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Il teatrino di Citti: Fratella e Sorello


Dall'iconografia del Peccato originale al microcosmo maschile, che si racconta scenette edificanti rintanato in un carcere, lontano dallo spaventoso erotismo delle donne



«Per il Peccato Originale, certo una delle scene più frequentemente rappresentate, lo schema iconografico appare già fissato nell'arte paleocristiana, e poi incessantemente ripetuto per secoli: i Progenitori stanno ai due lati dell'Albero, intorno al quale si avvolge il Serpente. Fra le migliaia d'immagini che rappresentano questo tema se ne può tuttavia trovare qualcuna che devii dallo schema fondamentale. Per esempio, in un capitello del Duomo di Parma, l'Antelami presenta Adamo ed Eva elegantemente vestiti di lunghe tuniche manicate e seduti su una panchina presso l'Albero del bene e del male: mentre Eva ascolta, portandosi una mano all'orecchio, la voce del Serpente, Adamo se ne sta in disparte, reggendo in mano un fiore, come un signore nel suo giardino. Ma alla scena successiva il peccato è compiuto: e dall'Albero sono stati staccati ben quattro pomi (uno in bocca al Serpente, uno ciascuno in mano a Eva e ad Adamo, e un quarto che Eva porge ad Adamo).
Le ricche vesti di Adamo ed Eva fanno pensare a una diretta influenza del teatro sacro; nelle rappresentazioni semiliturgiche che si svolgevano presso la chiesa - dalla quale entrava e usciva "Dio" con paramenti sacerdotali - Adamo ed Eva non erano rappresentati nudi, naturalmente, nemmeno prima del peccato, ma anzi riccamente abbigliati (Adamo tunica rubea, Eva tunica rubea et pallio serico albo): questo Adamo di Parma meriterebbe di essere chiamato da Eva, come in uno di questi testi, Adam, bel sire. Tuttavia, nonostante un caso come questo - raro anche se non del tutto isolato - la rappresentazione del Peccato Originale resta nell'iconografia cristiana per secoli e secoli sostanzialmente immutabile, e può essere additata come esempio di uno schema "fisso"».

(Salvatore Settis, Iconografia dell'arte italiana, 1100-1500: una linea, Einaudi, Torino 2005, pp. 43-44)



Come Settis analizza per temi e non per sviluppi cronologici i fenomeni artistici, dando alla fine degli anni settanta l'ultimo colpo alle impostazioni crociane della storia dell'arte, anche per Citti l'approccio alla materia - raro intreccio di vena popolaresca, tradizione colta e dottrina di semplici dogmi utili a "educare" - tiene conto di questo bisogno di mostrare come evolvono i rapporti e i valori autentici della componente più popolare della società. E lo fa adoperando anche le suggestioni culturali più fondanti, intrecciate all'urgenza di scomporre le certezze, mettere alla berlina ogni forma di autorità, proporre escamotage che disinneschino ogni occasione repressiva: di costumi, di desideri, di forme di vita, di comunità solidali.

La sequenza dello spettacolo per sole donne, incentrato sulla spettacolarizzazione proprio di quel "mistero [reso] buffo" del peccato orginale, possiede l'arguzia e il sapore del teatro popolare degli spettacoli di Fo, solo più genuino e apparentemente senza la ricerca di supporti bibliografici.
Mantiene la stessa impostazione che rendeva Il Casotto non tanto il personaggio principale, quanto uno spazio magico, quell'unico luogo in cui i personaggi si trasfiguravano: allo stesso modo Amendola-Serpente in quella quinta teatrale incarna e svela se stesso, spaventosa potenzialità eterosessuale, che, vuoi per adattamento agli eventi, vuoi per non rinunciare aprioristicamente a nulla, si fa implicita metafora di un rapporto omosessuale anomalo, che è più amore per l'amico o per l'idea di amicizia - concetto esplicitato dall'improbabile fatto pregresso per cui Serpente si trova in galera -, un rapporto nato in una comunità di soli maschi come è il carcere (Giocondo travestito che addenta la mela); una comunità che a sua volta non è descritta seguendo canoni documentari o anche solo di mero realismo, bensì è traslata in uno spazio che trae legittimazione dalla rielaborazione poetica di opere soprattutto cinematografiche (un po' come avviene in L'uomo in più) che hanno descritto ambienti carcerari cari all'autore. In questo modo lo stesso atteggiamento che sottende la sequenza del night si estende a tutto il film - e a tutta la produzione di Citti, si pensi anche a I Magi randagi e a quanto la trasposizione epocale non sia succube della ricostruzione realistica, ma bensì della volontà di creare un mondo narrativo, fatto di infinite suggestioni provenienti da storia dell'arte e della commedia dell'arte di ogni epoca, trasfigurata dalla vena popolare, mai volgare.
Dunque lo spettacolo come principio e fine delle esistenze per renderle plausibili, sopportabili e raccontabili... ma soprattutto lo spettacolo corale, dove alle figure dei protagonisti si sostituiscono i loro stereotipi e non sarebbero possibili se non ritagliate su un universo di maschere che formano una comunità.
E il concetto di teatralizzazione - unica forma per spiegare davvero alle pance dei compagni detenuti come si evolve il numero (ovvero le priorità della vita) di fronte alla mutilazione inferta dalla donna gelosa - si propone esplicitamente quando Giocondo al rientro in cella con i compagni diffidenti, esce da dietro la tenda per fare il ruolo del presentatore da avanspettacolo: un'improbabile tenda che dividerebbe l'ambiente cella diventa sipario e si avvia la rappresentazione nuova, con il nuovo tatuaggio.


