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57ª Mostra Internazionale del Cinema
di Venezia

Da lontano
In redazione ascoltando altre voci dal Lido

8 settembre

Lombardi, mentre vicino c'è Antonio Albanese fotografato, si sbilancia in pronostici: Mazzacurati è per lui in odore di leone d'oro: applauso più lungo della mostra, ma uno ha iniziato una polemica sui personaggi che non esistono, però è isolato all'inseguimento di realismo estremo. È un fatto di cronaca (La lingua del santo) che dà luogo ad un road movie. Molti colpi di scena per organizzare il riscatto della reliquia. Cinema italiano come piacevole sorpresa: Bentivoglio è di un'intensità che commuove realmente e dice che sono tutti amici e hanno approfondito l'amicizia facendo il film e si vede che non è recitato, ma vissuto.

E lo stesso clima si respira a Hollywood Party con Mazzacurati con accento preoccupato e comicissimo, mentre narra della sua casa in ristrutturazione alla mercé dei suoi concittadini, forse irritabili per il film, e Albanese che lo prende in giro, assicurando che si tratta di una dichiarazione d'amore nei confronti della città e del Paese. Il regista poi rievoca il tempo in cui da bambino lo portavano in pellegrinaggio alle reliquie; inorriditi. Pensa che sia rimasto nel subconscio, ma non sa bene dire da dove sia riemerso. Rivelano che in sceneggiatura hanno lavorato tutti per adattare il soggetto agli attori, e Albanese lamenta di essere diventato grasso come un'otaria per adattarsi al ruolo. Poi tocca al cattivo Marescotti, che definisce il suo personaggio: "un cagacazzo, molto maschio. Un vero gladiatore"

Gr1: poetico incipit per introdurre i due falliti che si fanno subito amare nel film padovano, buona sceneggiatura.

Lombardi: O Fantasma inizia con una scena che buca lo schermo: una scena d'amore tra due uomini. Perché, Happy together di Wong kar Wai, come iniziava?

Il peggio dei quotidiani presentabili lo scrive Simonetta Robiony, che esterna le sue perplessità evidentemente moralistiche ("Passata la censura senza tagli" è una brutta frase da scriversi da parte di un critico: sembra quasi che la invochi) che si stemperano solo ricercando un padre in Genet, infastidita che Rodrigues possieda una pulsione sessuale che non coincide con il suo amore-tenerezza.

Irene Bignardi e Paolo Mereghetti sono la coppia da famiglia Addams che alle 12,45 su radiotre rovinano la fama della rete.

Lei ha visto il suo leone d'oro, lui anche: Il Cerchio. E noi cominciamo a temere che gli iraniani abbiano sbagliato qualcosa stavolta. "Ronda non tanto allegra" è il commento da cui comincia lei. "E il cerchio del titolo si chiude e scopriamo dove vanno a finire" (in carcere), fa eco lui, che le dovrebbe seguire per questo facile gioco di parole. Ripreso dalla critica di repubblica: "Il cerchio della vita femminile è molto stretto mentre quello dell'esistenza maschile ha solo un raggio un po' più lungo", un intuito strabiliante per entrambi, che purtroppo viene disinnescato dal regista che intervistato da Piccino Cristina dice: "Non volevo chiudere la storia e la vita in un cerchio", mentre spiega che "non ha toccato nulla della città, volevo arrivare alla sincerità della storia " (In un'intervista il regista dice che il film nasce da un trafiletto di giornale). Infatti Piccino coglie uno degli aspetti nuovi del film che i due guru hanno dimenticato di segnalare rispetto alle produzioni precedenti: "il carattere quasi documentaristico, di verità quotidiana che attraversa i personaggi e i luoghi".

Pochi hanno parlato dell'omaggio di Infascelli a Ferreri: Silvestri imposta tutto il suo articolo al confronto tra il corpus anarchico del regista scomparso (e di cui la presentazione di Ferreri I love you si configura come omaggio a cinque anni dalla morte: Gassman, tié! Con gesto mastellato). Carsicamente riemerge il ricordo di Ferreri intrecciato a O Fantasma: "uomo-cane, uomo-fango, uomo-spazzatura", per arrivare a spiegare l'apparentamento con parole degne del regista apolide che amava il cinema africano (e iraniano: tutto torna) e prima cercava di capire cos'era l'uomo, senza imporgli le istruzioni per l'uso. Difatti il film portoghese descrive in Sergio "una macchina omo-desiderante impazzita, lanciata senza freni inun on the road dritto all'obietivo che è poi un solo involucro biondo di carne nervi e sangue che Sergio, nella notte, conosce e da cui è divorato come avviene nei gay-movie. […in cui si evoca un oltre-uomo, un derelitto infitto nell'angoscia intollerabile…]. Come nei film di Ferreri più impertinenti. La macchina da presa è sempre là dove non dovrebbe essere, pensa cose che non dovrebbe pensare, accarezza poco ortodossa i suoi oggetti. Ciao, maschio." Dunque un grande inno alla provocazione anarchica ferreriana, che pare sia agli antipodi del film leone d'oro di Bignardi-Mereghetti, duo di superficialoni. Il Corriere della Sera e Repubblica, invece, confinano l'omaggio in un box per lo più descrittivo: l'anonimo estensore del trafiletto di Repubblica ci ricorda, giustamente, che Ferreri "si sentiva già rimosso in vita" e riferisce delle difficoltà di Aprà (direttore della Cineteca Nazionale) nel reperire le pellicole per eventuali restauri e per la conservazione (forse dovrebbe armarsi di nastro adesivo, come il Pinguino di Batman, e visitare gli scarichi del centro Kodak per lo sterminio delle pellicole)....

Anziché riferire qualche impressione Mereghetti si limita a dire che Panahi riesce a raccontare le regole del suo paese con una straordinaria economia di mezzi: "mi è venuta in mente Rosetta. Basta un volto e la storia lo segue", ma che razza di paragoni! A questo punto si potrebbe fare critica cinematografica paragonando Griffith a Fassbinder per riunirli nel cinema di Rosa Von Praunheim grazie agli auspici di Godard. Lei ha improvvisamente una folgorazione: "Il primo film iraniano in cui non c'è bisogno di passare attraverso i bambini: il primo film sugli adulti che esce dall'Iran", poi però le viene in mente che c'è anche una bambina ed è uno dei momenti più strazianti, in cui il vestito della bambina è l'unica macchia di colore del film e ci rivela che non ha capito perché la madre abbandona la figlia, pur avendo pianto, lei donna che no è neanche in grado di capire che partorire una bambina è una disgrazia e forse non sa che molte donne immaginano di poter offrire un futuro migliore affidando i propri figli a persone con più mezzi (per rimanere in Iran potrebbe andarsi a rivedere L'Ambulante di Makhmalbaf o anche soltanto leggere la più sensibile collega Tornabuoni: "Partorire una femmina può venire considerata una sciagura mortale dalla grande famiglia che voleva un maschio". La giornalista della Stampa ritaglia benissimo la condizione femminile: "Un timore perenne di sbagliare, di essere colpevoli, di venir rimproverate e punite, che induce le donne a camminare rasente i muri con gli occhi bassi..." e poi giù l'elenco di tuti gli episodi di quotidiana misoginia e fallocrazia islamica; non sarà molto ma almeno argomenta perché le è piaciuto il film "capace di armonizzare la materia del racconto e la sua forma inquieta, interpretato da attrici efficaci e eloquenti"). La commozione della Bignardi è parallelo al 'cerchio' alla testa di Silvestri di fronte a questo film, in cui riesce a individuare una sorta di ortodossia anche laddove potrebbe sembrare semplice racconto di una situazione. Il critico del manifesto non si perita di usare un neologismo per tentare di spiegare questa sua sensazione: "Panahi non è nuovo a fabbricare oggetti dall'apparenza semplice e in realtà slurposi di sadico piacere per lo spettatore maschio che si compiace, se iraniano, di osservare, tranquillo, come la legge coranica sia implacabile e funzioni senza che quasi nessuno le sfugga.

Perfino la molestia per strada è tornata roba da maschietti vivaci (e questo invece può rendere simpatico il panorama all'estero). Certo l'effetto del film è quello di produrre oppressione tramite lance spezzate contro l'oppressione, togliere aria a qualunque disegno e realtà operante nel paese di contropotere, renderne intollerabile persino la pensabilità…".

Su radiotre alla sera Panahi difende la fedeltà ai dettagli delle ambientazioni, fino al fragore delle auto nel traffico, che sono un dato essenziale per descrivere Teheran. come sempre si segnala la similitudine con l'Italia postbellica e come sempre il regista dice di conoscere poco il neorealismo; ma Kezich, sul Corriere della sera, va dritto come un treno: "Il cinema di Teheran rappresenta oggi quello che dopo il '45 fu il neorealismo italiano: (...) Kiarostami e compagni hanno imparato dai nostri classici".

Mereghetti: il film francese racconta un altro tipo di mondo: quello del lavoro, ma con una forma patinata che s'intreccia con il racconto erotico: ha capito persino che il titolo si riferisce alla passione secondo Matteo e questo sforzo lo ha stremato, così lascia parlare la collega ed è un guaio, perché non ha rilevato altro se non il fatto che l'attrice non è all'altezza del suo film precedente: "Baye è singolarmente scolorita dopo che l'anno scorso aveva deliziato con Liason Pornographique. Il cinema francese ha dato di meglio di questa asfittico prodotto alla ricerca di ribadire la propria autorialità". Finalmente una frase con senso compiuto che aggiunge un'informazione e addirittura una critica. Peccato che su questo finisca lo show dei due storditi. Così andiamo a rileggere Ciotta, che del film dà una secca definizione: "una specie di risorse umane deprimente", perché "Anche la rabbia individuale dell'operaio svanisce [in questo trovandosi d'accordo con La Stampa]. Matthieu ha scoperto che neppure in se stesso c'è più un barlume di rivolta, preso com'è dalla passione impossibile per la signora. Il paesaggio desolante di Beauvois è illustrato con tempi lunghi e soporiferi, uguali per entrambe le classi sociali. Birra o champagne che differenza c'è? La Normandia è fredda, e il maiale selvatico sgozzato dai cani (in diretta) è una buona metafora più che dell'operaio scomparso del film." (Ma non l'aveva già usata con uno spessore metaforico ben più pregnante Pasolini, che anzi faceva mangiare dai maiali i pargoli ribelli della borghesia?). Anche Tornabuoni, seppure meno definitiva è poco convinta della prova di Xavier Beauvois: "Pare aver perduto la rabbia e l'aggressività dei suoi film precedenti", Tuttavia nella descrizione rimangono luci ("Ogni passione è spenta in Matthieu, neppure l'amata Normandia gli interessa più, il suo carattere s'è disintegrato: come i sindacati non sa più agire e reagire") e ombre: "Non brutto, ma non più nuovo". Probabilmente l'effetto Cantet è svanito e rimane il senso di artificioso di queste operazioni populiste sulla vita operaia, realizzata da borghesi, volenterosi, ma che non sanno di cosa parlano e quindi non restituiscono ambienti credibili.
La Bignardi in versione cartacea, critica in romanesco il film di Beauvois, evocando anch'essa Risorse Umane (a suo tempo stroncato da Expanded Cinemah) come antagonista positivo di questo "dramma psicologico che non ha la forza del realismo, né la sottigliezza dell'analisi. (...) Il discorso sociale che usciva forte e chiaro dalla semplice tessitura neorealista di Risorse Umane, qui si avvita nei meandri di un'analisi psicologica di maniera."

Anche Piccino si occupa di O Fantasma, che definisce romanzo di formazione, che sfiora l'ossessione (un altro elemento che torna ripetutamente lungo tutto il festival, come conferma l'allusione alla fisicità che il regista dice essere centrale anche nel suo prossimo film) più che l'erotismo: "Un mondo chiuso come la tuta di lattice nera di cui Sergio si traveste […] Si appropria del porno e lo diluisce". Silvestri ne ha dato una definizione geniale: "una suite trash e dark, ardito affondo macho-gay sulla Lisbona maleodorante e marginale, ovvero come sprofondare in un brutto acido trovandolo eccellente".

Schwankmeier, visto da Mereghetti, che non è in grado di spiegare quello che ci interessa in un film di animazione: la fattura, la forma, la tecnica e narra la 'trama' di questo pinocchio cecoslovacco, cannibale. "Interessante come con coerenza costringe lo spetttore ad entrare nella logica della favola, come se esistesse soltanto il mondo della favola diventando un apologo sulla voracità e la follia e alla idea di maternità esagerata."

Bignardi si permette di dire che domani si prenderanno cura di riferire quali film vedere e quali perdere: non mancheremo.

Il pettegolezzo può diventare satira politica e dileggio in materia sportiva e si ammanta anche di intelligenza (non quella furbetta dell'aspirante miss italia da Susa che avvia un contraddittorio con Frizzi, dimostrando di essere persino sveglia e quindi condannandosi ulteriormente per aver accettato di vendersi consapevolmente e non da sprovveduta come avveniva negli anni 50: donna oggetto fiera di esserlo), quando unisce informazione - quanto sia odioso Alex-Pinturicchio-Cocco-di-mamma-servo-di-Agnelli -, gossip (all'inizio del Festival giunse da un inviato di una radio l'informazione che l'attaccante dei gobbi aveva una storia d'amore con uno stilista) e spunti che provengono dallo schermo: Medellin nel film di Schroeder. Il salace commento di Silvestri dà segno di conoscere tutti questi dati, di saperli mettere insieme, ma signorilmente - e causticamente - non ricompone l'allusione... e diventa ancora più efficace: "A proposito di sponsor. Barbet Schroeder, con feroce, definitivo sarcasmo, in La vergine dei sicari fa indossare al piccolo killer marchettaro dei suburbi di Medellin proprio la maglietta di Del Piero, il campione in crisi della juventus e della nazionale, con tanto di supersponsor (anche veneziano) sopra. I colori bianco-neri portano male anche a lui, e infatti verrà presto crivellato di colpi... [n.d.A.: in questi puntini di sospensione è contenuto tutto il pettegolezzo e il gusto di dileggiare la juventus, grazie Silvestri per non essere gobbo]. Il film ha fatto indignare così l'ultimo quotidiano estremista rimasto, quello della confindustria, il cui inviato, come voto, gli ha assegnato un bell'uno. Alla faccia di quei vetero nostalgici di sessanttottini irriducibili alla Schroeder, critici dell'ideologia del mercato, che è pensiero unico e definitivo, e che non meritano certo pietà...". E di nuovo i puntini di sospensione assumono l'ultima parola in sé e la proiettano come una bolla di sarcasmo verso il giornale (e verso il giocatore).

Altre note di colore sono offerte da Repubblica, che riferisce dell'invito a forma di santino offerto in occasione del film di Mazzacurati, dell'ovvio "totoleone" (che palle, è molto più facile del totocalcio e di qualsiasi altro gioco d'azzardo) e dell'ennesimo comunicato stampa di Grillin (Arci Gay) su O Fantasma (secondo noi lo paga Kermit Smith, distributore del film portoghese); dopo aver preannunciato una passerella in latex per il protagonista, Grillini riferisce questa volta del popolo dei gay diviso in due sul film - in sostanza, ad alcuni è piaciuto, ad altri no. Grazie per la precisazione. Merita un trafiletto anche l'iniziativa dell'Unesco contro i contenuti-spazzatura di cinema e TV: presentata così, fa vomitare, la presenza di Fo e Garcia Marquez nel comitato fa sperare in qualcosa di vagamente intelligente: speriamo, appunto...

Restiamo sul gossip, che è la specialità di Tullio Kezich: sul Corriere, il nostro spara a zero su O Fantasma e, con nostalgia per i bei tempi in cui le porte delle camere da letto si chiudevano lasciando fuori la mdp, rimprovera a Rodrigues di non possedere il dono dell'ellissi, oltre che di essere noioso come "molto cinema portoghese" (questa è una delle cose più rozze e cafone mai lette in questi giorni). Infine, la nostra penna "rosa", siccome è democratico e non è che i gay gli fanno schifo, basta che tengano tutto dentro i pantaloni, sollecita: "I portavoce della cultura gay dovrebbero essere i primi a protestare contro la confusione e il danno che provoca sul fronte della loro lotta un filmaccio come O Fantasma". In attesa che i gay facciano fare autocritica al "compagno che sbaglia" Rodrigues, anche noi, portavoce di nessuno, abbiamo un sollecito per la Liala della Laguna: fatti, fuor di metafora, i cazzi tuoi.
La pagina del Corriere è oggi coordinata nell'attacco a Rodrigues e tira fuori gioielli di scrittura e di impaginazione, come un trafiletto in cui vengono riepilogati (un po' alla Feltri) tutti i titoli collegati all'omosessualità ospitati dalla Mostra, come questa chicca di Giuseppina Manin: "Tutto va bene per l'insaziabile fantasia del porno-spazzino che, dato il mestiere, non ha certo la puzza sotto il naso."

