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CULTURE NEL LORO AMBIENTE



Le proiezioni che sono riuscito a vedere quest'anno all'interno della rassegna torinese di cinemambiente (quinta edizione) aderivano a una caratteristico côté antropologico: forse l'egida dell'impegnatissimo e onnipresente Ivens, sempre pronto a cogliere - non senza retorica - le manifestazioni che connotano etnie diverse nei loro momenti in cui la tradizione subiva evoluzioni, contraccolpi, impatti dovuti a tecnologie (Komsomol), conflitti (The 400 Million), sviluppo drogato (L'Italia non è un paese povero), ha condizionato la mia visione: passare dal technicolor - che oggi appare una stampa d'antan in quadricromia - di Before Spring al sogno in quadridimensione africana di Le Rêve plus fort que la mort del massimo etnologo con la macchina da presa vivente (Jean Rouch) accentua la vertigine etnografica, ammantando di strutturalismo anche De l'autre côté di Akerman, paradigma presente sicuramente nell'immaginario filmico dei connazionali Dardenne; sia chiaro che non è un giudizio negativo quello espresso con il termine "strutturalista". Come voler bollare con un'etichetta non più tanto à la page l'intera operazione, anzi: in un'ottica post-strutturalista è persino avanzatissima la composizione di Le Rêve plus fort que la mort, summa e consuntivo di tutto il cinema di Rouch.
Ma persino le produzioni della Zenit, rinomata ditta torinese di video, documentari e alfabetizzazione scolastica, assumono un'aura antropologica pari al film sudafricano da loro prodotto poco più di un anno fa, anche se i cinque film narrano di particolari pratiche locali. Non si tratta soltanto di respirare la stessa aria dei tanti film indiani presenti in rassegna, ma l'argomento ambiente comporta ormai uno spostamento in un universo parallelo, come quello abitato da antiche etnie visitate da antropologi alla Malinowski, che si impastano il pane in casa e adoperano la bici per i loro spostamenti, "triciclano" oggetti, ma soprattutto inscenano riti tribali su due ruote trasgredendo alla prassi motoristica. A Torino! inaudito, selvaggio, troglodita, da esorcizzare attraverso analisi di costume che possano collocare sotto qualche etichetta il fenomeno di "massa critica", annullandone la portata ribelle. E invece i cinque video curati dalla Zenit per conto del Laboratorio per l'educazione ambientale della provincia di Torino - forse grazie al filo rosso offerto dalla presenza della bici in tutte e cinque le produzioni inserite nel progetto come categoria dello spirito liberato - diventano scenari di esistenza sostenibile senza auto, senza sprechi, limitando l'inquinamento, rifiutando il Tav, ma soprattutto negando con la gioiosa "massa critica" la centralità dell'auto proprio nel momento in cui Torino viene chiamata a una modifica antropologica, al divorzio dall'automobile come orizzonte produttivo. Di nuovo una trasformazione etnografica e nuovamente legata a scelte traumatiche per l'ambiente.
Gabriele Polo nell'ultima pagina del manifesto del24 ottobre 2002 espone una lucida tesi sulla città, a partire da Minority report e da quei modellini di città in tutto simili a quelli del Quinto elemento di Besson, scomodando anche Metropolis. ma non tiene conto che i vaticini di Lang potevano riguardare la nostra epoca, che è già satura - e anche un po' stufa - dello sviluppo su base automobilistica e il soggetto antropologico attuale riesce a immaginare la sua vita senza un "involucro metallico - o in qualche lega - costruito e venduto per rispondere al bisogno di movimento delle persone": quella necessità può trovare soddisfazione nelle pedivelle della massa critica di A ruota libera cancellando con una rivoluzione improvvisa gli ingorghi di auto. Quell'azienda che ha sfruttato più di una generazione torinese non lo ha fatto solo (come nel mio caso) vessando quelle generazioni di subordinati per tre quarti di secolo con un assolutismo autoritario esercitato dietro recinti controllati da kapò-guardioni, ma ha operato con ferocia anche sull'immaginario collettivo e senza pietà sull'ambiente, rendendolo cortile di quella caserma, che a menti sane non può che far cogliere la fine dell'era Fiat (cioè un insieme di incapaci dirigenti intenti a distruggere le capacità produttive di maestranze capaci, ma ormai non più combattive perché consapevoli della insipienza dei vertici e quindi nella lucida disamina di Polo, non più in grado con il loro entusiasmo antagonista di apportare quella "spinta che il conflitto operaio ha sempre offerto allo sviluppo della Fiat, perché il declinare della multinazionale torinese è anche l'appanarsi del conflitto in fabbrica") come una paventata e attesa liberazione dal giogo.
