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Diari di due prestidigitatori



The Prestige di Christopher Nolan



Nolan adatta la struttura dei suoi film alla materia: sceglie di girare in un ambiente rarefatto (non solo artefatto) Insomnia, perché così attribuisce la materia di cui sono fatti i sogni all'ambiente in cui ha collocato la storia da incubo; ha frammentato in un universo decostruzionista il puzzle di Memento, per restituire la disarticolata sconnessione con la sgangherata esistenza del protagonista, causata dalla sua disarmonica memoria; in Following trasforma il punto di vista dello scrittore - demiurgo della storia - in quello del soggetto, restituendo in questa frequentatissima metafora il rapporto tra i due protagonisti... rapporto deuteragonista che ritorna centuplicato dalle miriadi di specchi narrativi che costellano la costruzione strutturale di The Prestige, che ruota attorno a due concetti fondamentali: la duplicazione di ogni singolo elemento cinematografico (personaggi, situazioni, sequenze, spettacoli... metafore) e il concetto di sacrificio, legato alla totale dedizione a un'ossessione, che è quella del Sistema - destinato a essere catalizzante dell'esistenza e unica forma di interpretazione del reale - basato sul bisogno di prospettare una realtà al pubblico fondata sull'illusione, sull'occultamento del meccanismo che nasconde il trucco, finché per uno dei due deuteragonisti non esiste più il trucco (la svolta), perché diventa tragicamente fenomeno fisico (il prestigio) in cui ogni volta muore un po' dell'illusionista - sacrificio della propria vita con la paura ogni volta di non essere più se stesso l'uccellino fortunato della coppia oppositiva che si va creando ogni volta senza mai incrociarsi (tanto da cambiare identità) -, mentre per l'altro il mestiere è talmente permeato alla vita da condizionarla ed estendere il trucco alla realtà quotidiana (l'intera vita e tutti gli affetti sacrificati al bisogno di mantenere il ruolo), anzi la trovata geniale, il ribaltamento (la svolta) è quella di non cercare un sosia, ma di essere - sempre! - il sosia di se stesso (con un'identità diversa, mai assegnabile precisamente a uno dei due), duplicandosi nella rinuncia a metà della propria esistenza - e rendendo così schizofrenici i partner; un tema quest'ultimo ricorrente in tutti i film di Nolan, dove in genere un elemento della coppia complice finisce con l'immolarsi, lasciando il dubbio che in realtà non sia mai esistito ma sia una proiezione illusoria del protagonista, una incarnazione di un'idea di sé da sacrificare al proprio posto (il prestigio).
Come sempre la progressione lineare della storia impedirebbe di poterne scorgere le infinite sfaccettature e, soprattutto non si potrebbe cogliere "il sistema" linguistico adottato dal regista per tenere in piedi la struttura del film, che sempre viene esplicitato - qui addirittura verbalizzato all'inizio e ripetutamente ribadito (premessa svolta prestigio; premessa svolta prestigio; premessa svolta prestigio...) - perché ci si troverebbe nella condizione degli spettatori che vogliono essere ingannati... invece il regista si rivolge a quelli che vorrebbero scoprire il segreto, quello che non fa colpo su nessuno, poiché tutti sono incantati dal trucco (stolidi che guardano il dito e non la luna), e quindi cerca di darci una chiave, anzi più di una: quelle linguistiche sono affidate a varie forme. Alla duplicazione intrecciata delle situazioni, possibile anche per l'uso del flashback - cifra del cinema di Nolan - a partire dalla enunciazione del criterio a tre step, affidata a un terzo personaggio, una sorta di arbitro non imparziale ma custode dell'etica un po' labile del mestiere (Cutter); alla ripetizione di battute che potrebbero mettere sull'avviso ("Oggi non è vero che mi ami") e che vengono destrutturate dalla conclusione (una volta è piena di speranza: "Rende in una luce ancora più bella i giorni in cui è vero", un'altra volta è il contrario: "Oggi lo pensi davvero, il che rende più difficile quando non lo è", assolutamente speculare) - che ribadiscono quelle tre regole applicate pure nello scambio di battute; all'uso sporadico della citazione, come durante la discesa dalla carrozza di Angier ("Da qui in poi dovete continuare a piedi"), che rimanda esattamente all'inquadratura di Nosferatu