Ciotta è invece andata a vedere The Cell: utilizza il genere per spriginare tutte le suggestioni possibili della video-art, incastrate in un gigantesco affresco. L'effetto è accecante. I paragoni nella prosa di Mariucci Ciotta hanno senso (non come per Mereghetti/Bignardi) e allora mette a confronto Demme, che osservava la paura lievitante del mostro, mentre Tarsem osserva la fame ingorda del consumatore di oggetti e di immagini. È bello il catalogo di oggetti, situazioni e atmosfere che pare sia contenuto dal cervello del maniaco criminale: bisognerà partire da lì per dirimere la questione relativa al cinema digitale. Senza dimenticare alcuni spunti che il regista ha aggiunto nell'intervista a Piccino e che mancavano ai microfoni di radiotre: "Negi anni 70 andava molto il filone dei film disastro, quelli con paul Newman che fa il pompiere e salva in extremis la situazione. Ecco a me interessa il sogno che può avere quell'uomo al settimo piano davanti al fuoco". Lynchiano, ma dice di cercare la dimensione teatrale del sogno, tra Dario Argento e Ken Russell, mescolati alle sue radici indiane: "Ho avuto un rapporto di amore odio con il cinema hindi, da ragazzino lo adoravo, poi crescendo mi imbarazzava vedere uomini e donne che cantano all'improvviso" (come nella sequenza di East is East) poi ha capito che bollywood somiglia all'opera lirica.

Un delle affermazioni più interessanti di Tarsem: "È ovvio che quando lavori con molti soldi hai meno libertà che se lavori per un piccolo prodotto indipendente. Vale anche nella pubblicità." E finalmente qualcuno parla della realizzazione: "Le nuove tecnologie digitali ti danno possibilità infinite. Comunque ho cercato di creare il numero maggiore di scene possibili mentre giravo, proprio perché non c'era molto tempo per lavorare con gli attori. Se ero Coppola mi avrebbero dato due settimane ma io comincio e allora è dura avere anche due giorni. Volevo però che vedessero fisicamente cosa avevano intorno, insomma che la scena non fosse tutta virtuale, non ho nulla contro l'elaborazione successiva alle riprese ma sinceramente penso che sia un po' superata."

Altre parole interessanti di Tarsem sono presenti su Repubblica: "A me interessano le immagini, la mia ansia era quella di imparare a realizzarle. Per questo un giorno ho chiesto a mio padre i soldi per studiare in America. Lui mi ha cacciato. In America ci sono scuole di cinema gratis per gli americani, mi sono iscritto con un falso nome Yankee, Andy Marsh e in realtà come Tarsem non ho nessun diploma. Imparo sul campo. Ho fatto The Cell su una sceneggiatura che non ho potuto controllare, ma nel prossimo film voglio il controllo totale. E il prossimo film sarà la storia di Enzo Ferrari, prodotto da Sidney Pollack".

Levantesi sulla Stampa riesce a parlare del film citando il regista una sola volta nelle ultime righe, il prodotto non si direbbe le dispiaccia ma non coglie l'innovazione e si perde dietro al pericolo che la Lopez "si perda nei meandri della sua psiche malata, di credere che tutto sia reale: perché se il virtuale è sentito come reale, si può morire davvero". Per fortuna ci sono 2gli sconfinati deserti alla Dalì e gli interni degni di Ensor, i fioriti giardini orientali e i templi rieccheggianti l'India", più familiari per consentirle di orientarsi.

Passiamo ora a Pollock, film di Ed Harris, accolto tiepidamente un po' ovunque.
Aspesi su Repubblica: "I film sugli artisti sono più o meno tutti uguali: c'è lui tormentato, conciato, sporco, perennemente ubriaco, ma adorato dalle donne (...) Jackson Pollock [era uno] scarabocchiatore [sic!] di tele immense buttate per terra, mediante lanci, sgocciolamenti, spruzzate, sfregamenti, raggomitolamenti di colore. (...) Per quanto stupende, le vere opere di Pollock sono risultate poco brillanti per il film, cosicché una pittrice qualunque ha fatto dei magnifici Pollock." Sul Corriere è lo stesso Ed Harris che parla, infine, anche di politica: "In quanto a Lieberman [il candidato vicepresidente USA in caso di vittoria democratica, ebreo e piuttosto conservatore], non lo temo nelle sue censure, perché è un uomo che ha una cultura, una fede, quindi una profondità. Certo, penso che in molti casi farebbe meglio a stare zitto."

Il mitico Gatlif di Gadjo dilo e Latcho Drom (i due film più amati da Fernando Trueba, in studio contemporaneamente, esordisce da Crespi-Della Casa dicendo che la musica nel suo film non è un pretesto: ha cercato di fare un'inversione e in questo caso l'importanza principale va alla musica (non avevamo dubbi, visto Latcho Drom): il mio film non ha fiction. Stavolta non è sui ritmi gitani, ma sul flamenco, che ha qualcosa di misterioso e deve averlo, perché la sua definizione migliore è quella che qualsiasi ballerino darebbe: "Non ci può essere Flamenco senza 'buandé' e cosa sia il buandé nonsi sa". Un po' come il McGuffin di Hitchcock.

Trueba si trovava lì per il suo Calle54, un altro film sulla musica di tutto il mondo che parla spagnolo. Un fenomeno che si allarga: poiché metà della popolazione americana parla spagnolo e per il regista è una bella sensazione. I due anfitrioni mettono musiche di Gato Barbieri e Tito Puente e sembra di rivivere, dimenticando le banane spagnofone che hanno fatto da tormentone con Carotone per tutta l'estate commerciale. Così si avvia un ricordo toccante di Tito Puente, che ha partecipato al film.

La trasmissione termina con l'intervento di Challouf, che ha portato il documentario su Ouagadougu e il fespaco. E finalmente alla radio italiana si è fatto il nome di Sankara: con la voce rotta dall'emozione il regista, che accusa persino la sua gente maghrebina di razzismo nei confronti delle popolazioni subsahariane (come già si vede in La Sieste Granadine) ha detto che si porta ancora dentro la rabbia per l'uccisione del presidente che aveva cercato di acambiare e dare speranza all'Africa Nera: "Quando è stato assassinato, si è spezzato un sogno per una intera generazione africana".

Last but not least, Rondolino, una perla che ci siamo riservati per ultima, perché, pur con competenza indubbia, riassume i vezzi di chi ha la certezza della visibilità anche quando non ha nulla da dire: intendiamoci, non è paragonabile agli abissi di insipienza di Bignardi, però la sua prosa famigerata presso i suoi studenti (tra i quali si possono annoverare Alberto Barbera Roberto Turigliatto Stefano Della Casa Giordano Bruno Ventavoli Guido Chiesa) ha il dono di riempire le pagine con vocaboli intercambiabili, sempre pressoché gli stessi, buoni per tutte le situazioni e per tutti i film considerati. E soprattutto alla fine non spiegano cosa in realtà sia contenuto nel testo filmico in oggetto. Da docente e luminare, quando si aggira per i festival, bazzica le sezioni tipo la "settimana della critica". In questo caso le poche parole usate per i sette film della sezione sono intercambiabili; provate a imaginarvi i film e soprattutto a farvi un'idea di quale aspetto del cinema intendeva interpretare il vecchio Rondolino dicendo: "Lonergan sa darci una descrizione non solo accurata, ma coinvolgente, che getta sulla vita provinciale americana uno sguardo per molti aspetti nuovo". Non sapremo mai quali aspetti e in cosa consista la novità dello sguardo. Per il film della moglie di Makhmalbaf ci avverte che risente dello stile del marito: sanno anche le pietre che alla confezione del prodotto partecipa pure lui, trattandosi di una factory familiare, "ma possiede una sua propria forza e originalità, che si manifestano nel modo in cui la regista osserva i suoi personaggi". Quali (sia la forza, sia l'originalità, sia soprattutto qual è l'osservazione che affranca dalla maniera minimalista iraniana l'opera) non è dato sapere, anche perché poi nega tutto e dice che si tratta di "tre ritratti femminili, forse un poco di maniera e scontati"? La chiosa permane in questa contraddizione vacua: "Due film diseguali, ma ricchi di momenti illuminanti e di situazioni esplosive, che dimostrano nei loro autori una maturità d'eloquio non comune". Grazie, professore.

E', infine, con raccapriccio e sgomento che registriamo che un regista gallese, Mark Evans, ha presentato un film contenente immagini girate da Tornatore nella sua adolescenza, riportandolo poi a visitare quei luoghi adesso. Soggetto incredibile (ma come è venuto in mente a Evans di cercare i filmini di Tornatore?). Per i coraggiosi, si potrà vedere su Tele+ il 20 ottobre.

Adriano Boano e Marcello Testi

7 settembre

Solo una piccola segnalazione, per un programma di Radio Tre, andato in onda verso le 12.30. Due voci, una femminile e una maschile, commentano i film del giorno prima: dunque, secondo la signora, inutilmente moderata dall'uomo al suo fianco, Bartas è inconcepibile perché rifiuta i dialoghi e il movimento di macchina. Di fronte all'estremo tentativo di portarla alla ragione ("c'è tempo per pensare"), la filosofa-fast afferma sicura: "io penso più velocemente". Invece, il film di Schroeder ha suscitato altri pruriti: questa volta la voce maschile non interviene più (forse rassegnata) e il monologo risultante ci porta nei familiari territori del moralismo; quello che disturba la nostra vocalist sconosciuta è che il protagonista attempato ami i ragazzini. Ma dargli del pedofilo forse sarebbe troppo e allora bisogna trovare qualcosa: ecco, dunque, che il "vecchio" viene accusato anche dei peccati del ragazzino amato, che è un killer. Un abile transfer e la coscienza è a posto. [Aggiornamento: pare che le voci fossero quelle di Paolo Mereghetti e Irene Bignardi].

Ecco perché leggiamo e iniziamo sempre dal manifesto: ieri abbiamo visto il trash di Merola/Tony Little in tutte le salse, ma Brackhage non è stato nominato da nessuno fino al foglio di giornale che ospita le allucinazioni musicali di Silvestri (purtroppo anche su questa testata si è abbattuta da oggi la peste del pezzo di colore a cura di Niccolò Menniti Ippolito: speriamo che date le notizie riportate sia un'iniziativa di tipo ironico rispetto alla total immersion dedicata dai tg al trucco di Claudia Schiffer, che su RadioFlash è stata omaggiata per un buon quarto d'ora di vacuità dall'inviato). E per questo siamo orgogliosi di cominciare la giornata informandoci delle sue competenti digressioni in campo musicale, in questo caso d'obbligo per l'argomento della giornata che oltre allo sgradevole immaginario di Roberta torre offriva anche Woodstock di Barbra Kopple. A questo proposito Crespi/Della Casa hanno dedicato un lunghissimo momento di Holywood Party a Michael Lang, guru del raduno dello stato di New York: non si è quasi parlato di cinema a partire dalla nota canzone che dà il titolo al film: My Generation (in particolare il recensore disoccupato dell'Unità cita il verso: "Spero di morire prima di invecchiare". Probabilmente perché aveva appena visto Little Tony nel film di Roberta Torre). Un aspetto interessante è che nella trasmissine di radiotre si segnalano anche le case distributrici che hanno acquistato i film in rassegna, così se non dovessero uscire, si sa chi è il colpevole.

"Un Helzapoppin' sulla borghesia tronfia e ignorante". È il commento di Mariuccia Ciotta al film di Allen, che ha trovato pochissimi entusiasti (nel tg5 di ieri pomeriggio addirittura c'era la clip senza commento, a dimostrare chi era il lungimirante direttore che si diceva ieri avesse richiamato la propria inviata colpevole di voler parlare di cinema, anziché della scontrosità di Schiffer): tutti concordi nel dire che ormai è accademia di se stesso. I più perfidi ritengono che si stia dibattendo in una spirale che lo induce a rincorrere le sue battute, i più benevoli (gr1) ritengono di essersi divertiti e ce lo comunicano dicendo: "La prima mezz'ora è esilarante, una raffinata metafora degli ignoranti con cattivo gusto che imperano dovunque" (se Allen è riuscito nell'impresa di ottenere una presa di coscienza di questo tipo, allora è tornato grande), Lombardi conclude: "Da un po' di tempo sono critico nei confronti di Allen che credo abbia finito la benzina: sono uscito dalla sala con in tasca alcune risate, ma sono una manciata, tutte appiccicate. Il film è prodotto da Spielberg, e si vede che il prodotto doveva risultare vendibile ovunque negli States". Ha raccolto più successi Tracey Ullman, la sua attrice, scatenata anche nelle interviste, nelle quali ripete (radiotre e Menniti Ippolito) che lamenta spazi solo per "le donne con le curve, come le donne di Berlusconi"; per radio è arrivata alla provocazione di dire che le donne vogliono vedere qualche nudo maschile, qualche pene. Con questo si è giocata l'opportunità di qualche passaggio televisivo in Italia. Ma è riuscita a intervenire sul suo look e condizionare persino Allen per quel che riguarda il modo di proporre il suo personaggio. Interessante comunque che il gr2 delle 6.30 del mattino lo liquidasse inuna battuta, la sua che in effetti pare che condensi l'intero messaggio (come si diceva quando Allen faceva capolavori ammirati da tutti): "Fate attenzione ai desideri, perché i soldi cambiano le persone".

Bisognerebbe riportare l'intero paragrafo che ospita la recensione ammirata del film di Brackage, compilata da Silvestri, ci limitiamo a segnalare che il proiezionista di Sala volpi, ore 15 (altro che mancato omaggio a Gassman!!!?) ha sfoltito di sua iniziativa il film di 60 minuti, tagliandone alcuni stralci "tutt'altro che orientalisti e estetizzanti, mai muti e sordi". Nella prosa di Silvestri si elencano gli elementi del film, mai referenti reali - immaginiamo siano gli oggetti ripresi - e nemmanco digitali, ovviamente, e dunque puri elementi cinematografici che così possono cantare e danzare, "come seguendo gli ultraritmi nel regno dell'ultravista. E sono l'equivalente visuale delle armonologie di Ornette coleman o musicale del furore colante di pollock, un abbraccio alla materia in vorticoso movimento molecolare - gli abissi dove solo gli artisti dell'apnea riescono ad arrivare - un balletto frammentato, narrativa inudibile, come quel concerto di Schnabel per solo direttore d'orchestra".

Tutto questo per concludere le considerazioni sul ritratto espressionista astratto che riesce a uscire dalla gestualità di Ed Harris dedicato al genio di Jackson Polock, che nella penna di Silvestri evoca Krupa, Roach. Si preannuncia interessante e serio. Meticoloso, conferma Ciotta: "Dire dell'uomo, di quando esce fuori da sé, non appartiene più al mondo e diventa artista" è l'indagine effettuata da Harris, che efficacemente la giornalista accomuna al suo personaggio in una battuta che riferisce ad entrambi: "Non uso l'incidente, perché nego l'incidente".

Lombardi: uscendo stamane dalla proiezione The Cell: "tutti gli spettatori di sesso maschile vorrebbero essere rinchiusi con Jennifer Lopez". Con questo commento da bar avvia una digressione lunghissima (tredici minuti) sulle sue avventure del giorno prima relative ai propri "contatti" con Schiffer. Non se ne può più! E invece aggiunge anche qualche puttanata sulla cantata di Merola sulla spiaggia. Almeno il film non gli è piaciuto: "L'ho trovato così carico che sfiorava la noia, come già il primo. Solito gusto del grottesco: onestamente non mi affascina, ma almeno percorre strade nuove, pur prendendo un po' qui e un po' là, rielaborandole personalmente."

Anche Heider, oltre al papa, trova spazio: già nel padre di Liam si assiste a forme di intolleranza e si vede la nascita del movimento fascista inglese che poi non attecchirà; invece Helmut Graser ha intervistato sostenitori di Haider, evidenziando pregiudizi: l'assunto è che in fondo questi sostenitori sono normali e non è che siano dei criminali, si trovano nel movimento senza rendersene conto. Il regista: "Evito di dare giudizi e credo che le migliori analisi sul nazismo le hanno fatte Chaplin e Lubitsch". Tutto vero, ma anche l'altra volta ci fu un'intera nazione di normali che sostenne un regime di specialisti, descritti perfettamente nel film Lo Specialista e dai saggi di Hanna Arendt.

