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51º Festival Internazionale del Cinema
di Locarno

Aumenta la presenza di Expanded Cinemah nei festival. Quest'anno alla piacevole consuetudine con Taormina, aggiungiamo una presenza più capillare a Venezia e il nostro debutto a Locarno.


Appunti in ordine sparso per raccogliere e non dimenticare i frutti della settimana appena passata a Locarno, per la prima volta da noi di Cinemah. Alcuni titoli citati, li trovate fra le recensioni spedite in tempo (quasi) reale... altrenote.html in un pezzo ricevuto da un amico di Cinemah.

Foto di Sonia Del SeccoDifficile seguire un filo logico, abbiamo già detto come il programma impedisca praticamente di seguire con costanza alcune sezioni; esperienza nuova e non necessariamente negativa, in quanto stimola la formazione di raccordi critici (o la constatazione, altrimenti, di un'entropia progettuale o del superorganico cinematografico mondiale).
Concorso, dunque, fugaci visioni retrospettive e diverse anteprime, anche a ruota o in collaborazione con altri festival (Cannes fornisce molto materiale alle rassegne estive e comunicazione fra Locarno e Torino, per esempio).
Matti da slegare, lavoro collettivo di registrazione della sperimentazione parmense contro e detro le istituzioni manicomiali: prima una galleria di volti e storie interrogate da Bellocchio, Agosti, Rulli, Petraglia; poi il ritorno alla città, all'istituzione prima da modificare e poi da sgretolare progressivamente con le dimissioni. Dalle vicende personali, dagli sguardi, dalle idiosincrasie e dalle voci anche variamente "politiche" traspare il ritratto dell'Italia post-68 ancora in lotta e saldamente ancorata al lavoro come diritto e valore, pur se ancora in gran parte schiacciata da una povertà di cui le vessazioni sui "matti" svelavano (come se il manicomio fosse una metafora strutturale sociale) le colpevoli responsabilità.
Povinnost', confessione contemporanea, ma formalmente debitrice del grande romanzo ottocentesco (non russo, semmai). Anche qui, indirettamente, emerge proprio il verbo più adeguato: un ritratto collettivo che per le sue forme non compiute, per l'azzerarsi delle identità nell'informe e nell'universo concentrazionario di una nave militare; proprio per questo risulta più crudele e disperato.
Un servizio sociale che funziona, invece, per l'esordio (guidato e protetto) di Samira Makhmalbaf, figlia di Mohsen, che con Sib rovescia legalmente un patriarcato che stava rovinando due sorelle di circa dieci anni, da sempre costrette in cattività e senza istruzione, né contatti con coetanei; è proprio la combattiva assistente sociale a forzare la serratura che le condannava e a rivoltarla contro il carceriere, mentre sullo sfondo si prepara l'emancipazione più bella e difficile, quella della moglie. Da esecrare e poi dimenticare il servizio sociale offerto a sua volta dall'austriaco Glawogger, che con Megacities ha distribuito briciole di salario sindacale agli attori della sua tragedia, rubati a una realtà in cui sono stati ben presto rigettati, con l'aggravante di un'esibizione pubblica ignobilmente e inutilmente spettacolare.
Lou Castel
Diavolo sorridente

Ancora Bellocchio, che in pieni anni 80 (e le luci, i volti sono tragicamente fedeli allo spirito del tempo) affonda le mani nei tumulti sentimentali del decennio precedente (Diavolo in corpo), permettendo l'accoppiamento di due prigionieri in aula di tribunale (sullo sfondo, vacue, le parole di accusatori e difensori), lasciando al sorriso nevrastenico di Maruschka Detmers il racconto del disagio più diffuso negli ultimi vent'anni, la paura di non essere amati; fobia che si conferma ancora attualissima nell'escursione hollywoodiana di Kirk Wong (The big hit). Così come attanaglia, con l'aggiunta di una fissità materna del soggetto cui si richiede amore, il bambino protagonista di Luminous Motion, film incompiuto da Bette Gordon, con la complice bellezza di Deborah Kara Hunger, al quale manca un poco di coraggio per sfruttare al meglio una fuga verso il nulla (ma con chiare intenzioni riguardo a ciò che si rifugge), salvata infine e apprezzabile unicamente per l'educazione chimico-sentimentale sfoggiata.

La guerra in casa: la prima parte di La vita è bella, che gli svizzeri non avevano ancora scoperto prima della multiproiezione massiva di chiusura; Kanzo Sensei, celebrazione ribalda dell\rquote impegno e della responsabilità individuale anche nelle tragedie di massa, abbattimento delle caste intellettuali e geografiche, a favore di una cittadinanza senza frontiere (che invece abbiamo quotidianamente attraversato e subìto, certo con meno drammaticità rispetto ai "fratelli" nordafricani approdati in Italia); l'archivio ordinato di Silvano Agosti, voce solitaria per ricordare insistentemente (Trent'anni di oblio) il conflitto non solo come pagine voltate della storia, ma come immaginario ancora bruciante e vivo; la schizofrenia del Giappone contemporaneo passato dal fanatismo imperiale al paradosso di un'assicurazione sulla vita che vale piùdella vita stessa (Ikinai, di Hiroshi Shimizu, pupillo dell'Office Kitano), fattasi insostenibile a causa dei debiti. Guerre intestine, quindi più esposte alla perfidia e al cinismo, ma proprio per questo le opere citate in questo paragrafo meritano lode per averle trattate con il rispetto loro dovuto.

30 anni di oblio

 

Restano da citare i flash, le visioni mancate per sovraffollamento o per lapsus, il manifesto geniale del film di Joe Dante, Small soldiers, non l'abbiamo visto, non c'eravamo ancora, però ha diviso la piazza e irritato Nichetti...(?), il nomadismo sotto il sole più caldo delle ultime edizioni (magari non proprio degli ultimi 600 anni!), coadiuvato da un iniziale breakdown dell'aria condizionata; pubblico straripante in spazi non sempre adeguati, un'ospitalità generalmente buona (l'organizzazione ha perfino ascoltato i nostri lamenti sui limiti della sala stampa telematica); le polemiche (prima, durante e dopo) fra direzione e amministrazione del festival, l'ennesimo ripetersi del conflitto tragicomico tra l'operatore culturale e il cassiere/tutore (ma quando si smetterà di considerare la cultura un bimbo spendaccione, anziché una risorsa? Senza voler fare la lavagna dei buoni e dei cattivi, siamo decisamente dalla parte delle rivendicazioni del direttore).

In fondo, qualcosa per cui vale la pena tornare, no?

 

(Sonia Del Secco e Marcello Testi)

 

 

Dicevamo, qualche giorno fa...



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