proteste e bestemmie variopinte di chi vorrebbe seguire il film senza il trillo malefico nelle orecchie.

 

Logo della mostra

Ma per fortuna questo particolare pubblico riesce a partecipare anche in modo più diretto alle proiezioni, nel bene come nel male... gli esempi più eclatanti in questo senso li han forniti due film in concorso. Iniziamo dal lato rovescio della medaglia: Imagining Argentina di Christopher Hampton. Non si tratta semplicemente un brutto film: Imagining Argentina è un brutto film che ha il coraggio di trattare un tema delicatissimo come quello della tragedia dei desaparecidos durante la dittatura dei generali in un modo che definire cialtrone è davvero dire poco. A cominciare dal fatto che siamo in Argentina e tutti parlano in un inglese perfetto (ma, ovviamente, le scritte - giornali, cartelli etc - sono tutte in spagnolo). Per continuare con un Antonio Banderas che fa sfoggio di improbabili visioni alla Shyamalan dei poveri mentre si vede portar via prima la moglie poi la figlia.
Il film ci regala scena sequenza dopo sequenza momenti di trash incredibile, con risate e applausi di scherno a scena aperta da parte del pubblico tutto sommato persino incredulo di fronte a tanta mediocrità. Qualcuno, più sfortunato, ripensa allo splendido Garage Olimpo ed ha un nodo di rabbia che gli si forma in petto e che poi sfoga sui titoli di coda dove, giustamente, il film viene ricoperto di insulti e di fischi.

E poi arrivò Takeshi Kitano...

Unico film, almeno fino ad oggi, dove gli applausi sono partiti già dai titoli di coda. E' molto amato il regista giapponese, e non a torto. Questo Zatoichi è finora la cosa più bella che si sia vista alla Mostra. Primo lungometraggio in costume di Takeshi Kitano, Zatoichi è una delle tante variazioni sul tema leggendario dello spadaccino cieco che vaga per il Giappone combattendo le ingiustizie. Versione nipponica dell'occidentale Zorro (che a sua volta vanta innumerevoli rivisitazioni sullo schermo), Zatoichi è un eroe, come spiega lo stesso Kitano in conferenza stampa, dal doppio volto: combatte sì le ingiustizie ma è spesso lui la scintilla che provoca i massacri. Stilizzato e rarefatto come tutto il cinema di Kitano, questo film fa un uso massiccio della computer grafica, a fini anche e soprattutto estetici: le esageratissime spruzzate di sangue conseguenti ai duelli alla spada danno al tutto un tono cartoonistico-fumettistico che strania lo spettatore. Forti le reminescenze del cinema di Kurosawa, qui omaggiato anche dalla presenza della figlia nel cast tecnico (è lei la consulente per costumi e scenografie), ma la chiave personale è quella dominante: Zatoichi è senza ombra di dubbio puro Takeshi Kitano, nella sua alternanza di tragico e comico, di azione e meditazione. Fondamentale l'uso della musica e del ritmo in un film che a tratti sembra quasi voler diventare un balletto e/o un musical, fino all'esplosione della stupenda scena di lap-dance finale, dove il pubblico in sala ormai incapace di contenersi accennava a veri e propri passi di danza. Sui titoli di coda, coperto dagli applausi, qualcuno grida "sei un dio". Forse no. Ma di sicuro è sempre una gran bella conferma, Takeshi Kitano.

continua...

Federica Arnolfo


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