Per il film portoghese parlano di trasgressione, che però non supera le ragazzine giapponesi che si dànno senza problemi, fino al feticismo in Scout Man di Ishioka che annvera la scena del chewing gum masticato da una ragazzina e passato in altra bocca per procurare per ciò stesso orgasmi.

Il film più bello di Mazzacurati per il critico di RadioFlash più che Il Toro è Un'altra vita, dove le case parlavano da sole e anche quest'ultimo ha al centro il paesaggio (Padova). Da anni non si vede una mostra con un livello così elevato insiste Lombardi, con una riserva su Sally Potter; Barbera incontrato casualmente (pare sia disponibile a discutere con chiunque lo fermi) era dispiaciuto anche solo per quella unica pecca, a dimostrare la professionalità, difendendo la sua scelta con il fatto che dal suo punto di vista il film non era stato capito. Che Barbera (Alberto, non Antonio come quella salma incartapecorita di Rondi ha insistito a chiamarlo intervistato dalla trasmissione più volontariamente trash prodotta dal servizio radio-.televisivo: Stracult, raidue, condotta da Er Piotta e voluta da Marco Giusti) sia una persona cordiale non ci sono dubbi e probabilmente la qualità della rassegna ha risentito del suo arrivo in laguna. Certo che chiunque selezioni Roberta Torre non credo che poi abbia motivi validi per sostenere la sua scelta. L'unica affermazione di Merola interessante di ieri è stata quella nella quale si dipingeva la regista come un carabiniere che lo ha fatto lavorare senza soste. Ma allora non è abituato a fare 'o zappatore?! Dagli innumerevoli spezzoni passati su tutte le tv si direbbe che data la lunghezza della permanenza sullo schermo in questa occasione il cameo di Little Tony è persino peggiore di quello, citato dai cinefili di Holywood Party, contenuto nell'orribile L'odore della notte di Caligari (Crespi:"La battuta più bella del film è proprio quella in cui Tony è interloquito con un 'A little, che fai me stoni?'"). Di nuovo si avventa Lombardi su My Generation, occupandosi in particolare di riportare alcune battute testimoniate nel film di interventi degli ultimi anni. Di nuovo interessato agli aspetti più sessuali (il condom degli 80000 venduti nel '94 su cui c'era scritto: "With Rock'n roll I come in peace"). Tiene poi banco il fastidio ostentato da Jagger o della cantata sulla spiaggia di Merola/Tony. La regista milanese è arrivata al punto di dire che quei due sono "due miti, due icone, due scuole di pensiero." Ma per favore! Ché Tony non aveva nemmeno capito perché gli faceva cambiare il testo di Ragazzo con il ciuffo! Per fortuna a queste parole Crespi, sofferente, cerca di restituire un minimo di serietà, ricercando una critica: "Film molto colorato, dove è difficile trovare equilibri tra temi così reali e tragici con la parte scanzonata". Allora anche la signorina ha dovuto parlare di un episodio di lavorazione meno banale e da rotocalco: ha aggiunto una candid camera dell'uomo che si aggira nelle vie oscure alla ricerca. Al peggio non c'è mai fine e iltg2, dopo averci sollazzato con il solito duetto squallido dei due reperti giurassici (altro che Clint e gerontocomi di vario tipo!), tira fuori la perla in assoluto di tutto il festival: "Una sonda antropologica nella Palermo popolare", neanche scalfita nella sua vacuità siderale dal tg1 che si era 'limitato' a presentare il duello tra i due "titanici" personaggi come re Vesuvio vs King of rock.

Selon Mathieu è il film più brutto del festival nel giudizio di radioFlash, e si insinua sia stato inserito per dimostrare che non si voleva fare una ripicca per l'assenza degli italiani a Cannes, ma subdolamente si è scelto il peggio per dimostrare che la cinematografia transalpina offre soltanto quello (ho idea che abbiano dimenticato Guediguian per una sorta di censura psicologica. Quello di Jennifer Lopez invece diventa "un film di tematica piuttosto forte", ma sintetizzato con una battuta: "È un bel clip, peccato che ci siano 94 minuti di troppo". Qui il regista, molto giovane, non ha ancora esperienza per dirigere attori che vanno per conto loro. Sarà molto giovane, ma nell'intervista fatta da Steve e Crespi Tarsim sembra deciso, sicuro e con idee anche condivisibili (a parte il giudizio di adesione incondizionata all'universo di Matrix): dice che ha apprezzato subito la sceneggiatura perché è molto visiva ed entra nel cervello i chi guarda; lui ha amato molto clip musicali e commercial quando li faceva e no si sentiva inferiore: sono tre linguaggi diversi tra loro e se dovesse definire il suo film userebbe il termine teatrale. "Ho amato molto Matrix e quando mi hanno proposto di fare qualcosa di simile ho sempre rifiutato, perché è il migliore e non ha senso imitarlo." Con The Cell (sottotitolato in sala come 'La cellula', anziché 'La cella') ha amato molto entrare nel cervello di una persona.

Molto meno ragionevole sembra il gallese Mark Evans, che siè preso la briga di fare un film su Tornatore. Oltretutto a partire dai super8 girati quando era un ragazzo. Un sogno sognato in Italia deve essere un documentario assolutamente pleonastico, che probabilmente e per fortuna non troverà mai un mercato: infatti anche il buon Crespi si chiede (e rivolge la domanda all'interessato) come ha fatto ad appassionarsi al cinema di Tornatore (e qui ci corre l'obbligo di segnalare che stiamo riportando opinioni di Mark Evans): ovviamente il giovane britannico cita Nuovo cinema Paradiso come film comprensibile universalmente, perché sarebbe un inno al cinema, inoltre lo stordito dice di essere affascinato dai limiti, i territori che si trovano ai confini dell'Europa e porta ad esempio il primo film italiano che lo abbia coinvolto: Padre padrone dei Taviani!! Incomprensibile persino per un italiano che non conosca la società sarda.

Mollica invece (omofobo?) è rimasto traumatizzato dalle scene troppo esplicite di O Fantasma, nelle sale da domani in 10 città italiane, grazie al coraggio di Andrea Occhipinti, che ce lo offre persino sottotitolato. Il giornalista di raiuno esordisce dicendo che non si può mai stare tranquilli, che improvvisamente appaiono questi film che scuotono le coscienze in senso negativo e che però risulta "inutile, come il vento che passa tra un albero senza foglie", poetico, ma folle e voglio sincerarmi di persona, anche perché la bella intervista di Steve al regista portoghese capace di parlare uno splendido italiano propone una lettura meno superficiale e riduttiva: "Film sulla brutalità del desiderio, dove i fantasmi sono i netturbini, che si muovono nella città nottuna e nessuno bada a loro. Sergio si colloca a monte della razionalità e insegue una sua passione omosessuale, partendo da necessità animali senza mediazioni. Agisce per istinto e perciò si legittimano le scene particolarmente crude". Ma le scene non sono mai compiaciute, bensì necessarie, si affretta a puntualizzare Occhipinti, appoggiato da Steve.

Siamo costretti a segnalare che qualche giorno fa è stato omaggiato anche Fellini, oltre a Tornatore, con un altro documentario (di Del Bosco-Kezich), che però ha l'originalità di mostrarlo attraverso interviste di volti noti del giornalismo italiano - quasi tutti morti e quasi tutti in grado di far rimpiangere gli attuali inviati - e attraverso la figura di Fellini (e dei tagli imposti da Orlando, piuttosto che Mazzarella) si ricostruisce un'epoca. Peccato che fatalmente ci siano molti interventi del maestro che rendono un santino il personaggio: lo si evince dall'episodietto trasmesso per intero sul suo racconto di come seppe di aver ricevuto l'Oscar.

cominciano a comparire i giurati: Chiara Mastroianni, meno ingessata che nella Lettera di Oliveira viene colta mentre fa i conti di quanti soldi dovrà distribuire conuno sguardo avaro e preoccupato della sua "r" francese, unico retaggio dell'avvenenza della madre e Mimmo Calopresti prima si presta ad uno squallido gioco di parola che non ha seguito sulla sua "prima volta" ordito da Teresa Marchesi, che forse era ignara del doppio senso sul titolo d'esordio di Mimmo; poi viene importunato da Er Piotta e ne viene fuori un pezzo di televisione trash da dimenticare fatto di imbarazzi e silenzi o borbottii.

Forse nessun tranne Lombardi ha visto Le vergini degli assassini, perché non ho avuto riscontri se non nel trailer passato in mezzo agli altri della serata stracult durata più di un'ora ieri sera. Il tipo critico di radioflash ne parla con reticenza ancora sotto shock per i "morti ammazzati come se piovesse" e poi passa a parlare di Liam, anzi proprio del bambino, che giudica fantastico con grande sprezzo del pericolo di venire additato come pedofilo, dilugandosi sul fatto che è molto spontaneo e senza i meccanismi degli adulti: "i sentimenti passano direttamente senza i filtri dell'esperienza", ci informa come un luminare di neuro psichiatria infantile. É anche l'unico che ha il coraggio di ammettere di aver pagato £15000 per vedere i righeira, annunciati alle 23 e che hanno iniziato alle 1,20 con i capelli tristemente arancioni e blu e un effetto patetico di balera di periferia. 20 minuti, tre canzoni (ma cos'erano, tre suit progressive o ci sono state lunghi intermezzi?).

Adriano Boano e Marcello Testi

6 settembre

Dedicate alla Cina le due pagine del manifesto.

Silvestri, seguendo Jia Zhangke, isola i comportamenti e i gusti - indotti - dei giovani cinesi tra il 1979 e il 1989 e ivi circoscrivono i cambiamenti vorticosi di quella società attraverso un gruppo di campagnole guardie rosse che 'evolvono' in consumatori di stampo tenghiano; finché come una condanna fatale finisce la giovinezza. Si direbbe che quest'opera riesca a rappresentare la mutazione antropologica e culturale, però alcuni aggettivi lasciati cadere qui e là segnalano qualche perplessità del critico, a cominciare dalla chiosa: "Dopo i fasti parahollywoodiani di Shangai e di X'ien e il rigore gelido della sesta generazione, ecco un cinema che guarda spaesato a Carlo Vanzina e non sa ancora quale via scegliere" e con questo vanno a posto i tasselli disseminati nel pezzo: "la macchina da presa resta incantata dalla frontalità da cinema muto" (affermazione prima mascherata dal riferimento dotto ai musical di propaganda caratterizzati dalla visione teatrale); prima ancora nell'articolo calava un avverbio che poteva sembrare legato al verbo - "fare noiosamente carriera" -, come da sua funzione, ma anche collocato per segnalare uno stato dello spettatore, confermato dalla asserzione in fine di recensione: "Jia Zhangke, un trentenne già autore di Xiao Wu, che impiega oltre tre ore per farci affezionare a questi amici", che completa la sensazione che si cominciava ad avvertire nella frase: Così mille qudretti a macchina quasi fissa. Si entra in campo, si parla, si esce dal campo".

Piccino, iperattiva intervista l'autore cinese, svelandoci che Xiao Wu era il titolo originale del film che girò tre anni fa in Europa come Pickpocket. Storia di un ladruncolo ribelle e marginale allora, dedito a denudare inconsapevolmente i meccanismi del nuovo corso, che la giornalista riesuma perché il regista considera questa nuova fatica (sua e degli spettatori) un prologo a quel vecchio film con lo stesso attore, alter ego del regista. Il quale si è messo in gioco notevolmente poiché ha realizzato "un romanzo di formazione con molti spunti autobiografici". Alla sollecitazione di Cristina Piccino sulla forma quasi documentaristica il regista risponde che nelle scelte stilistiche voleva ottenere il massimo di oggettività per ridure il pericolo di soggettività derivante dalla propria vicinanza autobiografica alla storia, ma il peggio si raggiunge a proposito delle musichette, che la redattrice del manifesto attribuisce a Truffaut e il regista per non essere sgarbato (in fondo è cinese) si limita a dire che non sa da quale influenza derivino, attribuendole al fatto che la musica leggeranon si conosceva per niente in Cina fino al 1980. La giornalista ha anche curato un pezzo sul film hongkonghese di Tsui Hark: una rassegna di Barbera senza occhi a mandorla sarebbe stata monca. E tsui Hark "mixa come un dj postmoderno romanticismo e violenza iperrealista, storie d'amori, cavalier, vendette, tradizioni e radici antiche alla tecnologia più avanzata". Il novello Ariosto, dopo la parentesi alla corte americana torna in patria mantenendo i soldi del mecenate staunitense, e adotta come interprete Nicolas Tse, che l'informatissima Piccino ci rivela essere idolo dei teen agers dell'enclave ex britannica per confezionare il solito - e ripetitivo - cliché che concilia sperimentalilsmo e spettacolarità. Nell'intervista spiega perché usa la Bibbia, attratto dalla dimensione del racconto: "All'inizio c'era il niente". Non bastava Ratzinger!? Ci chiediamo inorriditi.

Per fortuna Silvestri nella stessa pagina mette le cose a posto e, bandita la diplomazia adottata nell'altro articolo per il film cinese di cui dà la definizione precisa ("esempio di arte squallida alla moda, da quotidiano del popolo"), si libera il campo da quella per spiegare quale cinema di spettacolo apprezza: per Sharuna Bartas parla di ricette estreme della spettacolarità in un clima di adesione totale al lavoro del lituano, che "clippeggia, risucchia la polpa, rende pomposo e omogeneizza ciò che l'underground americano anni'60, il land movie alla Snow e Mekas mantenevano indigesta visione privata e malata, sguardo ateo e imperfetto sul mondo e defezione poetica dall'obbligo del racconto", praticamente una risposta a Tsui Hark, che in una delle sue mirabili contorsioni Silvestri riesce ad accomunare al regista di Libertà, riassumendo tutto ciò che è stato Tsui Hark in una frase che contiene tutta l'intervista, nella quale le uniche informazioni utili sono i suoi maestri da lui riconosciuti (Kurosawa e Hitchcock, assegnando al maestro del thriller il leone per il maestro più citato da tutti in questa edizione) e che 'lui' ritiene sopravvalutata la tecnologia, ma sentiamo il riassunto di Silvestri: "l'inventore del montaggio esplosivo, della soggettiva a mach-2, del primo piano a montagna russa, del campo controcampo minato, del raccordo sull'asse della morte, del duello musical a a ruota della morte, di John Woo e di Ringo Lam, della svisata visuale alla Clapton, della polemica con il governatore di Hong Kong (e gli censurarono un film quei democratici di Londra)". Accomunati i due registi dell'est perché stavolta l'hongkonghese ha portato "uno dei film più veloci, illegali e dinamicamente bloccati, fermi, impietriti, incantati, un'opera colta e intellettuale, più metacinematografica e difficile di quella acerba di Bartas, a partire dal titolo, Time and tide, dal sottotesto biblico e dalle continue, umoristiche citazioni, mettendosi sempre in stato di arresto per oltraggio allo stereotipo". E nei fuochi d'artificio scatenati dalla prosa di Silvestri, si isolano perle come il racconto della trama, che si rivela essere una critica alla creazione e ai suoi difetti, corredata da inediti sui primi sette giorni: "La creazione dell'uomo fu infatti seguita dalla creazione di una replica, cui stranamente fu dato il nome di donna" e per Hong Kong il creatore ebbe un dilemma, poi creò la speranza.

A proposito di digitale: Lucas è collegato da Caserta, dove sta realizzando un nuovo episodio da 150 milioni di $.

Completa il panorama del manifesto Mariuccia Ciotta, che prima di iniziare il suo dettagliato rapporto su Liam di Frears, uscito da appena due mesi in Europa con l'accattivante High Fidelity ancora nelle sale italiane, ci informa che paradossalmente, un direttore di TG ha richiamato la sua inviata perché i servizi erano troppo cinematografici: mancava il colore e il pettegolezzo. Insomma era troppo competente, forse ci è sfuggita la reproba, ma al temine di questo improbo lavoro di auscultazione dell'intero panorama giornalistico si profila un definitivo rifiuto del servizio per motivi opposti: a noi sembra che no ci sia alcuna competenza, una superficialità e un'assenza di notizie e soprattutto di interpretazione e senso critico a dir poco nauseante; ad ogni livello (con l'eccezione di alcuni articoli del manifesto e taluni approfondimenti di Hollywood Party), attraverso qualunque media e a tutte le ore. Una perla proviene da Radioflash che tenta tristemente di rinverdire antichissimi fasti e incorre in errori madornali come leggiucchiare notiziole sparse, non capirle e attribuire il nome Liam all'attore Neeson anziché alla serie televisiva.