di Herzog, con lo scopo evidente di segnalare il passaggio in una dimensione parallela un po' sulfurea, in cui giganteggia Tesla (elemento di una nuova coppia oppositiva: il nemico di Edison), dove ancora una volta i parametri fin lì validi saltano - e questa è la ricerca più originale dell'estetica di Nolan: al costante spostamento dei margini che stabiliscono l'estetizzazione del racconto - lasciando uno spiraglio all'aleatorietà: "Oggi sei tu il fortunato" nel torneo delle gabbiette che stritolano pennuti o affogano umani in una riproposizione della tragedia iniziale - ma di nuovo con un lieve sfalsamento, che getta una luce ancora più inquietante la seconda volta in cui una situazione viene riproposta, dando la spiegazione del motivo per cui si era insistito sulla "premessa"; fino, tornando all'inizio, al destino posto nelle mani di quale dei due sosia in quella fatale sera stringe i nodi che la parte oscura e incontrollabile (Mr Hyde) lega in modo indissolubile, senza che l'altra parte di sé ne abbia coscienza e ricordo (quella schizofrenia anche un po' lynchiana già di Memento).
Le chiavi oggettuali sono rappresentate dai marchingegni ideati da Cutter (Caine), ma anche da oggetti che percorrono l'intero film, come la pallina che accompagna Borden e scandisce tutti i momenti più magici, le vasche con i loro lucchetti letali, gli attrezzi inquietanti che emettono lampi e conferiscono al geniale serbocroato un aspetto luciferino: non sono soltanto funzionali alla storia, ma servono a ricostruire quella Londra vittoriana, ricondurre quelle pulsioni della scienza alla perversione di cui parlava Tesla, che paventava "nulla di buono da quelle ossessioni", se il progresso non fosse stato posto a disposizione del miglioramento dell'umanità... un idealista, a cui si può immaginare di affiancare uno dei tanti borghesi che gli rubarono le idee e i brevetti (non ultimo il fascistissimo Guglielmo Marconi), come Angier, gradualmente privato di ogni scrupolo per conseguire il suo scopo. Infatti un altro aspetto non secondario è che la rivalità tra i due prestidigitatori è anche un antagonismo di classe, oltre a essere un'antitesi di concezioni della vita, pari al deuteragonismo dei Duellanti conradiani di Ridley Scott... e la vera ferocia forse non sta tutta da una parte, come invece la Legge, pronta a condannare a morte il proletario, che anche nella lunga sequenza di tira e molla di spettacoli teatrali contrapposti, quando mette alla berlina l'avversario, lo fa non senza ironia e con il gusto di divertirsi e divertire.
La memoria si trasmette sotto forma di diario, come era successo in Memento, che è la chiave narrativa più metalinguistica, visto che si affida a crittografie personali fatte apposta per attirare il rivale (la svolta) e poi rivelargli l'inghippo (il prestigio), nascosto nella precisa volontà di fargli pervenire i propri segreti e la loro chiave, riuscendo a stupire un altro illusionista, anzi l'altro da sé. E anche in questo caso l'elemento cinematografico si duplica: due sono i diari e in entrambi i casi si rincorrono gli stessi meccanismi del film, che in virtù di tutti questi rimandi raddoppiano le situazioni incastonandole in una serie di scatole cinesi che si specchiano l'una nell'altra, moltiplicando in misura esponenziale le situazioni ripetute che finiscono con la costruzione di un meccanismo infinito, ulteriormente duplicato dal fatto che ogni ambiente ha svariati suoi corrispondenti oscuri: il boccascena nasconde le quinte, ma anche le botole e il sottopalco... e il teatro diroccato dove nascondere gli scheletri - dunque il teatro assume un tale valore che appare l'autentica metafora di queste esistenze fatte di illusioni e mondi paralleli, ambienti con regole sempre diverse a seconda del canovaccio che si va a recitare. Infatti spesso l'inquadratura mostra i personaggi stessi che assistono attoniti, o esterefatti, a meraviglie: di nuovo proseguendo il gioco di specchi interno alla pellicola; il teatro diventa davvero la vita per entrambi, luogo dove vige solo la triplice regola (premessa, svolta, prestigio) unica riconosciuta nella fattura del film, fino a rischiare di far diventare maniera il meccanismo a orologeria del film che a ogni sequenza applica una premessa, seguita dalla svolta e poi stupisce con il prestigio fino alla apoteosi finale.