Questi cinque brevi video sono una prima testimonianza che si può organizzare una comunità ai piedi della mole anche senza Fiat. Imponendo un sistema diverso di locomozione, più umano: la bicicletta è una rivoluzione antropologica. E anziché l'incubo dickiano di Spielberg, riconvertiamo le linee, dedicandole a produzioni finora negate per le pressioni di lobbies e finanza: costruiamo beni di cui abbiamo davvero bisogno... e non disperiamoci: è un'occasione per affrancarci dalle scelte di un'autocrazia potentissima che dalle lotte anarcosindacaliste del 1911 (anno dell'esposizione universale, praticamente le olimpiadi della tecnologia) e dal biennio rosso non ha più trovato reali opposizioni alternative propositive, se non quel decennio luminoso, che prese il via dal sessantanove per venire azzerato dalla finanziarizzazione dell'industria, sottratta del tutto e definitivamente al mondo del lavoro. Con le conseguenze della trasformazione antropologica
Curiosamente il festival quest'anno si è fatto più attento agli aspetti più scientifici, lasciando agli indiani o al giapponese vincitore (God's children di Shinomiya Hiroshi) gli aspetti impegnati sui temi più classici dell'ambientalismo, preferendo sconfinare nel "contorno", andando a perlustrare i terreni in cui l'ambiente è presenza che congloba aspetti più marginali, con un'attenzione scientifica particolarmente ammantata di etnografia, quasi che si volesse ribadire che l'ambiente interessa a discorso cinematograico in particolare quando entra in gioco il fattore umano; e non a caso molti film che compaiono sul catalogo di "Image et Science", manifestazione a vocazione scientifica in corso contemporaneamente a Parigi, vengono contaminati dal bisogno di invadere il campo tipicmente ambientalista. E chi meglio di Rouch può incarnare l'attenzione etnografica all'uomo con la divulgazione scientifica?

Le Rêve plus fort que la mort
Regia: Jean Rouch e Bernard Surugue
L'inizio del film può provocare due reazioni, entrambe invogliano poco a proseguire: sarebbe spinto ad abbandonare la visione sia chi avesse poca dimestichezza con il cinema di Rouch - che, non dimentichiamo, ha notevoli "responsabilità" nella nascita di un cinema africano con caratteristiche proprie, inaugurando nel 1959 con Moi un noir, un modo di raccontare il continente del tutto svincolato da ogni forma di colonialismo (poi il suo cinema si emenderà anche di quella componente inevitabilmente colonialista nell'approccio antropologico), ispirato a Fanon - e non conoscendo il suo Jaguar del 1967, potrebbe trovarsi spaesato a viaggiare su una decapottabile vecchia e fumante guidata da Damuré (uno dei protagonisti del vecchio viaggio) senza avere nozioni sul "cinema diretto", fatto di documentario, di fiction e di commenti, teorizzato da questo anziano regista che esorcizza la morte dedicando il film all'amico Eric Pide, morto nel 1998, un filosofo con una vita avventurosa che lo aveva portato a Torino sulle tracce di Nietzsche, ispirando nel 1985 il lavoro di Rouch in collaborazione con il Torino Film Festival (Enigma); sia chi invece fosse uno spettatore avvertito, appassionato assistente delle rappresentazioni teatrali che costellano il cinema di Med Hondo, ma anche a quelle sempre diverse intrusioni dello spirito un po' magico assegnato dal cinema africano alla performance (Moustapha Alassane e Oumarou Ganda in Niger, Safi Faye in Senegal, Desire Ecare in Costa d'Avorio sono tutti suoi allievi), e che di fronte alla recitazione in un fantastico greco antico, rispettando filologicamente la metrica, del coro dei Persiani, si chiede quale ragione sia sottesa a un'operazione i apparenza calligrafica. Potrebbe apparire una inutile ripetizione di vecchie pratiche avanguardistiche o addirittura fine a se stesso esercizio di stile, fino al classico coinvolgimento dei Ghanesi.
Resistete.