Il cappello di Ciotta è quanto mai adatto, poiché Liam pare si presenti come pilot della serie televisiva dedicata allo stesso personaggio: irlandese, cattolico, anni Trenta, dickensiano (l'estensore dell'articolo lo apparenta a De Amicis: "il minuscolo giustiziere irlandese").

Il Giorno prende un taglio decisamente mondano e "apre" la sua pagina con Jagger e la Schiffer. C'è anche spazio per una pacchianeria dell'organizzazione, che annuncia via megafono l'arrivo di Jagger (che poi entrerà da una porta di servizio) e poi irradia "Brown sugar" e "Satisfaction" (cose così non le vedi più neanche alle feste della ex-Unità...). L'articolista, poi, abborda ancora meglio il genere-gossip facendo illazioni sul perché dell'apparizione di Jagger, che starebbe producendo un film antagonista della vaccata di De Laurentis sul sommergibile U-571. La Schiffer invece fugge i fischi che pare coprano la sua performance per la cinearte di Nichoals Roeg (visti alcuni fotogrammi sui TG, sembra tutt'altro che disprezzabile, d'altra parte Roeg è a pieno diritto nell'universo non troppo popolato dei visionari - tanto non lo vedremo mai perché è un corto).
I critici del Giorno, sembrano avercela oggi con il manierismo: se "il film di Tsui Hark è manierato" (Andrea Martini), "Liam di Frears è un film manierista, obsoleto, rimasticata epopea familiare della disoccupazione irlandese anni '30, ma - continua, addolorato, Silvio Danese - potrebbe meritare un premio se la giuria cadrà nella debolezza di farsi conquistare dalla simpatia del piccolo protagonista". Conclusione: "Frears continua a lavorare a cottimo"; per fortuna che Televideo afferma che Frears è famoso soprattutto per My beautiful laundrette, dimenticandosi qualche cosa tipo "Relazioni pericolose" (un quasi-capolavoro) o "Eroe per caso". Ma forse il motivi di tanto astio non è difficile da rintracciare: è lo stesso Danese (che becca anche Chiesa, per aver criticato le ormai puzzolenti scarpe di D'Alema, malgrado avesse ai piedi un modello che Danese valuta intorno al mezzo milione) a dare un serio aiuto nell'incipit dell'articolo: "Nella lsita dei bersagi di questa Mostra entra oggi la chiesa cattolica irlandese. Stephen Frears la mette al muro: ossessiva, colpevolista, autoritaria, bigotta.".
Rincara la dose Jimmy McGovern, autore del libro da cui è tratto il film: "Quello che ho visto nella mia infanzi, negli anni '50, è la miseria assoluta della classe operaia, schiacciata dal tallone della Chiesa cattolica. Oggi, per fortuna, la Chiesa è meno influente, nella società. E poi, Tony Blair ha detto che non c'è conflitto sociale, e allora vuol dire che siamo tutti felici."

Sempre Danese, condisce con un po' di razzismo culturale la recensione del film cinese "Platform": "Secondo film dell'appena trentenne Jia Zhang-ke, "Platform" è un'epopea giovanile nel deserto, al confine della Mongolia, debordante e contemplativo come Antonioni rifarebbe "Zabriskie Point" in Cine, a volte "malinconico" come Nanni Moretti alla corte di Mao Zedong: dal '79 all'89, in quasi tre ore e mezzo di film, un gruppo di amici della remota Fenyang, nella provincia di Shanxi, passa dal teatro dilettantesco di propaganda alla formazione di un gruppo rock nel decennio della Modernizzazione Culturale. Un processo quasi grottesco visto dal pubblico occidentale, con la melodia canzonettistica deteriore spacciata per innnovazione [e invece i milioni di dischi venduti in occidente dai "Tre tenori" sono un bell'indice di gusto e modernità - riprovaci, Danese - ndr] e la sostanziale percezione di un mondo immobile, consolidato intorno alle direttive del regime, incapace di aprire le porte alla vita senza inginicchiarsi al mercato."

Adriano Boano e Marcello Testi

5 settembre

Il primo intervento della giornata proviene da Radio Popolare in network, ore 7,30: Fabio Scamone è il primo a parlare del film cinese Il binario, esordendo con un'affermazione un po' apodittica, ma veritiera, se ci si limita all'ambito festivaliero e alla vocazione di Barbera: "È tradizione che i film più interessanti siano i film orientali". Un treno che rimane su un binario morto, nonostante le attese e l'intera durata del film di speranze deluse. Siccome abbiamo ormai imparato che tutti i servizi sono per legge dotati di almeno due recensioni per cui si ha l'alibi per dire poco di un film e niente di un altro, secondo la regola della superficialità: così Scamone, preparato e capace di esprimersi con proprietà di linguaggio, è costretto a ingorgare in pochissimi secondi un universo di storie multiculturali e multietniche concentrate a Liverpool '50s dal regista di High fidelity, limitandosi a dare pillole di indicazioni come: "Una bella lezione di storia tra ignoranza e bigottismo."

Inviterei tutti a cercare di procurarsi le due pagine del manifesto nelle quali si esplicita meglio una sensazione che cominciava a serpeggiare già a Hollywood Party: cioè che si tratti di un festival sul corpo, che integra e amplia il tema della sessualità che era venuto fuori lo scorso anno.

Piccino scova altri titoli portoghesi interessanti (l'ultimo Monteiro di Branca de neve e Pedro Costa (+ Claudia Tomaz) per O Quarto da Vanda, Noites, di una cinematografia sempre più interessante, per concludere il pezzo laddove l'aveva iniziato Silvestri: il corpo, La carne anzi - intesa come film di Ferreri - diventa riassunto di senso dell'immagine, della narrazione, di generi e codici di identità messi in atto da Sokurov in Dolce biografia: "Il concetto su cui il regista russo lavora è una visione insostenibile che parte da materiali fotografici (la memoria) e affonda nel presente attraverso il corpo della moglie."

Silvestri si diverte ad accoppiare i due film sui corpi di ieri, anziché cercare nella guerra il legame con il kolossal di De Laurentiis, come fatto da più parti e lo fa con un'intuizione: uno è corpo molle: il Partigiano Johnny, dove Chiesa "non accetta lo scontro diretto col nemico e lo fa affidandosi al sistema emozionale aritmico e ellittico di Fenoglio, che responsabilizza il lettore conferendogli il ruolo di protagonista, di occhio della macchina da presa in cerca di mitra. Per combattere chi? Per quale motivo pratico? Insomma con chiesa bisogna salire sulla Sierra Maestra." Nell'altro caso, paradossalmente, il maricòn di Schnabel è un altro protagonista della lotta contro il principio di autorità, contro il conformismo, contro la sottomissione all'etica di stato e perfino alla Grande Causa, che si pratica però con un combattimento da macho. Sono comunque "corpi contro", anche se il giudizio di Silvestri è che il film sul cubano "portato ad ebollizione dall'americano finché non trova il tono giusto, strafottente, provocante, caliente e mai domo" (fino allo sputo che tanto è piaciuto) sia un altro esempio di film anticastrista non riuscito. Invece sembra accettare il lavoro sul corpo di Chiesa che trasforma Dionisi "in fascio di nervi e di muscoli duri, di ghiaccio, di pietra, dove Dionisi è chiamato "alla titanica impresa di spiritualizzarsi, di arcangelizzasi man mano che sprofonda nel fango e nella paura".

In un TG3 tardo-mattutino, Guido Chiesa spiega che: "Nel dopoguerra, i comunisti si sono appropriati della Resistenza, o, meglio, li si è lasciati appropriarsene.". Sibillino e utile a creare dibattito intorno ai temi del "Partigiano Johnny", in cui probabilmente l'unic eroe è il povero Stefano Dionisi, di cui sembra siano venuti fuori tutti i limiti recitativi (già evidenti in altre prove).

E, nel giorno di "Johnny", non poteva mancare nella nostra "mazzetta" Liberazione, che, anche se in modo un po' diverso e più legnoso, come il Manifesto valuta soprattutto l'impegno profuso da Chiesa e assolve il film, malgrado alcuni evidenti difetti. Nell'analisi "comunista" non poteva poi mancare l'accusa di generare confusione, di non dare una visione complessiva utile ad affrontare, oggi, il dibattito su fascismo e antifascismo. Ma Chiesa, sempre su Liberazione, si difende e difende la chiarezza e la coerenza di Johnny, che, anche se non incanalato stabilmente in una delle diverse correnti dellla Resistenza, compie una chiara scelta di campo (l'antifascismo). Silvestri, sul Manifesto, coglie proprio questo punto e ne loda invece le potenzialità maieutiche in una proiezione sull'oggi dell'ideologia del film: pur rimproverando a Chiesa i soliti difetti di sceneggiatura e la mancanza di uno scarto radicale nelle immagini, apprezza proprio la su aadesione al "sistema emozionale aritmico e ellittico di Fenoglio che responsabilizza il lettore conferendogli il ruolo di protagonista, di occhio della macchina da presa in cerca di mitra. Per combattere chi? Per quale motivo pratico? Insomma con Chiesa bisogna salire sulla Sierra maestra. E' demodé e molti invitati quassù recalcitrano."
I due quotidiani "comunisti" sono accomunati dalla critica negativa sul film di Schnabel dedicato a uno scrittore dissidente cubano, Reinaldo Arenas. Silvestri ripercorre con precisione le vicissitudini biografico-artistiche dello scrittore e rimprovera al film sostanzialmente di aver accettato il terreno di battaglia del nemico "Castro", portando il tutto sul piano di uno scontro titanico e "macho" tra il gay ribelle e il lider maximo.

Liberazione ospita una recensione entusiasta del film di Sally Potter ("The man who cried"). Roberta Ronconi si rammarica perché le parole "non bastano a rendere la ricchezza di questo film in cui ogni personaggio (e sono tanti) ha una sua storia intima da raccontare. (...) Un grande affresco di fughe e separazioni, solitudini e lacrime." La visione diventa dunque "un caleidoscopio di colori in cui ogni momento ha le sue sfumature, ogni personaggio una diversa luce, per creare alla fine un'opera di sublime bellezza, capace di staccarsi dallo schermo per diventare pura suggestione."
Viene inoltre accolto positivamente "Lontano in fondo agli occhi", di Giuseppe Rocca.

Sul manifesto, invece, Ciotta non ha gradito troppo il film di Sally Potter, "che in The man who cried stipa tutto il possibile e trasforma Johnny Depp in una maschera di zingaro. (...) L'attore sembra la caricatura del cavaliere di Sleepy Hollow, cavallo bianco e faccia impietrita, sorriso su un dente d'oro e fierezza nomade". Insomma, "le buone intenzioni di Sally Potter verso le vittime del nazismo allora e delle democrazie adesso si trasformano in uno sguardo pietoso, grondante stereotipi lirici.
Più convincente è "Mondi possibili" di Robert Lepage, drammaturgo in prestito al cinema. "Lo schermo per Lepage è uno spazio da decorare, dove si alternano composizioni luminose - predomina il biancoazzurro - installazioni, segni grafici. I suoi interni sono palcoscenici glaciali: vetrate geometriche schizzate di pioggia, pannelli di resina e metallo, oggetti di designer preziosi... (...) Onirico, perso in un set spazio-temporale oscillante, il film rimanda a Pigreco e anche al Lynch di Highways, ma è completamente svuotato di paura ed emozione.
Breve citazione per Clara Law e il suo The Goddess of 1967, in cui l a"dea: è una DS Citroën "color salmone, bella e viva come la Christine di John Carpenter", anche se poi la regista "ha sovraccaricato il suo bel film, come se fosse l'ultima pellicola dell'umanità".

Si diceva di Holywood Party, dove il supponente Enrico Luccherini si permette di dare i voti ai film senza spiegare le motivazioni o accennare minimamente ad un'analisi, mosso solo dal piacere di ascoltarsi: e allora "la regia di Salvatores è sorpren-dente: tira su il molare, Sally Potter fa schifo - non si sa se come donna o come regista o se sineddoche del proprio film - e ho visto metà del Partigiano Johnny, fa schifo, come l'Odissea nell'ospizio…". Un pessimo servizio alla radio e alla coppia normalmente attenta. Infatti tornano ai loro livelli introducendo Mondi possibili, una storia d'amore cubista secondo il regista Lepage, che la spiega così: "Bisogna sempre dare una definizione e siccome ci sono molte sfaccettature e difficile, allora l'hanno voluta chiamare 'cubista'. Crespi: "Film a scatole cinesi incastrate una dentro l'altra" e questo gli fa venire in mente che il regista è un matematico e dunque tenta di correlare la struttura del film e la sua complessità con l'impegno di insegnante universitario di Lepage, ma gli va buca, perché il regista dice che lo script risale a più di dieci anni fa, quando ancora non si occupava di matematica. Perciò Crespi cita una battuta del film pronunciata da Tilda Swindon: "Passo il mio tempo ad avere idee e temere che qualcuno abbia le stesse", per spostare sulla postmodernità il discorso introdotto dalla sua idea che si tratti di un timore tipicamente postmoderno: il regista ritiene che quella impressione di Zeitgeist comune ad una koiné intellettuale sia il motivo per cui egli si occupa di varie discipline. È anche il motivo per cui i suoi film hanno impostazioni sempre differenti: quello precedente - visto solo nel circuito dei festival - era hitchcockiano, per questo la sceneggiatura è molto forte, mentre il prossimo sarà più libero nell'improvvisazione.

Subito dopo un altro autore - anch'egli piemontese - poco distribuito, al quale sono riservati passaggi televisivi in seconda serata, Daniele Segre sfrutta il passaggio radiofonico per lanciare un'accusa con voce alterata dalla indignazione: "Repubblica non ha mai scritto il mio nome in questi giorni, perché avrebbe dovuto farlo in relazione all'unità: questa censura è assenza di democrazia. Egli si chiede perché Repubblica abbia imposto un silenzio tale su L'Unità al punto da non segnalare gli orari (ore 13.30) della sua "telenovela" (come l'ha definita il 'tipo critico' Lombardi di RadioFlash); questo ha permesso a Giuliano Montaldo, diffusore in gioventù dell'Unità, di fare belle figura: "Andare a diffondere oggi Repubblica porta a porta mi metterebbe in grave imbarazzo". Comunque il suo film passato ieri sotto il silenzio assordante delle televisioni tutte deve essere imperdibile per i testimonial intervistati, che il regista definisce poeticamente "una partitura per volti e voci, dove lo stimolo dei parlanti è quello di un viaggio intimo con se stessi". La voce sicura, ma non profetica o piena di sé del regista, corrisponde alla definizione di Crespi del film: "Massimo di pulizia: serie come al solito di volti e voci, questa volta ancora più stretti primi piani e senza didascalie di nomi". Questo proprio perché è una partitura di voci tutte con lo stesso valore. Tutti sono Protagonisti i diritti del Novecento, ma Foa Anselmi, Hack sono indubbiamente riconoscibili e carismatici anziani (come prassi in questo festival), con una carica tale che Segre dice di avere ricevuto una spinta a fare il film sulla vicenda dell'Unità dopo aver incontrato Foa ("Sono uscito dalla sua casa con un'iniezione di vitalità. Mi ha fatto comprendere che non bisogna mai mollare la presa". Infatti l'assunto del film è che bisogna riuscire a far capire ai giovani che "I diritti sono conquiste mai definitive", ricordando a chi se li è trovati in eredità quali lotte si sono dovute fare per ottenerli (l'esempio fatto sulla maternità è di particolare attualità). Ma anche Anselmi sulla sperimentazione della libertà di partecipare dopo il fascismo o Margherita Hack, che ricorda le ultime elezioni del '29, il referendum sul fascismo con schede trasparenti pre-stampate rappresentano interventi "troppo importanti per essere superficializzati in questo tempo che è privo di memoria".