Come sempre per Nolan la narrazione, frammentaria, procede per singoli tasselli che contribuiscono a formare il disegno evidente solo alla fine, ma sono in realtà sempre progetti totalizzanti e onnicomprensivi: trovare un trucco che lasci di stucco gli altri illusionisti è come stupire i colleghi filosofi con una metafisica inaudita; individuare un paradigma nel mago cinese che si concede un trucco inimitabile: far apparire una vasca di pesci (e anche sulla simbologia ci sarebbe da disquisire a lungo) pesantissima mentre nella vita quotidiana è un esile vecchiettino (o si fa passare per tale). Adottare quell'eroe come esempio significa interpretarlo in modo da conferire un senso al proprio immolarsi all'arte a cui ci si dedica con una totale abnegazione per ridisegnare integralmente la propria esistenza attorno all'illusione trasmessa al pubblico che deve perpetuarsi anche al di fuori della scena; ma soprattutto è colpevole chi ha l'ambizione di vincere la contesa con "il trucco più deludente: l'assenza di trucco", è quella la colpa che perderà Angier. Ciò che lo pone su un terreno completamente opposto a quello del suo oppositore è l'interpretazione della realtà: porsi fuori dai criteri della narrazione è un po' come giocare sporco - che è ben pegio che sporcarsi le mani. Il fatto che non ci sia un trucco che l'intelligenza può svelare, ma solo un'applicazione della scienza, non un sapere narrativo (la magia che lascia spazio all'interpretazione del singolo), ma uno scientifico (la "magia vera" senza possibilità di replica da parte di "uomini che invece vivono camuffando la verità per strabiliare"), oltre a rappresentare il livello del dibattito filosofico a quel tempo, tradisce il presupposto iniziale di rimanere nell'ambito narrativo, dove ci si può sporcare le mani senza che questo produca mostri da affogare ogni sera, ennesima denuncia delle storture positiviste (infatti la vicenda si colloca negli ultimi anni dell'Ottocento), anzi dove le mani riprendono a sanguinare, perché bisogna curare il dettaglio di ogni aspetto che si narra al pubblico e quindi cioncare le mani anche al sosia, all'interno di una disciplina in cui "il concetto di verità è evanescente", fondamentale per comprendere quel doppio giro di valzer affidato a Olivia: la verità in questo campo è previsione: la preveggenza di entrambi, quando stilano i loro diari, pregustando il momento in cui riveleranno al nemico di aver previsto che sarebbe arrivato a quel livello di lettura; la verità è immolare ogni sera il proprio originale affidandosi alla creazione del proprio doppio, immaginando di creare la trappola in cui l'emulo finirà con il cadere, venendo accusato dell'omicidio di una "copia" di sé; la verità è quella sfuggente e comunque sempre vera ("a ben vedere") sciorinata da Olivia, quando viene inviata controvoglia a spiare Borden e gli racconta in una prima sequenza la verità suggerita da Angier, il montaggio poi ritarda la riproposta della risposta alla stessa domanda, dopo che Borden incalza la ragazza e allora questa dà la sua risposta e attorno a quell'episodio s'innesca un balletto che prelude al diverso approccio alla realtà dei due alter ego che impersonano Borden, tanto che una frase fa da perno attorno all'evoluzione del personaggio definendo il momento in cui è contemporaneamente schizofrenico eppure, con lo sguardo estraneo di chi è su un mezzo pubblico, riesce a fondere il giudizio su Olivia dei due uomini che costituiscono Borden: "Credo che stia dicendo la verità, credo che non possiamo fidarci di lei".


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Adriano Boano
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