Dal momento in cui le frequenti intrusioni dell'africanità irrompono nel testo classico, quando le commistioni di lingue gradualmente sostituiscono il greco antico e le immagini staticamente teatrali di Dario lasciano il posto alle mucche di Tallou, il film si rivela un testo originale, un'indagine spettacolare affrancata da regole o deja vu, una serie di commenti naturali che scaturiscono con grazia dall'atteggiamento rilassato di Rouch (che "segna" con i suoi commenti le sue pellicole, quasi a voler far emergere il ruolo dell'antropologo analista contemporaneamente all'opera sul campo), ormai parte dell'ambiente africano, che lo coccola, gli fa tenere a battesimo l'ultimo dei 150 figli di Lam in un intreccio di vita reale e tradizione orale, marabutti narrati da un griot bianco, ispirato da Eric Pide: una presenza che legittima le lunghe sequenze in cui viene rappresentato in Le Rêve plus fort que la mort il risveglio di Dario da I Persiani di Eschilo. Infatti Pide era un nietzscheano studioso di classici, così coinvolto da ideare 48 performance nei café parigini ispirate a un tema (Variations dionysiaques sur le thème "A quand Agamemnon?" de Philippe Brunet) che Rouch a metà film esplicita comparendo in scena, spiegando che intende con questo orginale prodotto sottolineare la inevitabile vittoria della visione dionisiaca (già in un altro grande vecchio: De Oliveira) per natura soggetta alla trasformazione. Ma quella e altre influenze consentono di accumulare l'universo di riferimento in quell'ostico inizio, dove si accalcano i temi, si esprimono in un linguaggio conosciuto a tutti i possibili fruitori dell'opera i concetti che si vogliono esprimere. Poi si alternano francese, wolof, greco, ... infinite lingue in lenta processione di mediazione verso riferimenti locali, puramente tali che si riescono a cogliere e acquisire nella loro pregnanza, perché non vengono lasciati cadere dal nulla, ma entrano in relazione con la semantizzazione messa in atto nella prima parte, con la tradizione occidentale eschilea, da noi ben conosciuta e quindi più facilmente riconosciuta. In ciò si risente della lezione strutturalista, ma applicata in questo modo non risulta schematica, non appare coercitivo adeguamento di una cultura a quella dominante, perché al limite quella che emerge con più forza è l'espressione culturale che si avvale di tutta la seconda parte del film per esprimersi e raccontarsi; semplicemente si possono collocare i tasselli nei cassetti aperti dalla rappresentazione - eseguita nelle prove dello spettacolo da africani chiamati a interpretare e non solo tradurre il testo - dei Persiani. Quelle citazioni, quei grandi fiumi (il Niger, quello stesso di Ola Balogun), gli incantesimi soghaly attraversati da armenti che intrecciano le tre storie facendone un'unica epica; il genio del campo e i bastoni consacrati, sono tutti parte di un grande sogno che sconfigge la morte in un processo di palingenesi ineluttabile, come il riso spazzato via dall'inondazione ma destinato a venire ripiantato e riapparire.
E allora quella che cominciava a delinearsi come traduzione dalla lingua occidentale della culla greca diventa versione e interpretazione, finché la nuova lingua produce un torrente di storie ed elementi naturali che diventano pretesti di mitopoiesi incantatorie, come l'offerta del bianchissimo latte depositato tra i flutti del fiume, una ciotola che vada con pace e prosperità; oppure il capretto sgozzato con il suo sangue che sgorga nel fiume, arrossandolo: situazioni conosciute, viste moltissime volte, e che proprio da quello desumono una autorevolezza di affabulazione che compete con I Persiani, li equivale e si candida a essere più adatto a quell'ambiente in cui è inserito. Lam Ibrahim (altro protagonista di quel Jaguar, giovane ritratto di un continente in cambiamento) muore, nonostante lo stesso quantitativo di libagioni e offerte che già furono consumate per Dario... e documentate nelle tante cerimonie della setta Hauka di Les Maitres Fous (1954), zeppo di trance, marabutti e consulti divini, invenzioni teatrali che suggestionarono Jean Genet e Peter Brook. E sicuramente Sissoko gli è debitore per La Genese, perché gli intenti e i risultati sono gli stessi.

SCENARI DI SOSTENIBILITÀ

Regia: AAVV coordinati dalla Zenit
di Marcella Alibrando, Cristina Amione, Massimo Bianco, Giulio Caresio, Armando CAsetta, Massimiliano Carino, Nadia Di Noia, Monica Falco, Stefania Fucini, Cristiano Furriolo, Cristina Legovich, Barbara Magnani, Diego Prato, Elena Proietti Mercuri, Irene Mortari, Paolo Orecchia, Lua Romanelli, Marco Savio, Cinzia Zonedda

Forse inconsapevolmente i ragazzi, coordinati da Sergio Fergnachino, coinvolti dall'iniziativa della provincia di Torino, che ha messo a disposizione i mezzi per produrre cinque cortometraggi a tematica ambientale, sono andati a scovare momenti di emersione, spesso privati e individuali (anche quando sono "critiche" di "massa"), di quel tentativo di "imporre un sistema diverso a chi ha gestito quello dell'auto e, magari, oggi si prepara a chiudere le fabbriche perché ha perso la guerra del mercato e si accontenta dei profitti della finanza" (G. Polo).