L'altra faccia della medaglia di impegno quotidiano e di ciò che Segre con rimeditazione politica svolge è quanto De Laurentiis dice da uomo di spettacolo di U571: "Non è una storia di eroi ma di uomini comuni che le circostanze li portano a comportarsi da eroi". Peccato che gli inglesi si incazzino che i loro eroi siano diventati - per distrazione, per amnesia, per errore, o per malafede? - americani. E subito il TG1 pone lo scippo in evidenza come se di tutto quello che trascorre sugli schermi della laguna fosse il motivo di maggior interesse. Mollica si riprende per un attimo, torna giovane e indossa i panni antifascisti, andando a pescare Keitel, barricadero: "Questo film vuole ricordare ai giovani che per la democrazia c'è chi ha pagato a caro prezzo contro il fascismoe il nazismoe racconta il sacrificio eroico di uomini semplici", ribadisce in inglese quello che diceva il vecchio (un altro) produttore. Ma perché il giornalista non insiste e non va a ripescare Segre, che dice in italiano, con una storia italiana, le stesse cose con meno retorica e dispiego di mezzi spettacolari? Forse perché tutti i giornalisti italiani hanno ricevuto l'ordine di ignorare che esisteva una testata fondata da Antonio Gramsci e intervistare Segre significava lasciargli lo spazio per parlare del suo film sulle assemblee in redazione? E allora il servizio si chiude con Bon Jovi (ç@#?*!), di cui si dice che addirittura è più bravo come cantante: dunque deve proprio essere ridotto a livello di un mentecatto come attore. Però in tarda serata, oltre la mezzanotte Mollica intervista Chiesa, al quale è permesso di dire "La resistenza è un'infinità di storie: amori iniziati e altri finiti, fratelli che hanno smesso di parlarsi, … È riduttivo definire tutto ciò storia quotidiana". Interrotto, perché rischiava di diventare interessante, meglio la faccia meno sofferta e priva delle nostre occhiaie di Dionisi, al quale sfugge una frase sensata: "La scelta di un giovane consapevole che il male è vicino". Ma non si può focalizzare l'attenzione su un discorso perché incalza la segnalazione, riportata da tutti che Isabelle Huppert è "Madama antipatia", mentre Christina Ricci è "Lady Inutilità". E si può andare a dormire tranquilli.

A ripagare Huppert della citazione maligna, arriva una conversazione del manifesto con Claude Chabrol, da cui arrivano alcune tra le parole migliori sentite in questi giorni. Egli, infatti, "si diverte quando gli chiedono di spiegare il suo cinema". A proposito della protagonista maltrattata da Mollica, avanza un dubbio: "anche se scherza coi sonniferi un po' troppo, non è una criminale. Cosa fa di male? Addormenta, esattamente quanto fanno oggi i giornali, allora perché punirla?" Ma non cadete nell'inganno di confondere questo film con una semplice boutade di satira sociale: "A Chabrol, la realtà in quanto tale, come materia di cinema non interessa"!

Anche per il TG2 la nota ufficiale di Blair è motivo di interesse precipuo e allora pretenderemmo da Gaspari Gianni di sapere a chi è stata inoltrata la protesta, vibrata ovviamente, e in quale cestino dei rifiuti del Labour Day è finita, senza che provi nemmeno a mettere insieme le solite parole orecchiate male e montate peggio (per cronaca riportiamo quello che la scarsa fantasia del giornalista è riuscita a collazionare:"Il dramma degli uomini sul fondo è reso con claustrofobica tensione e la lotta contro il tempo avvince lo spettatore". Frase ad effetto per famiglie distratte e che funziona per tutte le stagioni.

Antonio D'olivo raiuno: Frears e Liam solo citato per parlare di Allen, una commedia sui valori americani, sapssosa ma non perdente. Trinity in Memento, film non di fantascienza. Questo è il pensiero profondissimo che deriva da un accredito e dal mantenimento di un inviato a spese del contribuente.

Radioflash (Marco Lombardi), ore 11,00: storia della Cina tra i '60 e gli '80, rivisitata attraverso una compagnia musicale. Sembra un po' Sergio Leone: vengono affrontati un po' tutti i temi politico sociali. Didattico, anche in senso buono del termine è invece il film di Chiesa: può contribuire al racconto di un periodo, anche perché asettico e oggettivo, senza retorica né trionfalismo; il problema del film è che non ha voluto parlare del movimento storico incentrando tutto sul partigiano, ma non lo ha approfondito. Quindi non è storico, ma nemmeno psicologico.

Segre: sta presentando dall'1,30 fino alle 2,30 una lunga telenovela. Tutti i giorni per venti giorni filmava le assemblee: "anche nel documentario c'è della fiction", ma non l'ha ancora visto.

Adriano Boano e Marcello Testi

4 settembre

Oggi vogliamo ridere e quindi… Bignardi! Esordisce con un sospetto di malizia nell'accostamento di due prodotti femminili: la DS di Clara Law e la Sally Potter dalla bellissima fotografia, che nella scelta del palazzo per Rosa e Cornelia Treves scartò per evitare proprio che impresentabili incompetenti come Bignardi potessero limitarsi alla fotografia. Stavolta addirittura raddoppia: entrambi i film sono dotati di splendida fotografia, rispettivamente di Dion Beebe e di Sacha Vierny. Ma l'inossidabile Bignardi si lancia alla ricerca di un sentimento autentico in un film confezionato attorno a Christina Ricci, il cui volto imbronciato fin da Mercoledì è probabilmente l'opposto del sentimento (persino in Buffalo 66 o in Sleepy Hollow, dove già era in coppia con Depp), ma sicuramente non si può dire che non sia carismatica e invece l'ineffabile Bignardi addebita a lei il "melò tutto confezione, belle scene stravaganti e poco cuore", come se gli stereotipi e l'atteggiamento potessero essere decisi dagli attori. E anche per la divinità a quattro ruote Bignardi riesce a parlare di melò (forse era suggestionata) questa volta postmoderno (poteva mancare la definizione?)"raggelato dalla ricerca dell'invenzione sorprendente. Più assennata Aspesi talvolta riesce a trovare quello che si immagina essere il bandolo della matassa australiana: "La storia crudele che fa da sfondo nel filmla un viaggio nel deserto australiano su una incongrua Citroen DS roda del'67, va e viene, lungo trent'anni". È quanto tra i vari articoli di Repubblica si avvicina maggiormente a quanto s'immagina dall'ascolto di Hollywood Party (radiotre, ore 19 di domenica), dove non si parla nemmeno dell'incesto, ma di cinema. Forse alle giornaliste di repubblica non hanno ancora spiegato che il loro compito è occuparsi di cinema e non come pontifica Aspesi: "Il cinema non può cambiare il mondo ma forse può aiutare a capire ciò che è più oscuro". No il cinema orbita all'interno di ciò che è cinema, soprattutto ad un Festival e non ce ne frega un cazzo di psicologismi d'accatto o tentativi beceri di legarsi alla attualità della notizia pedofila.

Neanche Crespi ci azzecca con Clara Law, né sull'eventuale immedesimazione autobiografica della hongkonghese con il protagonista giapponese in trasferta in Australia (la regista rintuzza l'ipotesi, dicendo che lei ci vive da alcuni anni in Australia e non ci è capitata come il giapponese), né se all'interprete femminile è parso di scavare nella storia dell'Australia. Alla terza domanda, probabilmente mossa a pietà, la regista gli dà ragione: "Sì, in effetti, lei abituata alla verticalità di Hong Kong è stata suggestionata nella costruzione del film dalla orizzontalità dell'Australia. Ma ciò che getta nel ridicolo la stampa globale è la rivelazione che la DS non era precipua, poteva anche non essere un'automobile: si cercava un oggetto degno di attenzioni collezionistiche per avere il pretesto da cui partire quando è arrivato un amico a bordo della macchina che già era stata al centro di altre avventure per la sua classica forma a seppia. In distribuzione a gennaio nelle sale italiane, lo dice Procacci della Fandango, al quale né Steve, né Crespi pensano di chiedere il motivo per cui si impiegano quattro mesi per distribuire un film già pronto.

Le due signore di Repubblica si occupano pure di Isabelle Huppert (Chabrol viene dopo: le immarcescibili giornaliste si occupano prima delle donne, infatti nel pezzo di Bignardi prima del film viene la recensione del giallo di Charlotte Armstrong): questa volta il sentimento di cui si va a caccia è l'egoismo. Archiviato il fatto che ne sono dotati tutti, si conclude il pezzo con una sequenza di banalità adatte per qualunque film di Chabrol: sciocchezze che non dicono nulla riguardo al film, rabberciate da qualche reader's digest della poetica di Chabrol, del quale non ci viene risparmiato il richiamo alla età: tutto serve a fare note di costume sul fatto che è un festival fatto dagli ultrasettantenni (ovvio: visto che ieri sera passava Il partigiano Johnny di un quarantunenne, ma non si cita nemmeno). Anche qui Bignardi non è soddisfatta di come l'hanno svegliata alla fine del film: "Ma quando la tensione di questo giallo in bon ton è al massimo, la coonclusione arriva precipitosa, meno complessa e meno ricca di quanto annunciavano le premesse, e non tutti i pezzi cascano al posto giusto - lasciandoci con qualche rimpianto sotto il profilo del mistery, con un grande piacere di fronte al gioco degli attori, Huppert in testa a tutti, e con la soddisfazione di vedere un vecchio leone colpire ancora". Ma vi sembra possibile scrivere non-notizie di questo calibro? E con una retorica vacua come questa del vecchio leone, poi? La sua degna socia non scherza nemmeno nel suo doppione di pezzo su Huppert, considerata l'emblema della perversione, che consente alla senilità borbottante da francese "rotondo, cordiale e civettuolo" di Chabrol di prendersi gioco della giornalista, citando Lombroso e rivelando facezie sull'estensione all'intera famiglia del lavoro: al figlio le musiche, la figlia aiutoregista, la moglie in mancanza di competenze, segretaria: questa la critica approfondita che riescon oa produrre le redattrici di Repubblica. Più sensata l'attrice parla del suo personaggio come se esistesse realmente fuori di lei: Credo che lei si sia realizzata nel compiere quella serie di gesti volutamente goffi o naturalmente eleganti con cui preparava i suoi falliti delitti […] Non mi è stato difficile provare quel senso di rivolta, quel bisogno rabbioso di distruggere, che viene a chi è abituata ad apparire perfettamente armoniosa, affabile, altruista, controllata". Anche di lei Aspesi più che riportare questo discorso di cui forse non ha capito che racchiude il fulcro dell'interpretazione di Huppert ci informa sugli anni. Forse ha lavorato in qualche anagrafe prima di trovare qualcuno che l'assumesse a Repubblica per fare scoccianti e inutili domande, che infastidiscono - giustamente - l'attrice francese (ma anche per noi). La notizia più interessante che apprendiamo è che si è girato nella villa di Bowie a Losanna e che questa è in vendita: chi avesse velleità immobiliari è avvertito.

Di sguincio si annota che Huppert ha lavorato anche nel film di Ruiz in concorso dopo essersi lanciati in un inopportuno discorso sulla pedofilia che in questo film non c'è, ma fa fine ed è di moda, si chiude con un rassicurante ritrattino dell'attrice che parla di rapporti familiari indecifrabili, a proposito di contraddittori "interessi nel romanzo di Bontempelli per il rapporto di reciproca seduzione calcolata che avviene tra madre e figlio". Ma non aveva appena detto che l'efferratezza assoluta è maschile e si chiama pedofilia? E allora il mito occidentale fondato su Edipo di cui con evidenza parlava la Huppert per prenderla in giro senza che se ne accorgesse (non difficile il gioco, Mademoiselle Huppert)?

Tmc dà per certo il leone a Huppert, asserendo che potrebbe esserci soltanto un duello con Ricci: allo stile di Chabrol però Sally Potter nasconde un approccio algido con un grande cast, intervistato in blocco dalla terza stordita che completa il quadro di Repubblica, Maria Pia Fusco. Ella correda la sua intervista a Potter con una foto in cui spicca la britannicità della regista, ci si aspetta che esca il fumetto: "Oh, my god!". Il suo discorso è molto politically correct, aperto a ebrei e rom, nell'articolo sempre tradotti scorrettamente zingari. Nel film il rom sarebbe Johnny Depp, la cui assenza per il TG Studio Aperto di Fede è uno dei motivi di maggior interesse, però proprio Christina rassicura tutti i giornalisti di Italia1, dicendo che si conoscono fin da quando erano bambini e anzi a questo proposito ci informa che quando dovevano girare scene d'amore o di sesso (la stessa cosa viene riportata da Fusco, Repubblica), scappava loro da ridere. Altro rilievo essenziale per Studio Aperto è il minuto di silenzio prima della proiezione del film sottomarino in omaggio ai marinai del Kursk.

Ricci è compresa dalla pleonastica Fusco perché la sua giovane età non le permette di ricordare la Shoa (che lei chiama riduttivamente Olocausto), la ragazza più intelligente dice: "una ragazza che, cercando suo padre, cerca in realtà la sua identità e quindi la strada da prendere nella vita, le scelte da fare." Non pretendiamo di più da queste intervistucole. E quindi rimaniamo stupefatti che Cate Blanchett sia riuscita a dettare alla stordita una frase con senso compiuto tutta di seguito: "Mi sono documentata attraverso le immagini piuttosto che sui libri, osservando il trucco, gli atteggiamenti, i sorrisi di certe donne del tempo. Lola ha una visibilità, un'energia, un'ansia di benessere che sembrano soffocare ogni principio morale, ma è solo superficie". Con Turturro si ricade di nuovo nelle fregnacce relative al suo personaggio fascista.

Relegato in fine di articolo un film di cui non abbiamo sentito pareri da nessuno, eppure ripropone la coppia Tom Twyker-Franka Potente: The Princess and the Warrior, un altro uomo piangente consolato dalla cantante tedesca, nel film infermiera. Vi risparmiamo le scempiaggini su principi azzurri e sogni d'amore riferiti da Fusco Maria Pia.

Placido Rizzotto è un film che va bene che ci sia, didattico, ma dal punto di vista cinematografico non è piaciuto molto a Marco Lombardi di Radioflash, perché ci sono due tre ruoli non perfetti e un finale che prevede una persona che sostituisce il sindacalista e si avvicina al capitano, che si svela essere Dalla Chiesa con una sorta di sensazionalismo esagerato, sarebbe stato meglio un po' meno ad effetto e nella ricerca dell'applauso a scena aperta.

Steve copia Silvestri a proposito dell'incisività del film di Salvatores, si complimenta per il montaggio e la fotografia e Salvatores ripete la solita citazione da Picasso già sfoderata in casa al TG5: "Se continui a cercare non invecchi". Per Crespi è un film visionario, ipotesi ben accolta dal regista che la correla all'idea di una storia piccola, d'amore, intimista in cinemascope. E allora Crespi incalza: "È come se racchiudesse tutti i tuoi film precedenti".

Si arriva finalmente a parlare di qualcosa di sensato: è un film fuori dal tempo. Steve raccoglie i dati: Procul Harum (già usati in I Cento Passi, capelli lunghi degli Anni Settanta sono elementi che cercano di dare un'immagine atemporale si chiede il critico torinese; Salvatores conferma che si è voluto realizzare una storia contemporanea, ma con una trama atemporale per eliminare il realismo.

Poi tocca a Guido Chiesa, che glissa diplomaticamente sull'invito a riprendere il suo vecchio ruolo di critico musicale per dare un giudizio della colonna sonora di Salvatores e abilmente fa invece uno spot per la sua colonna sonora curata da Balanescu (violinista rumeno per Nyman, ma a cui non si può addebitare la retorica o la noia mielosa del britannico). Il regista di Cambiano è accompagnato dal fotografo Gherardo Gozzi, che nega di aver avuto come riferimento i film neorealisti, ma i combat film e i film di guerra degli ultimi anni (buio spesso e autunno), e dal co-sceneggiatore Antonio Aleotti, che invece insiste sull'assenza di retorica che avrebbe lo scopo di restituire il tono secco e disincantato di Fenoglio. E lo spiega anche, dimostrando che almeno in questo film si è cercato di essere seri, la sensazione è che qualunque scelta stilistica, qualsiasi dettagli sia stato curato e abbia un preciso significato. Infatti: "Il personaggio ha due facce perché si è cercato di rendere evidente che Fenoglio scrive a fine guerra, sapendo come era andata a finire, compresi i compromessi successivi, di cui non poteva non avere sentore vista anche al sua collocazione anticomunista al di fuori della ortodossia resistenziale".

Poi Chiesa non riesce a trattenersi dal raccontare per l'ennesima volta la nevicata di 90 cm mentre giravano che ha rivoluzionato il piano, esaltando le doti di abnegazione della troupe, lodata anche dalle colonne di Torino sette qualche tempo fa per avere aderito al progetto persino nelle campagne innevate con una temperatura di meno sette.

