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River Niger, Black Mother (Nigeria - 1989)

Il punto di contatto tra i film di Ola Balogun e Adwa, come anche le pellicole di Ousmane Sembène e di molto cinema delle Afriche, seguendo l'espressione preferita da Gariazzo, si trova nella naturalezza degli incontri con il mondo degli spiriti. Rispetto al neorealismo europeo, costellato di emozioni contingenti ad una rappresentazione della realtà interpretata nel suo presente diegetico fatto di fenomeni che devono illustrare il mondo e più in la' dello sforzo di mescolare realtà e magia della tradizione sudamericana, probabilmente derivante dalle influenze della presenza africana, il cinema delle Afriche coniuga mondo fenomenico e realtà in cui vivono gli spiriti, intercambiabili fino alla confusione degli ambiti. Infatti l'intento di Balogun era quello di confondere storia, tradizione e passato dentro le stesse acque del fiume ripreso nel presente diegetico.

In Balogun questo diventa chiave di lettura della storia, simile a quella di Gerima, poiché entrambi hanno l'intento maieutico di far affiorare la memoria attraverso un processo ipnotico fondato sulla riproposizione costante di certe immagini, sulla situazione magica che emerge dal rapporto naturale privilegiato dal legame ctonico che si instaura con il territorio: "La mia anima nelle profondità del fiume", recita la voce sulle onde del fiume Niger, che si trasforma in strumento a corde per tornare ad essere onda solcata dall'imbarcazione chiamata a percorrere il fiume, dove tutto si compenetra in un animismo reale (non come quello delle sette che il regista dileggia poi nel divertentissimo incontro con il pubblico tenutosi l'11 maggio 2000 al cinema Centrale di Torino, durante la rassegna Mondi Lontani, Mondi Vicini).

Il filo su cui la barca compone il suo tragitto passa dall'acqua scintillante, che costeggia città favoleggiate all'epoca delle grandi carovane (Timbuctù, Gao), alla cartina su cui si può seguire il percorso, che fluisce sempre accortamente nella medesima direzione delle immagini che non smettono mai di scorrere, indugiando brevemente sui volti, per poi riprendere la corsa, mai affannosa o torrentizia, verso l'Oceano. Ed in questo ipnotismo le immagini di quei luoghi fantastici e immoti ("La metropoli si trasforma. Le donne e l'amore hanno fecondato la terra") finiscono con divenire quinte sceniche di luoghi che custodiscono e lasciano filtrare la memoria. E a questo punto appare il griot.

Egli avvia un inserto durante il quale si mette in scena un intero mito, quello di Sokono, diretto a mediare il concetto che il ricordo va coltivato: la guerra ha distrutto e creato il Mali.

Nell'incontro successivo alla proiezione Balogun ha sottolineato alcuni aspetti. Una prima suggestione è una provocazione verso la prosopopea occidentale: "L'importante non è solo mostrare il materiale che si è ripreso, ma farlo con una propria prospettiva, il che vuol significare che noi siamo i discendenti di coloro che hanno costruito le piramidi, pertanto la nostra prospettiva è diversa da chi vive ancora nel 2000." Poi comincia a parlare della musica: "Le canzoni del film parlano della tradizione, sono composte alcuni secoli fa e sono deposito della memoria."

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The magic of nigeria (Nigeria - 1993)

É un corto che prende spunto nuovamente dal fiume, dove il legame tra le due vite è ancor più evidenziato dal cimitero: un set per la vita a venire. Rispetto al film sul fiume si respira una maggiore nostalgia ed il rimpianto si fa palese quando le maschere e i costumi si alternano al museo, dove si custodiscono e contemporaneamente si spegne la loro vitalità; inoltre Balogun rimarca la perdita della tecnica per la loro produzione e si sofferma sulla creazione di un bracciale di perline che richiede una minuzia e una maestria rare, sui preziosi vestiti - egli stesso confeziona i suoi indumenti proprio per affermare abilità quotidiane a misura d'uomo che negano il comportamento occidentale - e poi recupera la vitalità e la magia inscenando un teatro di marionette per arrivare alla danza acrobatica. Alle capriole.

E come in sogno si acquisiscono destrezza e capacità, allo stesso modo l'espressione corporea ha molto da spartire con la componente onirica mai completamente avulsa dalla natura. Infatti è importante avere sempre presenti ambo i lati. Infatti il regista dice di questo film che "il modo africano di vivere è quello di una costante attività artistica, che apprende in sogno come si creano i monili di perle".

Il grande cruccio di Balogun che traspariva già nell'incontro organizzato dal Torino film Festival nel 1998 è che gli africani stessi hanno smesso di vedere i propri film. Quindi l'impegno che si è dato è: "Noi dobbiamo spiegare al nostro popolo qual è la nostra musica, la nostra arte. Perché L'Africa non ha più una storia, non c'è più una industria musicale... e non ha più le sue sale cinematografiche" (come si vede anche in Bye Bye Africa). Però non rinuncia a esser un regista compreso da un pubblico internazionale. E allora sta organizzando una rete indipendente per distribuire i suoi film senza disperdere soldi (per ora soltanto in Canada e a N.Y.

La galleria dei suoi registi preferiti è sorprendente ed entusiasmante: Visconti lo incanta per il senso dell'immagine e la musica visiva, Ran di Kurosawa lo emoziona e in C'era una volta il West rintraccia dei momenti in cui vedi una composizione nella azione, un ambito in cui Ford ha già fatto il massimo.

Un'ultima rivelazione ci viene offerta da Balogun, la vera sigla di cui FMI è l'acrostico sotto cui si nasconde il Fondo Monetario Internazionale: International Mother Fuckers.