Ma il lavoro di Citti ha un valore ulteriore che proviene dal fatto che riesce a rappresentare il cameratismo in modo innocuo, anche nel momento in cui lo scontro tra i due sessi viene mostrato come un'esasperazione femminista, esagerata e travalicante (l'amante di Serpente-Amendola, Ida Di Benedetto, e Youma Nikite, la moglie nera - "bellissima" e totalmente negata per la recitazione - di Rolando "Giocondo" Ravello), di cui avere paura al punto da rintanarsi... di nuovo in galera, pur di sfuggire ai sospetti, alle vendette e alle insidie del mondo femminile, che conducono inevitabilmente alla cacciata dal Paradiso terrestre (in questo caso trasposto in una galera). Sono due stereotipi di donne, diffusi e di successo, che la timidezza tenera degli uomini (e di Citti) cercano di sfuggire. Quello che rende riuscita l'operazione cinematografica è la schiettezza di ciò che viene raccontato: la naturalezza con cui si porgono quelle battute che non sono maschiliste, né scioviniste, ma semplicemente ritratti di due esistenze segnate da donne con forti cariche erotiche, insopportabili per la richiesta di assenza di conflitti dei due amici. In mezzo, tra le due virago si pone Laura Betti in uno dei suoi ultimi ruoli cameo (che assolve il film da qualsiasi accusa di misoginia con la sua presenza e con la sua interpretazione volta a girare in burla la militanza delle due assatanate Medee): lei, con la battuta che pone fine al dibattito processuale, dà la zampata che squarcia il velo della solidarietà di una donna normale, che comprende gli uomini e non si propone (non potrebbe per fisique du role, ma nemmeno vorrebbe) come femme fatale a cui con un solo sguardo è ricondotta la figura di Eva, bensì come comprensivo giudice, che capisce la manovra dei due e si scusa di appioppare loro una pena in fondo breve: «Non ho potuto fare di più», reindirizzando di nuovo tutto nello spettacolo, nella farsa popolare, che schiettamente riproduce la realtà meglio di qualunque realismo.
E la gente del popolo ha sempre a che fare con i giudici, quindi la sequenza quasi iniziale, quella da applauso (forse girata prima della malattia del regista), sembra teatro di figura, con i pupazzi dei tre giudici le cui toghe sono plaid, l'azzeccagarbugli Andy Luotto e la pena da burla per il neocarcerato con tendenza al suicidio, da cui proprio questo rito iniziatico lo distrarrà insieme all'espiazione: la secchiata, comminata con un sorriso triste e anarchico, altamente didattico e sorprendentemente divertente per quegli uomini reclusi che guardano e ridono con occhi di bambini, rivoluzionari - nel loro piccolo - almeno quanto i personaggi che hanno un loro contraltare nel teatro di burattini di Il resto di niente di Antonietta De Lillo.

Per questo la ricostruzione carceraria non è ovviamente una denuncia o una rappresentazione del vero vissuto carcerario, ma semplicemente un luogo di forte concentrazione maschile (la presenza femminile è solo in fotografia e mai mostrata dalla cinepresa): il carcere non ha connotazioni penitenziarie, è un luogo il cui candore infantile si avvicina di più ai microcosmi dei ragazzini in banda dediti a divertirsi con complicità con la stessa valenza di Zero de conduite, dove tornare consapevoli che in quell'alveo si ritrovano amici e valori semplici e solidali, sono ragazzini in campeggio (si veda la sequenza in cui Amendola fa restituire la foto al nuovo venuto), cresciuti a dispetto del "mondo", che non è più possibile emendare ma che non si sono fatti inglobare nel mondo globalizzato. Non è galera, come non è night il teatrino, o non è tribunale lo stanzone in cui i due amici vengono processati. Tutto è teatro e ogni luogo rappresenta un'emozione.


adriano boano

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