Tmc nell'edizione delle 12.45 definisce tiepida l'accoglienza dei giornalisti al lavoro fenogliano (viste le chicche che andiamo documentando potrebbe essere un gran bene), si attende il giudizio del pubblico di stasera che vi assisterà insieme al film di Schnabel che aveva già portato a Venezia Basquiat.

Il Kursk e il minuto di silenzio richiesto da De Laurentiis è usato anche da Anna Pradelli per TG5 come incipit che unisce i due film sulla seconda guerra mondiale: prima ovviamente parla di quello americano che sfodera una valanga di attori: vediamo Harvey Keitel, ma non viene intervistato. Parlano invece la Muti (inutile) e Dionisi (bravo: "Si tratta di capire quando il tuo vicino viene calpestato e quello è il momento di schierarsi"), protagonisti del Partigiano Johnny. Ancora meglio l'intervento di Chiesa: "Non mi interessa la celebrazione della Resistenza che è ancora una ferita lacerante in questo paese", poi si vede che ha aggiunto qualcosa, ma stava scivolando su temi che esulano dall'attenzione ai lustrini e al gossip e quindi è stato censurato per far posto al film sul perseguitato cubano perché maricon, sottolineando che il film evidenzia la delusione per la rivoluzione cubana e per l'american dream.

 

Per Marco Lombardi Denti è un film sul corpo un po' devastato che è sulla linea che sembra sottesa a tutto il Festival di attenzione al corpo.

Donne protagoniste del festival: Salvatores ha sempre ammesso di non capire l'universo femminile e invece in Denti ci sono molte figure femminili, benché abbia detto che preferirebbe si raccontassero le donne dalle donne. Ma non è una linea di questa mostra, ma una tendenza ciclica. Discorso aggrovigliato per arrivare a parlare di Roberta Torre attesa a giorni con la sua comicità al femminile.

Lido San Niccolò alle 21 domani ci sono i Righeira, di cui Lombardi parla come di zombie che tornano a vivere (e allora poteva tacere, invece di pubblicizzarne la performance): forse in virtù del fatto che Barbera ha organizzato una serie di eventi mafioso-campanilistici per promuovere il Piemonte. Quello più allucinante vedeva personcine degne come Chiesa e Calopresti costretti a condividere la sala con Agostino Ghiglia, noto picchiatore fascista degli anni '70, ora vice presidente della Regione, passando attraverso Rondolino e Castellani, esercenti e produttori, assessori nani e ballerine della commissione (anzi all'inglese: Film commission) che promuove la realizzazione di film che usino location piemontesi.

Adriano Boano

3 settembre

2 $ al chilo di Carlo Lipari è l'unico film di cui volentieri diamo notizia e che è stato soltanto preso in considerazione da Hollywood Party. Il nostro editoriale campeggia ancora nella home page quando questi 15 minuti di denuncia accendono gli schermi lagunari per parlare del macero che attende le pellicole: una ghigliottina per inaccettabili ragioni di costi di magazzino e per la tutela dei diritti. Il maledetto copyright! Il documentario è prodotto dalla Fondazione Cineteca di Milano. Il regista è appassionato, si sente dalla incrinatura della voce quando soffre a pensare allo sminuzzamento fatale delle pellicole (probabilmente destino che attende anche il suo documentario, secondo le regole che vendono un tanto al chilo il pattume cinematografico). Steve con la sua esperienza di antichi cineclub che si rifornivano dai collezionisti introduce l'argomento: "Questo sistema ha comunque consentito ai collezionisti di appropriarsi di pellicole per pochi soldi…". E l'autore non si lascia sfuggire l'occasione di parlare di Gianni Comencini e Matteo Pagani, gli sceneggiatori del documentario che hanno salvato Femmine folli di Stroheim.

La trasmissione radiofonica di radiotrè ha il pregio di dedicare lo stesso spazio ai corti come ai blockbuster: quindi la moglie di Makhmlbaf (non fatemi cercare il nome: è politically uncorrect citare così un'autrice, ma la fatica dei nomi è tanta) viene intervistata sul film della comunità familiare. Giusto il tempo di ricordare che anche il film accreditato a Samira e vincitore a Cannes proviene da un lavoro collettivo, che si fa ancora più intricato in questi tre episodi di Il giorno in cui divenni una donna, girato sull'isola di Kish nel Golfo Persico, la stessa in cui Mohsen aveva ambientato il suo film di Cannes. La co-autrice rivela l'arcano: è l'unico posto in cui si possono incontrare turisti come autoctoni (?), che detto a Venezia fa un po' ridere al di là della notizia sconvolgente, a cui la donna aggiunge pure un'altra scoperta e cioè: è l'unico posto in cui esiste una pista ciclabile di 50 km. Viene in mente il circuito in cui si svolgeva la prova di Il Ciclista del marito, ma ora che è un'azienda a conduzione familiare si fanno le cose in grande. La fortuna di Mohsen ha toccato tutti, forse per questo si dice, in chiusura di intervento della donna, che anche il protagonista di Close up, che nel film di Kiarostami si faceva passare per Makhmalbaf, ha girato un suo film.

Percorrendo a ritroso la trasmissione, si trova l'immancabile marchetta di Steve: Barbera ha citato il film di Scimeca come rinnovata attenzione del cinema italiano per la storia presente ed il regista può così lanciarsi nell'esaltazione del ritorno al grande cinema rosselliniano, rivendicando una sorta di primogenitura: "Fino a un paio di anni fa ero l'unico". Inutile discutere di fronte alle certezze della promozione.

Ci vuole una bella faccia tosta a lodarsi, ma forse è ancora peggio lodare chi ti loda... La caduta di stile (con risvolti di inquietante ipocrisia) spetta a Giuseppe Tornatore, vincitore di un premio intitolato a Bresson (assegnato dal festival Tertio Millennio, dalla Rivista del Cinematografo, in accordo (?) con il Pontificio Consiglio della Cultura), che però, assegnato quest'anno, riguarda il film "Una pura formalità" (1994). Così Peppuccio prima s'imbroda vantando la lunga vita "critica" del suo film, rispetto alla distribuzione (e non accorgendosi che un premio a un film datato, implicitamente, pone una pietra sulla sua produzione recente); poi, fedele e "Realista", si avvita con acrobatico sillogismo e dice che questo premio denota la lungimiranza dei cattolici, rispetto ai laici. "Devo sempre più riconoscere che cattolici si sanno guardare intorno e capire più dei laici" (riportano il Mattino e l'Avvenire, anche se il quotidiano cattolico nell'occhiello mitiga: "I credenti sono più attenti di molti laici"). Bravo Peppuccio, grazie per averci detto che siamo più scemi di un papa-boy qualsiasi, nel frattempo, però, dato che, anche se non credente, sai "guardare intorno e capire", hai venduto un bel servizio fotografico sulla Bellucci (protagonista del tuo prossimo film) a una rivista patinata. Si sa mai che arrivino anche premi dagli scemi...
Intanto, ci lasci con questa perla di saggezza: "La verità sta in mezzo, ovvero il cinema italiano va." Bravo, vai...
[NOTA AGGIUNTIVA] Un fulgido esempio della lungimiranza cattolica corrente è rintracciabile nelle pacate e distensive parole pronunciate il 5/9 da Ratzinger, che praticamente relega le religioni non cattoliche nella categoria delle sette superstiziose e per giunta dannate.

Rimanendo in ambito cattolico-episcopale, l'Avvenire non può non dare notizia della pubblicazione di "Giovanni Paolo II e il cinema" (ne abbiamo accennato anche ieri), raccolta di discorsi papali che interessano la settima arte. Continuiamo a diffondere l'allarme! L'Avvenire aggiunge che il volume è stato distribuito ai giornalisti presenti alla mostra, ma la nostra inviata non l'ha visto neanche in cartolina. Mentre aspettiamo l'esito delle sue indagini, ci chiediamo che diavolo possa mai aver detto il Papa nell'ormai storico discorso di Hollywood (di cui il 15 settembre cade il tredicesimo anniversario).

Per il resto, la pagina di Avvenire si divide equamente tra Zemeckis e Salvatores (nessuno dei due troppo amato - a Salvatores, addirittura, Francesco Bolzoni rinfaccia di pervenire a poco meno (sic!) di niente) lasciando sugli scudi, non troppo, solo Ruiz, forse più compatibile con la matematica discrezionale di Bolzoni, citando appena Placido Rizzotto di Scimeca, al pari del guaito gassmaniano (che palle!) della Cardinale, che manda un messaggio nientemeno che da Capri.

L'intero paragrafo di Silvestri che andiamo a riportare è "satirapolitica", come ormai non se ne fa più da tempo e perciò lo inseriamo, se vi disgusta potete saltarlo, ma non capireste il senso del film di Scimeca, rischiando di diventare una specie di Fofi:

"Ci piacerebbe che questo film più che perfetto venisse infatti criticato dal nemico, dagli unici che hanno gli strumenti tecnici e un surplus di conoscenza per farlo. Gli altri li hanno quasi tutti assassinati. Che so Andreotti, greande storico e fine polemista di parte, o Fini, piccolo specialista, da giovane, di agguati cruenti da cui uscirne penalmente puliti, visto che il suo amato maestro Almirante mi brandì un bastone davanti proprio con la stessa tecnica che nel film usa Vincenzo Albanese (Liggio) il giorno in cui Oreste Scalzone fu ferito da un bancone scagliato dall'Università di Legge [N.d.A.: documentato in 30 anni della nostra storia di Agosti] e nessuno mai pagò per un tentato omicidio. Tranne Scalzone. Ecco quello che ha di speciale Scimeca: è così tanto 'non realista' nella forma dell'espressione, quanto molto, molto realista nella sua sostanza."

Mentre Fuori Orario dedica i film di Lab80 a Kitano, egli è chiamato da Steve e Crespi a discutere su quali differenze ci siano tra i codici delle gang americane e gli yakuza. Si smarca sicuramente meglio di Pinga, dicendo che non ha pensato alle differenze ma al luogo, quando ha deciso di girare in USA. Per Crespi la battuta più bella è quella che si scambia con un giapponese incontrato in America che gli chiede cosa ci faccia lì: "Faccio la guerra anche in America" è la risposta sibillina per chi non ha visto il film.

Un testo che infilza tutta la rassegna su uno spiedo di livida perfidia, spesso irosa, è quello confezionato da Fofi per il Sole 24 ore: lo utilizzeremo come contraltare mentre vengono presentati tutti i film: sembra giusto darne conto subito per quei film di cui si è già parlato, come Space cowboys che secondo Fofi "è un film disneyano sui vecchi eroi non hemingwayani ma volgarmente spielberghiani", negando il lucido disperato nichilismo dello stupendo - anche per Fofi - Gli Spietati. In poche righe Fofi fa giustizia di quattro film: uno, poco considerato da tutti, Sade, viene etichettato come "imbustato"; all'altro, L'isola invece, che ha attirato l'attenzione di tutti e da Silvestri anche indicato per ora come il Leone, si concede che sia "bene impaginato e di una suspence sottile, ma chiude su esasperazioni grand-guignolesche altrettanto velleitarie delle sentimentalissime lezioni di comprensione che ci offrono commedie svedesi - seccato anche il regista di Fucking Åmal - o romanzetti della provincia americana" (ma tanto Puoi contare su di me non lo ha cagato proprio nessuno).

Ce n'è anche per Giordana, colpevole di mescolare "accortamente antimafia e '68, con qualche freschezza e molta simpatia, ma non andando oltre le consuete cartoline illustrate del genere". Qualche apprezzamento lo riceve Guediguian, non avevamo dubbi che il suo populismo fosse nelle corde di Fofi, anche se lo considera "più cupo che malinconico" e non si capisce se sia un pregio o un difetto. L'unico che davvero ha riscosso l'adesione del vecchio paradigma negativo è l'indiano: "la sola risposta alla robotizzazione del cinema americano, modello e formatore di nuovi robot, la sola risposta veneziana ci è sembrata sinora il film indiano Uttara di Dasgupta, ingenua e pura rappresentazione di una esterna lotta tra Bene e Male".

L'ospite più interessante e giusto di Hollywood Party è il napoletano Giuseppe Rocca, introdotto da Steve citando la sequenza iniziale, dove la stessa scena viene ripresa dall'alto per scoprire che vediamo con gli occhi di due bambini: Lontano in fondo agli occhi è una falsa soggettiva. Il regista comincia a sbottonarsi, parlando di un film mentale che ciascuno di noi sviluppa dall'età di sette anni ed è questa l'idea che persegue nel suo lavoro, che ha radici nel suo background di antropologo: egli ha lavorato in una radio svolgendo ricerche sull'oralità. Infatti ci risulta simpatico nel momento in cui dice che "detesto il teatro: pose e illusioni", citando la frase di Strindberg con cui ha concluso il suo saggio di laurea. Prova proprio "astio" per l'impostazione accademica della recitazione, privilegiando l'oralità (bisognerebbe metterlo a confronto con i pasdaran del mito di Gassman). Racconta di un radiodramma realizzato sui pellegrinaggi a Santaiago di Compostela recitato in dialetto: dal provenzale pinerolese al gallego. Un piccolo mito che ha trovato un distributore coraggioso che a Steve ricorda una canzone dei New Trolls: Thulle.

Purtroppo anche i due pards di Hollywood Party avevano iniziato con il tormentone di oggi: la major statunitense non ha badato a spese. E i due hanno inscenato un contraddittorio perché Steve ritiene orrendo What Lies Beneath: "Film per allocchi. Un b-movie fatto in maniera ricca, senza il fascino del b-movie. Non è cinema perché non fa paura". E quando Crespi s'azzarda a dire che se Bava avesse fatto un po' più artigianalmente lo stesso film a Steve sarebbe piaciuto, l'impertubabile Della Casa ribatte che Bava con gli stessi soldi ne faceva duecento. Crespi in realtà riscontra risvolti di sceneggiatura felici e offre a Zemeckis una domanda che gli consente un figurone in conferenza stampa, citando il press-book che asserisce la supremazia cinematografica della suspance: "il cinema consente di lavorare sul tempo e il ritmo è sempre preservato. In un libro questo è deciso dal lettore, in teatro il ritmo è condizionato dalla performance del momento e cambia ogni sera, in un film è fissato per sempre dal regista."

Da quest'idilliaca atmosfera di pseudo intelligenza, dove le risposte sembrano sensate se non si va a scavare troppo a fondo nella banalità che "si nasconde sotto", veniamo risvegliati dai Lunapop, scomodati per il loro riff (quando cominciamo a sentire il bisogno di qualcosa di piccolo, questi si ostinano a osannare "qualcosa di grande", che accomunerebbe i due attori di Zemeckis). Essi introducono i due divi attraverso le lenti deformate di Vincenzo Mollica (TG1): mi stupisco sempre che questo lacchè potesse essere amico di Pazienza: viene da pensare che i nostri morti fossero i migliori e quindi siano stati preservati dalla contaminazione del tempo. "Belli, bravi, avventurosi, uniti nelle verità nascoste di un giallo che sconfina nel paranormale", urla garrulo Mollica; e già mi scappa la voglia di vedere questo blockbuster. Ditemi: ce ne frega qualcosa che per quella gran gnocca quarantenne, che non ci faremo mai, il valore più importante sia l'integrità morale, la dignità (cosa significa?);e per lui, 58 anni, umile falegname che si schermisce di fonte alle illazioni sui suoi salvataggi estremi in Idaho, il must sia far crescere i propri figli con responsabilità e ideali positivi? Ma chi se ne frega!!

Ancora più mitico il TG2 qualche minuto dopo. Sembrava un vecchio documentario Luce della settimana Incom, in cui appare premiato Pontecorvo, che avevamo appena lasciato ai bordi di una piscina di Blob, flaccido, in costume e malfermo sulle gambette.; qui sprizza la consueta contentezza di facciata di fronte a un riconoscimento anonimo e assolutamente pleonastico. E anche qui le verità nascoste: non se ne può più di "incubi claustrofobici che mettono a dura prova i nervi degli spettatori tra colpi di scena e colpi bassi - è incredibile la sequenza di scemenze e luoghi comuni messi di seguito secondo combinazioni variabili volta per volta - Zemeckis è un abilissimo baro che gioca sadicamente - Jacquot? - con le attese del pubblico". Poi azzarda due nomi: Hich e Clouzot (ma il suo riferimento è probabilmente il più recente Chechik). Poi, stupore! Si pensava finito il servizio, e invece riparte, uguale a se stesso ma con piglio più personalistico; cambia la voce off, Tonino Pinto ci avverte che la paura ha colpito (non attanagliato, la fretta impedisce di scegliere i vocaboli) anche lui. Però le immagini sono le stesse del servizio precedente, adiacente nel lancio, persino montate nella stessa successione. Completa lo squallore l'intervista fiction con una sola telecamera che impone in post-produzione la pantomima esagerata della domanda interpretata come in una sceneggiata napoletana. Una vergogna realizzata da incompetenti, incapaci di andare al di là di "Lei crede agli spiriti?".

