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Festival Internazionale di Locarno - 1999

La seconda generazione di ‘cormaniani’

Joe Dante, John Sayles, Paul Bartel, Jonathan Demme, Ron Howard, Jonathan Kaplan, Allan Arkush, sono un insieme di nomi di registi uniti sotto il nume tutelare del re del low budget Roger Corman. Registi che fanno parte di quella che viene conosciuta con il nome di ‘seconda generazione di cormaniani’, solo per distinguerla dalla prima, più famosa e leggendaria, formata da cineasti del calibro di Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Peter Bogdanovich e Monte Hellman. Gente che veniva reclutata da Corman per lavorare nel cinema visto che “nessun altro voleva”, come ha sempre sostenuto Jack Nicholson, altra scoperta del lungimirante regista e produttore (l’esordio è del ’58, con Cry Baby Killer, di Jus Addiss). Nomi che in alcuni casi sarebbero diventati personaggi di culto, gratissimi a Corman per aver permesso loro di esprimersi pur rimanendo abbondantemente sotto la soglia delle paghe sindacali e molto al di sotto di quello che poteva essere il budget medio di qualunque, anche scadente, produzione hollywoodiana. Proprio a questa seconda ondata di ‘cormaniani’ il 52° Festival Internazionale del Film di Locarno ha dedicato un’interessantissima retrospettiva intitolata “Classe 1970 - Joe Dante e la seconda generazione Corman”, che ha preso le mosse dalla completa produzione cinematografica del regista di Gremlins e Salto nel buio, per poi spostarsi sulla visione di autori meno conosciuti, ma non per questo meno interessanti, che hanno fatto della filosofia cormaniana una specie di bandiera estetica e linguistica, oltre che pratica. Finanziamenti ridotti all’osso, piani di lavorazione che definire veloci sarebbe un puro eufemismo (A Bucket of Blood di Corman, presentato durante il Festival, fu girato in soli cinque giorni utilizzando unicamente due interni fortemente caratterizzati), gruppo stabile di attori pronti ad interpretare con grande duttilità ruoli diversissimi da un film all’altro, sono queste le caratteristiche a livello realizzativo di quello che sarà conosciuto con il termine exploitation (sfruttamento), ossia un impiego intensivo degli elementi drammatici in funzione della facile soddisfazione pulsionale e scopofila degli spettatori, in modo che questi garantiscano un ritorno economico molto superiore alla spesa utilizzata per la produzione della pellicola. Il risultato scaturito da questa concezione vedeva una serie di pellicole accomunate da alcune specificità linguistiche come la durata relativamente breve delle unità narrative (scene e sequenze), l’improvvisazione attoriale che si limitava a seguire poco dettagliate istruzioni di sceneggiatura o semplici indicazioni di regia, la ricchezza visiva degli elementi figurativi all’interno dell’inquadratura (in virtù di una capacità ‘forte’ di figurazione dell’immagine, attenta cioè a strutturare in maniera sistematica gli elementi circoscritti dai margini del quadro) e dell’assoluta pertinenza di quest’ultima nell’intera catena sintagmatica e narrativa, in grado quindi di far convogliare l’attenzione del pubblico sulla storia raccontata e non sulle modalità attraverso le quali la stessa storia procede. Un’autentica lezione di regia salda e non virtuosistica, assolutamente funzionale alla vicenda, essenziale, asciugata da qualunque orpello. Ligi all’illustre esempio, almeno in una prima fase della loro carriera, i nomi prima enunciati hanno percorso poi sentieri sostanzialmente differenti tra loro, dedicandosi chi all’accurata produzione di consumo sfruttando non comuni doti registiche e narrative (Joe Dante, le cui opere, in linea di massima molto conosciute dal pubblico, sono state superate dall’interesse per altri cineasti meno distribuiti), grazie anche ad un talento innato per il racconto pungente e divertito, sapido e grottesco; chi alla realizzazione di pellicole ciniche e provocatorie (Paul Bartel, tra l’altro presidente della Giuria lungometraggi), che indagano con sarcasmo e mostrano impietosamente il tessuto sociale del paese a stelle e strisce; chi alla duttilità cinematografica (Jonathan Demme), capace di spaziare dal thriller (Il silenzio degli innocenti, Il segno degli Hannan) alla commedia farsesca (Una vedova allegra...ma non troppo), dalla sfrenata avventura (Qualcosa di travolgente) al film d’impegno sociale (Philadelphia); chi, ancora, alla essenziale indipendenza produttiva (John Sayles, anche se Limbo, il suo ultimo lavoro, è prodotto dalla Columbia) in grado di assicurare avvincenti parabole sulla condizione dell’uomo moderno calato in un contesto ostile ed inumano (si pensi a Fratello di un altro pianeta, Angeli armati e alla splendida, mirabilmente intrecciata e colpevolmente sottovalutata vicenda familiare con côté marginalistico-razziale di Stella solitaria); chi, infine, alla commedia musicale apparentemente sciatta e disimpegnata, divertente e piena di scintillanti spunti (Allan Arkush). E proprio Arkush è stato uno dei cineasti che più hanno acceso la curiosità cinefila del pubblico locarnese (quasi una sommossa all’idea dell’organizzazione di interrompere il monumentale The Temptations, nella sala del cinema Rex, per far posto al film di Piazza Grande sfrattato dalla pioggia). Dapprima ri-montatore nella New World di Corman (il suo compito era di montare nuovamente film stranieri per adattarli commercialmente al mercato americano), poi autore insieme a Joe Dante, con il quale si era formato nella New World, del very, very, very cheap (realizzato in dieci-giorni-dieci!), oggetto di culto per il suo modo beffardo di prendersi gioco delle situazioni tipiche dei B-movie, Hollywood Boulevard (1976), Arkush si dedica poi alla produzione di sgangherate commedie musicali (senza nessuna accezione negativa, anzi, da considerare positivamente proprio per l’alto dosaggio di delirio presente in esse) che diventano momenti in cui il cinema si fa coreografia, movimento cromatico dove le linee di forza si animano e vivificano in mezzo a musica rock e a trovate demenziali e dissacranti. Così sono Rock ‘n’ roll high school (1979) e Get Crazy (1983), dove la parodia dei rock-movies e dei suoi protagonisti (in Get Crazy Lou Reed gira tutto il giorno in taxi per cogliere l’ispirazione dalle ‘piccole cose’) rappresenta il motore di una narrazione che non conosce alcuna pausa o momenti di stanca. Ma il momento più delirante, surreale, esilarante ed incredibile arriva con Elvis Meets Nixon (1998), pazzesca storia che narra uno degli episodi meno conosciuti della biografia del ‘Re del Rock and roll’, l’incontro con l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon. Una storia dove gli episodi procedono quasi a valanga, trascinati dallo humour unico di Arkush che, dopo aver mostrato la goffaggine di Nixon ed ironizzato sulla megalomania di Elvis, riunisce i due in un indimenticabile duetto nell’ufficio ovale della Casa Bianca sulle eterne note di My Way.

Giampiero Frasca

Archivio:
1998

 

 

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