Caratteristica comune è quella di individuare un testimonial, una guida, una sorta di Virgilio che accompagna la telecamera e la introduce in questi mondi paralleli: un migrante nero per il Cisv, organismo cooperativo volontario attraverso cui opera il Triciclo, che viene così percorso nella sua attività di riduzione, riuso e riciclo dei rifiuti (Set Setal); un illustratore dei temi legati allo spreco e alla consapevolezza che ne ha la ggggente, il quale introduce dai Murazzi le interviste a esperti (I.E.); una coppia che si autoproduce alcuni prodotti scovata nella sua quotidianità (Pane e sapone); domestica; un personaggio molto determinato che cocciutamente viene seguito nel suo impegno anti-Tav in un flusso di acque e di treni, di vallate e di degrado (Una valle di veli d'acqua); ma l'apoteosi dell'individuo che si fa massa mantenendo la sua autonomia, che incide sul reale in quanto entità fatta di commistione di uomo e mezzo meccanico puro, eppure riesce a muoversi in blocco unico con molti altri, manifestandosi come traffico: non è traffico alternativo, ma parte preponderante del traffico, epifania ciclica (A ruota libera).
Così la scelta di seguire un giovane nei suoi spostamenti quotidiani sempre in bici, come avviene ormai per una dilagante "massa" di ciclisti, non ancora tutti passati alla schiera "critica", si sposa perfettamente con l'altra sottotraccia di questi film, che prevede quello stesso commento che Rouch riserva a se stesso, una sorta di rimeditazione sia sul testimonial, sia soprattutto sul fenomeno che lui incarna, dimostrando quanto la lezione dello strutturalismo antropologico animi il mondo del documentario, proponendo sempre nuovi sistemi di creazione di quel canovaccio adatto al racconto di una realtà riconosciuta come "particolare", che può interessare il "generale".
Ed è proprio questo percorso che viene ricercato in questi corti, che poi tornano sempre al particolare, mostrando come all'interno di quell'esperienza cresce l'individuo da cui si è preso spunto. Persino nel caso in cui apparentemente manchi questo testimonial (I.E.), dapprima se ne crea uno che estremizza lo spreco, finendo con l'incarnarlo, ma poi rivela il sottile gioco di trasposizione, che sposta quella percezione dal personaggio inventato dall'oratore dei Murazzi su noi stessi attraverso le interviste a consumatori comuni intervistati nei mercati rionali, offrendo una tranche de vie significativa più dei numeri di un sondaggio
Per la "massa critica" questa funzione di commento ed esemplificazione, diventa gioco-forza corale e tutto interno alla massa, che non è organizzazione, ma organismo eterogeneo, che non è movimento se non di pedali e ruote che vanno casualmente in una stessa direzione, che non ha portavoce ma latori di inviti a verificare da sé il gusto di pedalare avendo la ribalda sensazione di poter ribaltare i rapporti di forza con il sistema motoristico: la sensazione di partecipare a una rivoluzione della percezione del mondo e contemporaneamente avvertire un senso di liberazione dadaista derivante dala reinterpretazione di un'attività quotidiana in chiave diversa, perché il mondo la perceisce diversa, in quanto trasformata dalla massa.
Anche l'approccio con il potere è comune: non si tratta di contrapposizione diretta: semplicemente il potere non ha mezzi per soffocare né la massa critica, né gli individui che si fabbricano il pane o il sapone, né chi lotta per la propria acqua contro l'inutile treno ad alta velocità (anche il "nemico" ha caratteristiche simili, una è la concezione dell'accelerazione dei ritmi come principio base di sopravvivenza; una frenesia ora diventata autoreferenziale) e dunque queste emersioni di consapevolezza che una percezione diversa del mondo è possibile e, non solo, è anche più divertente e umano si manifestano senza alcun contatto reale con il potere, di cui si fanno beffe (come la volta che abbiamo seminato i vigili urbani nel caos del traffico perché non potevano passare le barriere contro le auto di una zona ciclabile) senza agire nemmeno nell'illegalità. Lo stesso spirito si respira nel magazzino del Triciclo, dove il video cattura salaci battute, voglia di divertirsi, solidarismo non ostentato, ma praticato con naturalezza.

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