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La espalda del mundo
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Diritto all'istruzione, libertà di espressione e pena di morte:
la distinzione dalla barbarie passa attraverso questi confini

(attraverso queste schiene da schiantare)

Regia:  Javier Corcuera
Sceneggiatura:  Elias Querejeta, Fernando León de Aranoa, Javier Corcuera
Fotografia:  Jordi Abusada
Montaqgio:  Iván Fernáandez, Nacho Ruiz Capillas
Interpreti:  Guinder Rodríguez (Niño picapedrero), Mehdi Zana (Esiliato kurdo), Thomas Miller-El (Condannato a morte), Raúl Sánchez (bambino lavoratore), Martín del Alamo (bambino lavoratore)
Musica:  Alfonso anas
produzione:  Elias Querejeta
Distribuzione:   Casablanca Latinfilms
Provenienza e durata:   Spagna 2000, 89 min.



Premessa.
10 giugno 2004 liberata Leyla Zana: la deputata kurda condannata per il suo discorso, pronunciato (evento filmato) in lingua kurda (proibita) all'inaugurazione del parlamento dove era stata eletta nel 1994, è stata scarcerata dopo dieci anni di detenzione e lotte per ottenere la sua liberazione e quella dei suoi tre compagni di partito (il Dep, sciolto dalla corte costituzionale di una nazione che si vorrebbe far entrare nell'Unione europea per obbedire agli Usa): Hatip Dicle, Selim Sadak et Orhan Dogan



Guinder Rodríguez
Leyla Zana
Thomas Miller-El

EFFICACIA DEL LINGUAGGIO

I quattro erano accusati di intrattenere legami con il Pkk del dimenticato (da D'alema e dall'Occidente) Apo Ocalan, accusa di cui non si coglie la gravità, ma che colpisce per la storia di Leyla, moglie di un esponente della diaspora comunista kurda.
Infatti Mehdi Zana, comunista colto di vecchio stampo la sposò con matrimonio combinato e la fece studiare; sindaco di Diarbakyr, undici anni di carcere per lui prima (seguito dall'esilio) e 10 per lei, dopo. Il film di Corcuera dedica alla loro vicenda la porzione centrale.
Hanno vissuto insieme per pochi mesi: è uno dei tre casi adottati dal film per rappresentare gli abissi di oppressione del mondo, quello meno cruento (e che ha un epilogo felice), in cui la disperazione è nell'anima più che sulla pelle, dove sono coinvolti adulti, quindi l'emozione è meno facilitata dalla tenera età dei ragazzini peruviani del primo episodio; i due protagonisti non rischiano nemmeno la vita come invece fanno gli occhi spalancati dietro le sbarre del braccio della morte, dove languisce il nero del terzo episodio. Eppure quella storia dei due coniugi kurdi rimane più impressa: colpisce di più la triste solitudine dell'anziano leader comunista in esilio in mezzo a un paesaggio innevato e a lui evidentemente estraneo della fatica allucinante dei ragazzini neorealisti (sembrano tratti di peso da un documentario degli anni Cinquanta italiano) nella cava di pietra.

Perché? A noi - una volta sbrigate le pratiche della ovvia indignazione, lasciando a quella nostra componente politica irreconciliata la tensione antifascista che scatta di fronte alla pena di morte comminata all'afroamericano o alla condanna dei forzati a vita contro i ragazzini latinos - come divoratori di cinema interessa marginalmente la denuncia e siamo colpiti dal linguaggio... e in quell'episodio c'è qualcosa in più.