All'opposto si colloca lo specialistico blob a Venezia.

Alla parola polipone appare piacione Rutelli, che dice, contraddicendosi: "Non ho aperto bocca", lanciando così il grande beat Takeshi, al cui cazzottone appare un minaccioso (davvero) Abatantuono che promette a un operatore un calcio nei coglioni ("E' come dargli a n che caga". Oxford!). Poi trascorre innocuo un intervallo riempito - si fa per dire - da una sequenza di Moskva di Aleksander Zeldvic, nella quale si usano delle montagne russe per depositare il fardello di sfiga che corrisponde ormai a tutto ciò che è Russia. Tilsammans di Lukas Moodyson è un lungo spezzone parlato in scandinavo senza il conforto di una didascalia, ma s'intende che il motivo del contendere è la passera al vento di una delle signorine di una sorta di comune, che tra Dogme e Bergman conferma lo stereotipo diffuso di quella parte del mondo. Appare tra fuochi d'artificio anche Sally Potter (The Man who Cried) non cagata da nessuno per fortuna (come De Bernardi): solita coreografia stantia tipo Orlando e un Turturro in vesti settecentesche costretto a cantare in un evidente play-back una romanza.

Finalmente Clint evoca Coltrane e si crea il cortocircuito magico tra suono e immagini: la musica di My favourite Things introduce la Verifica incerta della frammentarietà oracolare di Ghezzi. "L'isola, trasparenza e elementarità dell'enigma. La stupenda monumentalità esangue di De Oliveira. [Con gli stessi termini interviene positivamente persino Fofi, che salva di tutta l'edizione solo qualche documentario e Dr.t and the women e proprio Palavra e Utopia: "Se per Altman il problema sono gli usi della ricca società e il delirio delle donne, liberate su molti fronti e costrette da sé dietro quello del dollaro, e la perdita di virilità degli uomini, per Oliveira il messaggio è più forte, non condizionato dal costume, e tratta di istituzione e storia, di retorica e azione. E di come si possa, vecchi, essere più liberi e arditi"; la polemica è verso Clint che per Fofi invecchia indecorosamente essendo di destra. Mah!]. Poi due film potentemente teorici: un trattato sull'horror di Zemeckis ancor più che sulla paura e sulla paura della paura, con uno straordinario momento in cui, come in Contact, non avviene fisicamente quello che dovrebbe accadere davanti alla macchina da presa: una porta non ci sbatte contro e quindi è come se noi fossimo il fantasma. Un momento così potente da annullare quasi l'ultima parte del film. E Kitano, una sorta di diamante: una trasferta americana che è un trasferimento per finta, una proiezione nello spazio quasi eastwoodiana, dove ritrova il suo stesso cinema ma in modo spasmodico, in modo che viene da pensare già finale, già in modo non superabile.

E il film di Ruiz invece che si diverte quasi a giocare il contrario dell'enigma, a giocare pianamente il ruolo illuministico, ironico, beffardo, postletterario: infatti il film serve a svelare, anche se per tutto il film è servito a costruire l'inganno del film. [Fofi non si lascia sfuggire il film tratto da un'opera letteraria che gli consente di mettere in mostra la sua competenza in entrambi i campi. Anche in questo caso gli aggettivi non lasciano scampo al povero Ruiz: frigido è quello più ricorrente, in dieci righe se ne contano quattro di accuse di frigidità, che contrasterebbe con l'angoscia metafisica di Bontempelli. Non solo: "Frigido e inutile quanto quello coreano".] Il cinema familiare dei Makhmalbaf: Samira, con un film molto bello a Cannes, che adesso è già nei cinema, Lavagne, qui in giuria e sua moglie qui con un trittico, bello; e di nuovo Mohsen con un film pirata con una telecamera come questa, dove si dicono cose non definitive, cose iniziali e quindi definitive sul non avere né origine né fine dell'immagine."

Il Mattino di Napoli si butta decisamente sulla notizia di costume e prende a pretesto "What lies beneath" per proporre ritratti (assolutamente convenzionali) di Pfeiffer e Ford, mentre il trafiletto "Polvere di stelle" semina dispacci su Di Caprio, la solita Cardinale su Gassman e un folle comunicato stampa di Grillini (ArciGay), che preannuncia scandalo (che quindi non ci sarà) alla prima di "O fantasma". La pagina seguente è tutta per Salvatores, con intervista e critica (tiepida, ancora una volta sbilanciata a favore di Ruiz) e messa in evidenza della location napoletana di "Denti". Ma, come dice uno dei richiami, la città è un "set magico e irriconoscibile". Per tornare alla critica (Valerio Caprara), elogi per Zemeckis ma soprattutto per Kitano, anche intervistato e divertito nel ricordare come la sua avventura produttiva americana fosse segnata da assicuratori e maestranze, gli uni contenti, gli altri meno per la puntualità nell'applicare le regole da parte del regista giapponese. Più spazio qui per Rizzotto e Scimeca, che però viene ingessato in iniziative istituzionali che ricordano tanto la fine che fa lo Stato nella canzone "Don Raffae'" di De André...

Repubblica, finalmente oggi, dedica più spazio a Scimeca, con un'intervista che però non riesce a scollarsi dal terreno scivoloso dei contenuti e del Grande Tema (lamafia). La Bignardi non affonda Salvatores e, fuori dal coro, spara sulla "maniera" di Kitano, mentre l'apertura è anche qua per i divi Pfeiffer e Ford, che oscurano un po' l'attenzione che meriterebbe il film di Zemeckis. Invece, tutto si chiude con il trio protagonisti-regista a confessare se credono o no ai fantasmi. Natalia Aspesi richiude il film nel concetto di polpettone Made in USA e per questo lo gradisce. Credo che noi di Expanded Cinemah ne riparleremo.

TG5: Water, Ghost sono le due parole con cui esordisce per stupire a partire dalle paure confessate dai due divi. Peccato che la paura dei fantasmi sia un'invenzione dei probi giornalisti che hanno isolato una parola da un contesto in cui Harrison Ford riteneva all'opposto che on esistessero i fantasmi se non quelli che partorisce la mente. Il commento del pezzo è professionale, ma senza emozione, come caratteristica del tg berlusconiano di sinistra. Quando asseriscono che "hanno portato un brivido hitchcockiano alla mostra", probabilmente non si può dire che sia sbagliato, ma puzza di compitino ben recitato, appiccicato a memoria dai primi della classe, anche la scelta delle immagini documentano senza passione e allora viene il dubbio che il film sia adatto a loro e abbia ragione Steve sulla differenza tra b-movies reali e finti. "Hitch aggiornato all'era degli effetti speciali computerizzati" è una definizione che significa tutto e niente, qui è il secondo caso perché gratta gratta viene fuori "la storia di una donna perseguitata dal fantasma di una ragazza scomparsa", che differenza dai due minuti regalati dalla telecamera di Ghezzi: potete anche insultarlo, ma poi dovete apprezzarlo di fronte alle insulsaggini degli altri canali televisivi che infilano tutti una serie di disarmanti banallità: lei è puritana? Lo sanno anche i sassi (ed è uno spreco), riservato il testimonial della Fiat? Se non si pronuncia tra Gore e Bush è come se dovessimo dire che ci sono differenze tra Rutelli e Amato o addirittura tra D'Alema e Berlusconi. In realtà l'attore non voleva dare l'impressione di qualunquismo che hanno confezionato i nostri solerti giornalisti: il virgolettato del manifesto ci permette di gettare un'altra luce sulla sua preoccupazione per le prossime elezioni: "perché George Bush e Al gore sono due teste di rapa". Appunto: Berlusconi o Rutelli.

Must dello squallore è il presenzialista Villaggio-retttile nello sguardo di Ford, che l'ha incrociato, non riconosciuto in presenza di gondolieri che giubilavano per papa-Fantozzi, divenuto ramarro invidioso dell'arroganza dell'americano. Il quale però si redime intervenendo nella polemica Monsignor Ribaldi/Sharon Stone, presa di posizione ripresa, virgolettata, soltanto dal manifesto: "Ha ragione la Stone, questo papa è una calamità naturale rispetto a problemi come l'Aids o la bomba demografica. Bisognerebbe punirlo non clonandolo e colnando invece quelli bruciati dalla Chiesa come Giordano Bruno" e come i due ghigliottinati dal papa-re Pio IX, assurto agli altari proprio oggi

Silvestri scorrazza allegramente, gettando pillole di intuizioni in mezzo a definizioni divertenti come "mammista-leninista", per Salvatores-Denti, ingarbugliandosi nel suo pensiero psicanalitico per negarlo alla fine del pensiero: "Perché solo conquistato l'io, solo dopo aver assassinato i genitori, possiamo sbarazzarci anche dell'io, nesuna scorciatoia al nirvana è permessa ... e poi il miracolo, i terzi denti, una sorta di terzo occhio da commedia all'italiana. Invece no." e qui inserisce l'intuizione, derivata da Dorfles (un altro ultra novantenne, ma quando moriranno tutti questi nonni, morirà anche l'arte, o finalmente ci svezzeremo?): "Uno sbattere il corpo in primissimo piano, l'immateriale fino al fantasmatico da una parte e il fisico fino al patologico più putrido dall'altra, che colti nel loro conflitto a distanza rappresentano il dilemma dell'arte d'oggi." Poi si perde in giochi di parole su "l'estrazione dei due più incisivi, nel senso di acuti, difetti del nostro cinema", che sarebbero la logica da prime rate televisivo (che fa un po' ridere detto di un testo derivante da Starnone - per fortuna non sceneggiatore) e usare attori dai denti orribili, scomodando anche Morissey. [Meglio di lui fa solo Fofi, un vero mammista-leninista, che si scatena contro Salvatores: "Accumula laidezze nel tentativo più che fallito di parlare, di ciò che la realtà degli uomini comuni nasconde, esagitato e aggressivo quanto certi vecchi disastri delal Wertmuller e di Petri". Senza appello, eppure Steve diceva che gli era piaciuto, ma Fofi, inappellabile: "Mutazioni, non metamorfosi" e quindi archiviato con marchio di infamia.

Però si riprende con un'alzata d'ingegno che sfocia in un'invettiva contro i "criminal-chic della confindustria, che usano il sottosviluppo: il destro viene offerto da Placido Rizzotto, "un capolavoro mozzafiato che fa diventare moderati di estrema sinistra tutti quelli che si accostano a questa 'sacra rappresentazione' in lingua non ammaestrata" e a questo idioma in cattività si aggiunge ilriferimento a Pete Seeger - dimenticato da almeno un ventennio - per introdurre la presenza di Otello Profazio (incredibile cantore in venti quadri della nostra adolescenza). L'ultima indicazione dell'articolo di Silvestri è un apparentamento tra Brother di Kitano e Ghost dog: " La cosa che più impressiona è quella foto dell'ufficio della gang di Yamamoto: i campi di concentramento per nippo-americani." Che furono oggetto di un film con Dennis Quaid, redivivo anche lui in questi giorni.

Adriano Boano e Marcello Testi

2 settembre

Prima di tutto, un allarme: l'ex-parecchie-cose Oliviero diliberto (no, non è un omonimo) sta scrivendo un libro su "Storia del western all'italiana come metafora del Sessantotto".

Mariuccia Ciotta spezza una lancia in favore di Altman, bistrattato dalla critica per la superficialità come ai tempi di Pret-a-porter, dicendo: "I film misogini potenziano le donne, ne fanno mostri e streghe, dark ladies, insensibili al sesso, mangiauomini. Laura Dern, una per tutte, è una fatina sui trampoli, una squinternata riccona leopardata, innocua come una bollicina del suo amato champagne, e le tre figliolette in tutù e fiocchi vari sono già consumatrici del grande mall." La redattrice del manifesto esalta la lunga sequenza iniziale: "Le donne hanno preso possesso della terra, e ne hanno fatto un'immensa cerimonia nuziale, dove gli uomini assistono, chiusi inun ghetto di loro invenzione". La metafora della cerimonia nuziale è da tenere a mente per il gran finale del film di Altman, che è perseguitato da una parolina che non si è mai disgiunta dall'autore di America oggi: 'vetriolo'; pure la buona Mariuccia non la lesina per "il ginecologo che guarda dentro le donne ma non le vede". L'introduzione nel corpo è anche pratica del film L'Isola: probabilmente specchio di un rinnovato rapporto somatico della body-art cinematografica. Il pezzo della giornalista termina genialmente con uno spoiler da antologia: "É l'alba dell'umanità, tutto ricomincia daccapo, la rivoluzione è un pranzo messicano". Nuziale o di gala? Bisognerebbe chiedere a Leone, ma alla Biennale con i morti funziona male.

Infatti non si placa la polemica di Diletta D'Andrea sul trattamento riservato al defunto marito (che per fortuna "ignora" il casino che si sta facendo attorno alla sua salma). Barbera ha un bel ribadire ad ogni telegiornale che è prevista fin dall'inizio una cerimonia conclusiva all'insegna del ricordo di Gassman: tutto inutile. Villaggio, come sempre tronfio e inopportuno (quanto la pubblicità che lo vede in questi giorni approntare una partita a base di birra e rutto libero rovinata dall'ordine di vedere un film cecoslovacco con i sottotitoli in tedesco, spot per il quale si dovrebbe chiedere scusa alla cinematografia cecoslovacca), esagera al microfono del solito scandalistico TG5: "Era meglio dedicare tutta la mostra a Gassman". Tornatore, interpellato - non si conosce il motivo dell'importanza del suo parere - limita la sostituzione alla retrospettiva: bisognava buttare via Clint (un libertario è comunque fastidioso e fuori moda) per fare spazio a una personale di Gassman. Cosa che sta già facendo egregiamente il terzo polo: su Tmc scorrono tutti i Brancaleone possibili e immaginabili. Ma allora perché non dedicare l'intera mostra e tutti i festival futuri dell'anno a Victor Cavallo, morto a dicembre, quindi prima di Gassman e dunque con il diritto di precedenza sull'illustre - e conosciuto - cadavere del mattatore? O dovremmo accontentarci di Estate romana?

Ciotta poi propone un altro vecchio di questa edizione geriatrica: il suo intervento è incensatorio (sotto ogni punto di vista, anche e soprattutto quello da cappella votiva). Di nuovo aleggia su Palavra e utopia lo spirito di un ennesimo vecchio ("Un film che piacerebbe molto a Straub, e dove la realtà ha l'angolazione di un occhio violento e immobile"). ciò che si evince dalle parole di Mariuccia Ciotta riporta a galla la vexata quæstio rimasta irrisolta e sospesa sulle nostre pagine dalla recensione di Rien sur Robert relativa al cinema di parola vs il cinema di immagine: Padre Antonio Vieira era stato "imprigionato e privato della "Parola attiva e passiva" dalla Santa Inquisizione. Chissà se è stato beatificato insieme a Pio IX. Probabilmente l'organizzazione (grazie, Marzia) ha voluto che il vecchio regista si immedesimasse con il suo protagonista e lo ha privato della "traduttrice attiva e passiva" dal portoghese e così ha dovuto arrangiarsi con il francese, in fondo anche il suo personaggio si esprimeva in sette idiomi diversi: "L'ultimo dei miei attori cambia l'accento di Vieira che da portoghese diventa brasiliano, anche perché lui, vecchio, decide di non voler morire in Portogallo", chissà se riusciremo ad apprezzare la sfumatura o se il doppiaggio massacrerà il film di parole, che sembra un'ulteriore prova da parte di De Oliveira per prepararsi alla propria morte?

Silvestri, l'altra anima del giornale di via Tomacelli, nega al regista coreano l'etichetta che si era auto imposto di melodramma e lo definisce "Horror di amore e morte affascinante, quasi uno Psycho rovesciato e raddoppiato nel dolore" e prosegue dettagliando tutte le parentele con Hitchcock. Il regista di Vertigo viene scomodato pure dal TG5 che a proposito del film di Harrison Ford e Michelle Pfeiffer (solo dopo veniamo a sapere che il regista è 'soltanto' Zemeckis) ha forti parentele con Hitch, poiché narra di "una donna perseguitata dal fantasma della prima moglie di Harrison Ford, morta in circostanze misteriose" mostrate con dovizia di immagini, che non glissano nemmeno sulla scena probabilmente più interessante per il pubblico da divi che si digerisce la massa di parole diffuse con superficialità dalle tv: la trasformazione con tecnica digitale (come se il montaggio fosse ancora una tecnica artigianale da moviola di Mastroianni, fratello) della bella ma quarantenne Pfeiffer con l'avvenente prima moglie (che non si chiama Rebecca, ma di cui non mi ricordo il nome tanta è la profusione di informazioni).

