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Poche note secche sulla tastiera di Polanski



Simon Weil diceva che la guerra costringe ciascuno - favorevole o meno, combattente o civile - a occuparsi di uno stesso argomento, schiaccia ognuno su un unico pensiero. A Polanski riesce l'impresa di rappresentare proprio questo concetto, cortocircuitando tutte le situazioni attorno alla lenta discesa nell'incubo (rimeditazione sull'attualità?) e poi nel gorgo del degrado e dell'annientamento sistematico esteso dagli oggetti alle persone e viceversa, affrontando anche la indicibile vicenda degli ebrei collaborazionisti, come forse nemmeno Ansano Giannarelli (16 ottobre 1943, documentario debitore del libro omonimo di Debenedetti, riedito nel 2001 da einaudi) o Carlo Lizzani (L'oro di Roma) hanno potuto fare nel 1960.
Alcune note di Alberto Corsani, contrappuntate da immagini "originali" della fine di una realtà pre-bellica, fotografata meglio che da un giornale d'epoca...; poi più nulla sarà come prima.



Cinema vero, cinema che si svela come tale. Nelle inquadrature secche, lunghe e lente sulle prospettive offese di Varsavia; scorci, incroci e attraversamenti; passages, ponti fittizi, passerelle igienizzanti nell'ottica separazionistica dei nazisti, ansiosi di non farsi contaminare. Prospettive (cioè viali o grandi arterie) violate dagli spezzoni incendiari. Ma anche colmate da una finta neve, come polistirolo che sborda e sversa da troppo generosi imballi dei nostri traffici inessenziali.

Stasi narrative, alla apparenza. Inquadrature che sembrano dare tregua alla narrazione, in crescendo drammatica - perfino prevedibile, tanto è lineare e paradigmatica.
In realtà: due percorsi paralleli, quello della progressiva oppressione degli ebrei nel ghetto e in partenza per la deportazione e l'annientamento; e quello del degrado, della lenta uccisione della città, dei palazzi. Quelli degli ebrei, poi quelli dove gli ebrei vengono confinati; poi anche quelli dei tedeschi. Tragica, inevitabile incarnazione di un giusto contrappasso la sorte dell'ospedale. Immagini congelate e meditative, contraltare mortifero e sconsolato dei quadri di Rohmer, destinati a trasmettere una vita oltre le contraddizioni ideologiche della Rivoluzione, oltre i velleitarismi e gli opportunismi; un mondo - quello delle scatole di cioccolatini della nobildonna e del duca - fatto per animarsi nonostante tutto.
Nessuna vitalità per Varsavia sconciata. Nessuna vita possibile, se non nel sepolcro inventato da Szilpman; una vita da "non morto". Ma se anche il pianista non avesse conosciuto fame, privazioni, delirio e quindi solipsismo, non potrebbe comunque riconoscere la sua città. Vaga per i quartieri in una nékuia senza morti. Strade e palazzi incarnano, e scontano, l'orribile consapevolezza di essersi prestati all'offesa, all'umiliazione.


Massimo della finzione, e sua esibizione, per il massimo grado della verità morale. Morte per morte, e morte al lavoro (Cocteau) nell'integrale di un movimento per piano e orchestra sui perciò interminabili titoli di coda. In pochi ne avrebbero avuto il coraggio, solo Sergio Leone.

Alberto Corsani

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