Individuarlo è il compito di chi attraverso il linguaggio concorre a produrre quell'indignazione che nutre l'antifascismo, travasandolo dall'ambito politico a quello linguistico per restituirlo rivitalizzato alla politica, ma non si può che procedere a tentoni, perché ovviamente il modo di proporsi dell'autore appare simile nei tre episodi, dunque forse si deve ricercare nel tipo di storia ciò che fa la differenza e fa del lavoro anatolico di Corcuera un affresco ben più potente di quello altrettanto anatolico di Egoyan. Nel caso di Leyla e suo marito quel quid in più sarà racchiuso nel fatto che è una storia complessa? In effetti è una narrazione fatta di due protagonisti distinti, con storie non comuni per entrambi e che si stagliano su eventi che coinvolgono genti perseguitate per la loro cultura diversa, una negazione della cultura kurda già vista al cinema. Ma fin qui sarebbe un racconto insolito e tuttavia non così speciale. Quello che lo rende unico è magari il modo di porgere la storia: le altre due sono infitte nel presente, e lo sono perché quello che colpisce la nostra immaginazione è proprio la condanna che portano con sé: un senso di continuità a partire da ora verso l'infinito. I ragazzini non potranno sottrarsi al destino di fatica (le loro sono le spalle del titolo?) e il nero subirà la paura orribile nell'attesa che quell'orrore pauroso alla fine si compia davvero (aveva già chiesto di anticipare l'esecuzione, poi un vero avvocato lo ha convinto a combattere ancora). Nel caso di Leyla Zana - come ha dimostrato la sua scarcerazione di pochi giorni fa - il racconto non era così legato al presente, che non è quasi mai evocativo, ma affonda in radici culturali, in altre narrazioni, diversificando gli eventi narrati in uno sviluppo della storia e progredendo verso conclusioni diverse, che possono essere molteplici e possibili riscatti ottenuti grazie alla evoluzione e alla crescita della coscienza. La denuncia si fa speranza, però anche questo "vecchio" topos della presa di coscienza come motore primo della suggestione delle storie di liberazione - romantico e anche un po' pericoloso, per la sua componente nazionalistica irrinunciabile (Isaiah Berlin faceva risalire la nascita del romanticismo dall'umiliazione nazionalistica subita dalle popolazioni dominate dalla Francia postrivoluzionaria) - sembra incapace di spiegare come mai questa storia riesce ad accattivare più delle suggestive e terribili immagini dei poco più che bambini (ma cominciano a sei anni, quindi proprio da bambini) costretti dalla miseria a vivere in una cava di pietra che nella luce bluastra dell'alba spaccano pietre alla luce di falò che li accompagnano sempre per aiutarsi nella fatica di spezzare le rocce, dove lavorano (molto), mangiano (poco), "giocano" (con scherzi da adulti), pisciano... i bambini che ci accompagnano e fanno da guida nella loro miseria spingono carretti fin dalle 4 del mattino, perpetuando un retaggio ancestrale e rinnovandolo con nuove iniziative (che si aggiungono a quelle che ci avevano illustrato i film peruviani del Grupo Chaski) che arrivano alla lettura dei giornali sugli autobus, dimostrando che almeno l'analfabetismo, loro, lo hanno debellato (il fulcro dell'episodio è proprio quello di pretendere il rispetto del diritto all'istruzione che alcuni di questi bambini si prendono da soli, sobbarcandosi il lavoro e lo studio), ma per loro iniziativa.

CONDIVISIONE E IDENTITÀ.
E allora cosa fa scattare la condivisione, a cosa si deve il coinvolgimento? Si potrebbe rispondere tirando in ballo la questione kurda, che occupa da decenni l'immaginario nutrito di bisogno di indipendenza, di libertà di espressione di quelle popolazioni, eppure anche in questo caso sembra addirittura riduttivo l'anelito all'affrancamento di un intera nazione rispetto a quel composto dolore di Mehdi Zana, che però non è disperazione, ma pacata consapevolezza di rivendicare il giusto e - ribaltando una delle asserzioni più retoriche solitamente usate - non solo per il suo popolo ma per se stesso. Allora forse in questa direzione si cominciano a trovare tasselli che cominciano a comporre il quadro: la causa kurda emerge dal film a sostegno della storia dei Zana e non viceversa e lo fa attraverso le molte testimonianze di semplici persone che li hanno conosciuti e si specchiano in loro, dando al significato del termine "essere rappresentanti" del popolo kurdo un senso ben diverso da quello scadente derivante dalle elezioni che nelle tanto sbandierate democrazie si dà al termine "rappresentante" ottenuto dalla delega. Quello che il film riesce a restituire attraverso le interviste e gli ambienti frequentati è proprio questo coro, vero stimolo al racconto della storia dei due protagonisti, che escono dall'anonimato, vera limitazione all'impatto dei ragazzini peruviani, che anche se uno per uno vengono "intervistati", non riescono però a rimanere nella memoria come precise connotazioni individuali, mentre la storia dei due kurdi è un racconto di loro proprietà, come la loro identità. E di nuovo il linguaggio ci viene in soccorso, considerando cosa ha significato la parola "identità" per il movimento di emancipazione mondiale da quando Engels parlava di "atomizzazione" del proletariato urbano inglese.
Si potrebbe obiettare che anche all'interno dell'orrido carcere di Allen B. Polunsky Unit in Texas (dove il macellaio Bush ha ucciso centinaia di persone recluse, prima di passare alla più larga scala delle migliaia di vittime mietute nelle guerre preventive) si avverte il coro di uomini sofferenti, echeggiano i drammi dei 120 condannati assassinati che l'informatore (in termini anropologici) ha conosciuto di persona specchiando le sue paure nel loro terrore, si raccolgono le testimonianze dei familiari feriti, addirittura quella mai pietosa del boia, che però, illustrando il suo sporco mestiere con il distacco della routine, fa da risonanza al racconto del protagonista, il condannato. Però appunto sono comprimari e anche il modo in cui si pongono verso la mdp è quello degli intervistati, mentre il sarto kurdo o la suocera, o i concittadini della coppia anatolica non sono in posa, non stanno facendo autocoscienza per superare il dolore della perdita, sono parte della storia dei due perseguitati, perseguitati pure loro, picchiati selvaggiamente dalla polis turca, come si vede nel filmato. Inoltre l'uso delle foto per la loro enorme valenza di documenti di "altri tempi" evidenti per la tangibile differenza con il presente, permette di assegnare quel surplus di informazione che "consente di pensare". Le foto sono commentate da Mehdi con rimpianto e orgoglio: fissano la storia e anziché conferire patine di antico, in questo modo, grazie al suo commento, le uniscono al presente e rappresentano dei punti di riferimento per ricapitolare la storia e sapere sempre dove ci troviamo all'interno del racconto