Comunque Silvestri, dopo aver gigioneggiato da par suo ("amo/non amo"), tanto che riesce a sorprenderci con la definizione 'ready made cronenberghiano' riservata all'amo, inventa un "tipo aureo di splatter, più non vedi, più ti lacera dentro", chissà se Ejzenstein approverebbe questa applicazione della sua analisi della sezione aurea? Poi, non pago, accenna al Sade di Jacquot solo per abbandonarlo subito e caricare ulteriormente l'estremismo del film di Kim Ki-Duk: "Tra quello che fai e quello che dici e quello che scrivi (o giri) avrebbe detto il marchese de Sade di Fieschi-Benoit Jacquot, non ci sono relazioni di similarità, ma se vuoi simulare artisticamente l'anima delle migliori emozioni tue, devi andare molto al di là dei limiti estremi. Non si può essere democratici di sinistra o di destra nell'arte, bisogna essere rivoluzionari". A temperare questa apodittica e sottoscrivibile affermazione giunge nell'articolo di Niccolò Menniti Ippolito una frase virgolettata del regista coreano, poetica spiegazione del ready made di cui sopra e che assegna liceità all'ipotesi di metafora avanzata da Silvestri con la situazione di divisione delle due Coree: "Gli ami da pesca vengono usati due volte per il suicidio perché il film è ambientato in un luogo di pesca, ma anche perché un amo è la metà esatta di un cuore e dunque queste due persone che ossessivamente si amano si trovano riunite da questi ami".

Consigli per gli acquisti: evitate le pagine sulla Mostra del Corriere della Sera, in quanto non contengono alcuna indicazione pertinente ai film che non sia banalmente legata al soggetto dei film stessi. Su uno dei principali quotidiani italiani, giganteggia il risalto dato ai lamenti del clan dei Gassman (e non si sa se siano peggio le loro pretese altezzose o le ridicole risposte della Biennale - comunque, lo spettacolo è patetico). Tanto per avere un'idea del clima, la penna autorevole di Kezich ci informa, in prima pagina, che ha da poco avuto il privilegio (parola sua) di partecipare a un incontro su una terrazza vicina all'abitazione di Gassman. Che culo! Ma Kezich è anche un critico e se ne ricorda nelle pagine interne, in cui, per giustificare il fatto che abbia amato i film di Altman e De Oliveira, regala ai lettori un pensierino così formulato: "capita che l'"amour du cinéma" ti consenta di amare una cosa e anche il suo contrario".
L'approfondimento psico-sociologico viene affrontato anche dal regista M. T. Giordana, intervistato, che si lancia in una fotografia improbabile dei giovani papisti recentemente marcianti su Roma e si bea (beato solo lui) perché "Fra chi applaudeva l'altra sera [alla fine del suo film - ndr], c'era anche Vittorio Sgarbi."
Nella stessa pagina, Maurizio Porro, ci informa che "You can count on me" è un film "deb" e che Kenneth Lonergan che l'ha diretto è un autore "deb". Dormiremo più sereni quando qualcuno ci avrà spiegato il neologismo.
Per il resto, le due pagine del Corriere sono concentratissime sugli svenimenti in sala, più in generale sulle aggressioni che taluni film ("L'Isola", "Denti", perfino il Mr. T di Altman) perpetrerebbero nei confronti della sensibilità del povero pubblico sprovveduto. Per finire, una bella intervista tipo-EvaExpress con Michelle Pfeiffer, con il tentativo malcelato di seminare zizzania tra CatWoman e Sharon Stone.

Secondo allarme: è stato presentato a Venezia un libro dal titolo "Giovanni Paolo Secondo e il Cinema".

Più conciso e forse efficace il Giorno, che dedica solo una pagina di cronache a Venezia: finalmente un paio di inviati che parlano di film non impantanandosi nella mondanità e nella mera perifrasi narrativa. Sergio Danese affronta i primi film in concorso con piglio, se non proprio analitico, almeno attento a diversi aspetti formali delle opere. Andrea Martini bacchetta Garrone colpevole di lesa imitazione di Cassavetes e lo rimanda ad allenarsi per arrivare più pronto la prossima volta (la metafora calcistica è di Martini); inoltre, esalta "Tutti famosi", fondamentalmente perché è una commedia e non ne poteva più di sermoni e amori più o meno contorti.
Giampaolo Pioli si prende la responsabilità di difendere i film attaccati altrove per le loro crudezze e sentenzia (poco convincente): "I giovani del festival [??? - ndr] amano le provocazioni e accettano anche i pugni nello stomaco". Giovanni Bogani, con la freschezza di un dodicenne, descrive così Samira Makhmalbaf: "E' bella come un'attrice, ma è una regista".

Del film coreano si occupa anche il TG3, ma solo per riportare la nuda cronaca degli svenimenti e delle interruzioni.

Poi la testata della terza rete considera il Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca, "vicenda emblematica della Storia della Sicilia" che si somma all'intreccio messo in scena da Giordana sulla vita di Peppino Impastato. Bella un'affermazione contenuta nel servizio: "C'è nella terra di Sicilia, nelle pietre, la stessa nodosità di Pizzotto: la Sicilia non è solo mafia, perché nessuno all'estero, quando rivelo di essere siciliano mi dice: "Ah, Pirandello!"?

Adriano Boano - Marcello Testi

31 agosto

Da una intervista a Marco Tullio Giordana:
"Volevo mostrare essenzialmente una figura di ribelle, uno di quelli che non si piega di fronte alle cose, che rifiuta ogni omologazione. Mi è piaciuto scoprire nella stanza vera di Peppino Impastato una libreria con tutte le opere di Pasolini, con i libri di cinema, molto simile alla mia e mi piaceva pensare che prima venissero Pasolini e il cinema e poi la politica".

Asserzioni di Gere sul film che ha interpretato per Altman:
"Altman è sempre sopra le righe, come Scorsese, come Bunuel, ed è così che va letto il film, non certo in modo realistico. A me ricorda da vicino Il fascino discreto della borghesia".

Invece, all'opposto (e non a caso all'inverso di Straub, come rileva Silvestri, rimarcando la frase del gesuita), il prologo di Estate romana di Matteo Garrone:
"Perdere autonomia per acquistare libertà"

Dopo l'attenzione a materie tipicamente progressiste, come in positivo il film di Giordana (salto indietro nel tempo: nostalgico?), o in negativo, come Guediguian, la mostra si dà un momento di ripensamento anche forse spirituale.

Di padre in figlio, poco conosciuto dal pubblico è stato proiettato ieri sera in omaggio a Vittorio Gassman: si tratta di un film realizzato tra il '76 e l'84 e documenta
il rapporto del mattatore con i figli, in particolare con Alessandro.
(unica informazione di Radio Superit Notizie)

Inaspettata e dura polemica della vedova di Gassman. Diletta D'andrea ha detto di essere stata allibita dal film e dice che si aggiunge amarezza ad amarezza per il fatto che ieri era il compleanno di Gassman. Barbera difende fino in fondo la scelta dicendo che non si tratta di collocazione, ma di contenuti.
(GR1)

Prima del festival si diceva che i 4 film italiani in concorso erano brutti, ingiustamente poiché nessuno li aveva visti: invece I Cento Passi è stato applauditissimo.
Un'altra pellicola sugli anni settanta. Il pubblico seppure ha [sic] gradito, ha la stessa sensibilità di allora a cogliere e fare proprie le ingiustizie?
Kitano è fuori concorso, mentre stasera Raitre trasmette Hana Bi, vincitore tre anni fa a Venezia, e si mette a parlare di yakuza, dicendo che è sorta nel dopoguerra diventando ora una vera potenza
(Massimiliano Strani, GR1)

Dr.T è stato seguito da un professore sul set. Anche Gere ha visto nascere un figlio, il suo.
Oggi: Palabra, un prete perseguitato dall'inquisizione. Di De Oliveira.
(Radio Capital)

Franco Dassisti
Scende in campo Gere. Commedia brillante senza pretese d'autore ma con un potenziale commerciale elevato.
(Radio Margherita notizie. Altman non è neanche nominato)

Crespi a Hollywood Party
sul film coreano: "Un film molto sanguinolento, molto parlato, grottesco. divertente". Rimpallato dal più preciso Steve Della Casa: "Affascinante: si svolge 'in' un lago, attorno alla figura di una ragazza, con scene surreali, che insidia un uomo in fuga. Un film nel quale 'immergersi'. La ragazza ha qualcosa di soprannaturale". Ed è esattamente quello che il regista, interpellato, voleva: lei parla poco proprio perché queste energie soprannaturali la pongono su un altro piano rispetto agli altri personaggi.
Crespi ritiene che l'aspetto più interessante sia l'ambientazione. Ed il regista rivela che la gente va a pescare in motel acquatici come quelli nella Corea del sud, casupole molto belle immerse in acqua. Infatti quando uno dei conduttori avanza l'ipotesi di etichettarlo come film horror, il regista nega che lo possa essere perché le scene, benché violente, non sono gore e quindi non ci può essere un vero shock e definirebbe la storia un melodramma; anche se una donna è svenuta di fronte alla scena dell'amo che il regista ha voluto così intensa perché conferisce energia al film.
E Tmc ci rivela che Francia e Giappone lo hanno già comprato: [Adriano] andremo a Lione per vederlo? [Marcello] No, lo svenimento delle povere madame (due, secondo Repubblica) assicurerà un ritorno d'immagine che sicuramente qualche vampiro distributore metterà in conto; scommettiamo che lo compra il concorrente di chi distribuisce Sade?

Un siparietto teatrale si impadronisce della trasmissione di radiotre, aprendo alla Banda Osiris i microfoni per riprendere il discorso sul film di Garrone, per il quale avevano fatto la colonna sonora già per il precedente Ospiti. Garrone lavora per istinto, così ha detto alla conferenza stampa. I giovani musicisti ritengono che ciò avvenga per telepatia, poiché non parla, non dice nulla. Steve non l'ha visto

Tranchant il giudizio su Dr.T and the Women: Crespi dice che "ricorda molto Un Matrimonio, ha momenti divertenti e altri poco risolti". E poi lasciano la voce a Gere, che dalla conferenza stampa abbozza "Uomini che soffocano le donne con tropo amore. É un tipo di società troppo ricca e non tipicamente americana". Steve non l'ha visto.

Invece l'ha visto l'inviato di Tmc, neo-terzo-polo. Egli si lancia in un fervorino su come Altman abbia spesso negli ultimi film affrontato alcuni ambienti facendoli a pezzi con il sarcasmo; e anche qui "fin dall'inizio penetra con intelligenza e sarcasmo nell'universo femminile come in Pret-a-porter". Poi per fortuna lascia spazio all'ultrasettantenne (una edizione da repartino geriatrico questa 57° mostra): "Un uomo che ama troppo le donne con un finale biblico, che preferisco non si sveli". Poi, inopinatamente il giornalista chiude con una stroncatura senza appello: "Un film insipido, con una storia che non si vede, dove la cosa più sorprendente è la fuga lesbica della sposa".

Poi Tmc prosegue lo speciale con un altro giovane, sottolineando di lui soltanto l'età: Palabra di De Oliveira secondo loro è al contrario del film di altman così poco superficiale da risultare di "improponibile lettura: appare indispensabile un teologo". E così viene invocato il 'giubileo del cinema'. (A proposito: bisognerà festeggiare in qualche modo il XX settembre, giorno fausto della breccia di Porta Pia. Esiste qualche film che alluda al giorno glorioso in cui si ricacciò il papa re nelle sue stanze vaticane?).

Il TG5, piglio nazionalista, va a intervistare esclusivamente Salvatores e Villaggio con spirito di branco e allora il compagno Salvatores si lancia in una metafora calcistica sulla sua Inter (probabilmente consapevole della propria potenza di fuoco dopo i finanziamenti provenienti dagli allori dell'Oscar, che come la squadra di Moratti ha le polveri un po' bagnate), degna del padrone dei suoi intervistatori, evocato pure dalla chiosa della sua storiellina alla Paolo Rossi, in cui dice che il suo incubo è che l'alenatore lo inviti a "svestirsi e scendere in campo": guarda la combinazione proprio uno degli slogan che hanno creato il mito del nano di Arcore.

Salvatores per Crespi confeziona una Napoli plumbea: "Quasi lynchiana, con colori rossi e blu". Steve non l'ha visto... Perché è andato a intervistare Auteuil, che interpreta Sade per Jacod. il direttore del Torino Film Festival introduce la chiacchierata, dicendo che si tratta di "un film molto di attori, molto teatrale, di atmosfere. Jacod lo rende un ribelle contro tutto e tutti:i nobili e i comunardi, e persino contro la sessualità. Il regista lavora molto con gli attori e dunque ci sono molti primi piani. Ma poi l'attore infila una sequela di banalità.

Compaiono sullo schermo di Telemontecarlo per brevi istanti anche Takeshi che sghignazza emiparetico, dicendo che sono gli stessi yakuza a raccontargli le loro storie che lui continua a mettere in scena (Brother viene presentato domani), mentre Ben Jalloun, giurato, ridicolizza l'improvvido intervistatore, rivelando che in gioventù, a Tangeri, era solito vedere almeno un film al giorno.

Infine TG1 e TG2 allineati sulla storia della polemica dei familiari di Gassman, che hanno contestato un film intimistico relegato in una saletta. Integrale la moglie al telefono: "É un fatto che rattrista, perché un uomo così, che aveva tanti amici al festival, anche oggi Altman e altri, si meritava un tributo più mirato". A breve giro di posta Barbera: "Avevamo già annunciato che ci sarebbero stati due momenti di tributo all'attore scomparso: la cerimonia finale prevede un momento molto commovente, mentre abbiamo scelto questo film, perché esordì a Venezia e lui si mette in scena con grande disponibilità". Mah! Certe uscite del Barbera ingessato o arroccato, in difesa del fortino veneziano, non sembrano nemmeno sue: che coraggio nel "prevedere" un momento "molto commovente"! Significa che all'ingresso saranno distribuiti (magari da uno sponsor) dei fazzoletti carta da utilizzare all'ora x? Mah!

La Repubblica pone Sharon Stone a sinistra del governo: "attacca la Chiesa". La Caselli smentisce di avere fatto una gaffe durante la presentazione, che tanto non ha visto nessuno perche' era su Tele+. La ministra Melandri, in tournée preelettorale, annuncia crediti riformati e finanziamenti a corti e lunghi di qualità (buona questa), non che' a sale d'essai e (indovina un po') sale parrocchiali. La Aspesi, nella prima pagina della sezione dedicata alla Mostra, ci mette una colonna per descrivere la Stone e i suoi allegati (nell'ordine, marito, borse, gioielli, bambino) e ci informa che (notizia certa) "Stone continua a essere il massimo simbl;o dell'erotismo americano". Il proseguimento è puro gossip sul probabile seguito di Basic Instinct senza Douglas, Verhoeven e Eszterhas.

La Bignardi definisce le proiezioni per la stampa "contenute e frigide" e per questo è miracoloso l'applauso ivi ottenuto dal film di Giordana. Poi ci rassicura: le bandiere rosse finali sono "facili e ovvie", quindi possiamo passare ad analizzare le finezze, che però la nostra manca di descrivere, forse per lasciare spazio a dieci righe che stroncano l'altro film in concorso,l'indiano Uttara, accusato di abuso di metafora (la Bignardi in una colonna ne usa quasi una decina e soprattutto approssimandosi alla stroncatura: il furore acceca).

Secondo Nepoti (sempre Repubblica), il film di Guediguian "rifiuta le illusioni senza invitare mai alla disperazione": solo un soggetto in coma è capace di tanto equilibrio.

Kitano, intervistato, rinnega Johnny Mnemonic (ripensaci, Beat - ndM), rivendica la tradizionale coppia formativa padre-figlio e annuncia un soggetto un po' Buñuel e un po' Kurosawa per il suo prossimo film.

Adriano Boano - Marcello Testi

Archivio:
1998 - 1999

 

 

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