Il mito del reduce si stempera nell'amarezza della perdita di identità riconosciuta dopo l'esperienza con Jean Rouch: Ganda era il protagonista di Moi, un noir ... che barcollando usciva dalla sbornia con una scazzottatura contro un bianco prolungando oltre la notte l'immedesimazione con Eddie Constantine, per ritrovarsi lungo il fiume disilluso con un immaginario trasfigurato dalle relazioni con l'Occidente a cercare una collocazione attraverso l'annuncio del suo vero nome con il ruolo coperto nel film. La contaminazione subita con il contatto bellico e l'incontro con Rouch si evidenzia anche nel vezzo di indicare quali sono le preferenze cinematografiche, i riferimenti che la sensibilità del regista africano gli fa apprezzare e lo fa usando una modalità tipica della nouvelle vague: fa dire alla ragazza che ama i film polizieschi (Lemmy Caution è sempre sullo sfondo) piuttosto che i western.

Nel suo film mantiene la sua nuova maschera, estendendola ai molti reduci: Cabascabo è un modo per dire "capo" e l'io narrante spiega in flashback con i canoni del griot la propria esclusione da qualsiasi società a partire da una parata che prelude a una riunione tra reduci che parlano solo di Indocina.

Ganda riesce in questo modo a trattare tutti i temi che gli stanno a cuore: dopo una scaramuccia in risaia contro i vietnamiti rievoca un surreale colloquio con il sergente (nero!) che in pieno Sudest Asiatico dice ad un nigerino (il protagonista, ovvero il regista nella parte di se stesso) che deve sentirsi in patria, in quanto francese: ce n'è abbastanza per creare problemi d'identità. Il reduce colloca in zona di guerra anche un altro episodio: quello della ragazza della mescita di birra, sono entrambi episodi emblematici e non ancora interiorizzati; per introiettare la propria nuova condizione dovrà concludere con uno sguardo sempre più consapevole e amaro la parabola discendente che vede Cabascabo scendere da eroe, che dilapida i soldi della guerra con donne e conoscenti, fino a dileggiato muratore ferito nel suo orgoglio di caporale. Si sottolinea il cambio di abitudini (l'amico stupisce che beva birra) eppure Ganda ha imparato a diffidare delle tradizioni, come si vede in Le wazzou polygame: dunque è probabile che ancora confusamente il suo cinema proponga una nuova cultura per l'Africa, in grado di elaborare le nuove esperienze. È ancora schematico, ma il racconto è sostenuto da una forte tensione emotiva che trabocca negli sguardi del Cabascabo narrante dai quali si indovina il disprezzo per la propria gente (il paese a cui così fortemente voleva tornare quando si trovava in Indocina) e la risoluzione di andarsene. Quest'ultimo sembra un topos dei film di Ganda: l'esilio è l'unica soluzione per quelli a cui va stretta la statica comunità arcaica, dove - nuovo elemento - ci sono alcuni "caporali" neri che sono provocatori del padrone bianco (e Ganda lo rimarca definendo "bianco" il capocantiere dove Cabascabo lavora), ma la dicotomia lacerante si ripropone anche nel modo scelto per raccontare, dove l'importanza delle figure dei musici esaspera il legame con la cultura del griot, che va rimeditata nelle intenzioni del regista per fondare una nuova cultura, dove si recupera la parabola didattica ed il gusto di mettere in comune le esperienze fatte attraverso una forma moderna di racconto orale

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Cabascabo
Anno: 1968
Regista: Oumarou Ganda;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Niger;
Data inserimento nel database: 24-11-1998


Oumaru Ganda
Visto al

      Cabascabo

Regia: Oumaru Ganda
Fotografia: Gérard De Battista, Toussaint Bruschini
Montaggio: Daniéle Tessier
Musica: Kaka e Dan Baba Ali
Interpreti: Oumaru Ganda, Zalika Souley, Issa Gombokoye, Balarabi, Kaka, Dan Baba Ali, Gerard Delassus, Djingarey Maiga
Produzione: Argos Film e Consortium Audiovisuel International
Formato: 16 mm.
Provenienza: Niger
Anno: 1968 Durata: 45'