Boia Mehdi sindaco di Dyarbakir

"CON LA SUA TRASPARENZA NON CI FA PENSARE, CI CONSENTE DI PENSARE"
John Berger ha selezionato il film, chiamandolo a inaugurare una rassegna su di lui, benché non lo abbia sceneggiato, perché lo considera un film molto trasparente, che forse ci aiuta a far fronte alla durezza del mondo in cui viviamo. Claudio Panella ha raccolto le sue considerazioni: «Quando dico che questo è un film trasparente voglio proprio dire che è come una finestra sul mondo in cui viviamo, non uno schermo opaco che nasconde ciò che sta accadendo, distraendoci con fantasie. Se accettiamo queste fantasie in quanto diversioni vuol dire che siamo compiacenti e complici con ciò che sta accadendo. Questo film con la sua trasparenza non ci fa pensare, ci consente di pensare. Se un film ci dice esattamente cosa pensare, togliendoci quindi la nostra libertà, in qualche modo ci toglie anche la nostra responsabilità, mentre questo film conduce a porti delle domande. Le conclusioni devono essere sempre individuali ma talvolta gli individui si mettono insieme e "io" diventa un "noi", attraverso degli scambi. Tutti quanti sappiamo benissimo in che tipo di nuova tirannia stiamo vivendo e continuamente dobbiamo chiederci come si faccia a dire di no».

Madre peruviana: gli effetti della polvere sono quelli sui suoi figli minatori Sarto a Dyarbakir, amico di Mehdi
CAPACITÀ DI GIUDIZIO AUTONOMO
Ecco, la trasparenza al servizio della capacità di giudizio senza che il racconto condizioni, è quello che sembra applicabile a quell'episodio in particolare, perché negli altri due casi è evidente la denuncia dell'ingiustizia, impossibile negare la barbarie da cui nasce il lavoro minorile ed è tollerata la pena di morte, ma anche difficile andare oltre alle immagini, mentre nel caso dei coniugi Sana da quelle testimonianze, da quelle foto del passato, dalla loro formazione ancora in fieri, deriva per forza una inevitabile elucubrazione dello spettatore che svilupperà a sua volta un'idea destinata a evolvere ulteriormente. Curiosamente Xavier Marías aveva intitolato Negra espalda del tiempo un romanzo che non era fiction ma lo diventava proprio attraverso l'approfondimento dei singoli casi occorsi, delle indagini svolte dallo scrittore stesso su altri scrittori, insomma un resoconto metalinguistico di eventi occorsi a lui stesso che vanno a costituire una storia che diventa intrigante a seguito di quella trasparenza che si rincorre, come avviene nel film di Corcuera, da una testimonianza all'altra, da una foto all'altra... l'incanto della narrazione che disvela (elimina i veli che coprono l'esistenza) una figura, una storia sotto diversi punti di vista, adottando molti sguardi, immersi in un solo paesaggio, quello che riconosciamo in molti altri film kurdi. Ora che Leyla è fuori, Corcuera potrebbe aggiungere alla costruzione (mai completarla) la soggettiva di quegli occhi tante volte incontrati nel film, fiammeggianti pupille kurde, determinate e limpide, appunto aperte a venire scrutate, trasparenti. Quelle di Leyla.
Thomas Miller-El

Epilogo?
La sentenza contro Leyla Zana e i suoi tre compagni non è stata annullata, ma sono stati scarcerati in attesa della fine dell'inchiesta. La Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo si è appellata a Ankara per la revisione di un processo "iniquo" Il processo di appello confermò la condanna, ma si sollevarono vizi di procedura... A Leyla Zana è stato offerto a più riprese negli anni scorsi di uscire dal carcere per motivi di salute (è affetta da una grave forma di osteoporosi), ha sempre rifiutato, in solidarietà con gli altri parlamentari, che sarebbero rimasti in carcere.
Per un processo, quello a Thomas Miller-El che una sentenza ha decretato vada rivisto (grazie all amobilitazione di molti e alla coscienziosità del suo avvocato), dimostrando come qualche criminale come Bush ha scalato il potere sulla esecuzione di qualche nero giudicato da corti fortemente razziste, se ne stanno imbastendo altri che popoleranno nuovamente di poveri afroamericani i bracci della morte
E i ragazzini peruviani continueranno a essere forzati picapedreros... senza siti da linkare.

<<< sito del film
<<< Leyla Zana
<<< Mehdi Zana
<<< Thomas Miller-El
adriano boano
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