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57ª Mostra Internazionale del Cinema
di Venezia

In occasione del Leone d'Oro alla carriera di Clint Eastwood

I ponti di Madison County

Se la fascinazione che promana dai luoghi e dalle cose, e raggiunge gli uomini, ha un senso, I ponti di Madison County svolge questa funzione a meraviglia, ma nell’ambito di quel rapporto tutto particolare che film e libri dell’America intrattengono con il loro scenario ambientale. Un rapporto in cui la natura si fonda con l’elemento umano, a sua volta composto dalla presenza fisica dell’uomo (in particolare delle masse) e dalla presenza dei suoi manufatti, delle sue creazioni che si sovrappongono e si integrano con la natura. Prendiamo a esempio tre momenti, tre lunghe sequenze di Underworld. Don DeLillo dà prova di straordinario virtuosismo nel descrivere, prima ancora che nel narrare, tre ambienti indimenticabili in cui il dato geografico-topografico-scenografico vive della presenza umana e del lavoro umano. L’apertura, con le 50 pagine sullo stadio gremito di folla per l’incontro Giants-Dodgers; subito dopo, la valle desertica in cui Clara Sax ha allestito la sua smisurata mostra permanente di B-52 ridipinti; il palazzo, infine, sede degli squatters bambini dove si riflette nei muri e nei murales il dramma di Esmeralda. Ma potrei pensare anche agli straordinari sfondi dipinti nei romanzi di Cormac Mc Carthy, e di lì andare a praticamente tutto John Ford.

Ora, i ponti coperti di Madison County soffrono proprio della mancanza di questo dato; sono abbandonati o quasi, solitari, ben conservati, ottimo reperto per un servizio da National Geographic, ma condizione di essere vivificati da qualche storia. Tale è in genere infatti l’approccio della rivista, che non fa geografia pura ma fa geografia umana, specialmente quando tratta di U.S. Probabilmente l’Europa ha un rapporto diverso con il proprio paesaggio, andandovi a cercare primariamente la stratificazione, il retaggio dei secoli e delle culture, l’universalità. Un approccio che non mi sentirei di disconoscere, ma che è diverso da quello americano.

Questa necessità, questa urgenza, dà a tutto il film la tensione che lo percorre, non diversamente da Potere assoluto, Gli spietati, Il cavaliere pallido oppure Honkytonk Man. Non ci si faccia trarre in inganno dall’argomento e dalla vicenda: non è perché siamo nel romantico (e al limite nello strappalacrime) che Clint rinuncia alla tensione e allo sviluppo drammatico. Non sono indispensabili i toni cupi tipo Il postino suona sempre due volte: anche un dramma a modo suo sereno e solare come quello del fotografo e di Francesca-M. Streep si carica di incertezza, di pathos e di ineluttabilità. Cosicché nel momento topico che avviene, anche questo americanamente in cucina (non sotto forma di amplesso sul tavolo — ancora il Postino di Rafelson — ma sotto forma di ballo lento al suono della radio) viene fuori la lezione di Sergio Leone: si possono abbreviare, tagliare, sintetizzare tutti gli sviluppi drammatici e tutti i tempi dell’azione nel corso del découpage, ma non un momento come la canzone che funge da scatenamento del desiderio. La canzone tutta intera dura 6’; Clint e Meryl Streep stanno allacciati a ballarla per 3’30". Questo si chiama tempo reale. E noi ce la sorbiamo tutta, come l’agonia di chi si è preso una pallottola in duello. Poi i tempi possono di nuovo restringersi e l’ellissi può trionfare dove meglio si crede.

I ponti di Madison County è quindi un film sul tempo: quello che si ricostruisce con le lettere di Francesca ritrovate dal notaio, quello che passa tra l’incontro Robert-Francesca e gli anni che seguono, anni di ricordo e di rimpianto, quello delle ore passate insieme rievocate in un flash per la strada, un pick-up nei garretti dell’altro, con Clint che appende al retrovisore il girocollo; tempo e ciò che sopravvive al tempo; tempo vissuto nei fatti e rievocato nell’intimo; tempo del destino, da cui Clint si defila; tempo dell’impossibilità e della negazione: come dire un cantante tisico.

Alberto Corsani

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