Finché morte non ci separi...
THE
CORPSE BRIDE (La sposa cadavere) di Tim Burton e Mike Jonhson
Degna appendice al film La fabbrica di cioccolato , e suo naturale prolungamento visivo è la fiaba The Corpse Bride del medesimo regista, Tim Burton, che si avvale ancora dello stesso cast, seppur trasformato in figure di plastilina, animate dalla tecnica della stop motion (amata per la sua qualità tattile, l’emozione di stare in mezzo ad attrezzi, pupazzi reali e scenografie), riprese per 24 fotogrammi al secondo, con movenze a scatti, che riproducono idealmente sullo schermo il faticoso lavoro su carta dei disegnatori del cinema d’animazione, a partire dal mitico Walt Disney, presso cui ha imparato il mestiere il visionario autore di questa nuova meravigliosa storia - sempre incline a privilegiare il volto dark dello spettacolo - che non a caso esce in Italia proprio a ridosso della commemorazione rituale dedicata ai defunti. In effetti non poteva esserci data migliore per celebrare l’uscita di questo piccolo capolavoro d’animazione, destinato ad accontentare l’immaginario collettivo di un pubblico di tutte le età (a partire dagli amanti della Famiglia Addams), anche se solo gli estimatori del regista potranno cogliere i riferimenti autoreferenziali alla cinematografia precedente, in particolare Beetle Juice, Sleepy Hollow e The Nightmare Before Christmas, non solo perché i defunti ritornano da fantasmi nel mondo dei vivi o perché nel paese del contro-natale i folletti inventano un universo capovolto, che risulta essere un allegro doppione di quello umano, ma soprattutto perché permane quella realtà macabra, dove ogni legge, fisica o logica, viene sovvertita da uno spirito anarchico e fracassone.Tim
Burton aggiunge con La sposa cadavere un ennesimo tassello al suo
puzzle che da sempre rende elogio al lato oscuro dell’infanzia, fatto di
innocue efferatezze e di tenerezze romantiche, dove se da un lato trionfa
l’horror gentile, dall’altro ha la meglio l’accettazione del diverso,
il trapassato nell’aldilà, che si finisce per comprendere in un abbraccio
finale collettivo: vivi e morti, catturati in una gioia sfrenata, sembrano
non preoccuparsi di abitare il lato in luce o quello in ombra che separa le
creature di cartone da quelle in carne e ossa. Victor
Van Dort, il protagonista, è infatti convincente quanto l’attore umano
Johnny Depp a cui si ispira, imitandone fattezze, mimica, voce e gestualità;
è sicuramente fratello di Edward, mani di forbice e nipote di Willy
Wonka, ma ricalca al contempo le movenze di Jack Skellington in The Nightmare
Before Christmas, lo scheletrino filiforme che rapiva Santa Claus per
distribuire mostriciattoli ai bambini. La
fiaba nera della sposa cadavere messa in scena da Burton trae ispirazione
dalla tradizione favolistica russo-ebraica e da non altrettanto fiabeschi
pogrom ucraini: “Racconta una leggenda popolare che nella Russia
dell’Ottocento gruppi antisemiti facessero irruzione durante i matrimoni
di coppie ebree, rapendo e uccidendo la sposa. Colpevole di aver «propagato
la razza ebraica», la sposa straziata veniva seppellita nel suo abito
bianco” (da Il manifesto, in occasione della presentazione fuori
concorso del film all’ultima Biennale di Venezia). La
sua natura di fiaba è esplicitata fin dall’inizio, quando Victor traccia
su fogli bianchi la figura di una farfalla, pronta ad animarsi, trasformando
l’inchiostro che la delinea in azzurrine ali, che le consentono di
mettersi in volo sopra i tetti di un grigio quartiere racchiuso in uno
scenario vittoriano, che se da un lato ricorda quello messo in scena da
Polanski per Oliver Twist (specie per l’andirivieni concitato del
commercio umano che mescola carrozze, gente e mercanzie), dall’altro si
sofferma su un dettaglio: quello di un gesto ripetuto, che consente di
affettare il pesce per metterlo in scatola, come le tavolette prodotte dalla
catena di lavoro taylorista nella fabbrica di Wonka; non mancano anche
riferimenti a città dell’est Europa immaginaria: un palazzo
dall’architettura espressionista alla maniera di Lowecraft (e di nuovo tornano le atmosfere proto-romantiche di Sleepy Hollow), un ponte
magico che riporta la memoria alla Praga descritta da Kafka, una cattedrale
gotica inquietante, mentre il regno dell’oltretomba è colorato come le
mattonelle delle costruzioni di Gaudì, speculare al mondo di sopra in
bianco e nero, ne offre il rovescio a colori, per dare l’impressione di
guardarlo attraverso uno specchio sbilenco, talvolta metafisico, in altri
casi esclusivamente surreale. Il giovane Victor Van Dort, colorito diafano, ciuffo ribelle e occhioni spalancati tristi, insegue con lo sguardo le deambulazioni della farfalla turchina che fugge dalla sua grigia stanza e dalle pagine del libro che sta illustrando, per volteggiare libera nel cielo e infine planare per le strade della città. La farfalla si intrufola tra la sporcizia che sta per essere spazzata da un netturbino che sembra la fotocopia del gobbo di Notre-Dame (anch’egli avrà il suo doppio nel regno delle ombre con la differenza di non poter ancora contare su un teschio snodabile); si sofferma ad annusare la puzza del pesce ghigliottinato in serie per fare la fortuna dei genitori di Victor, avidi imprenditori di prodotti ittici inscatolati; si intreccia alla voce del banditore, un notiziario umano a forma di campana, che sta annunciando l’imminente inizio delle prove per il matrimonio combinato, che unirà il parvenu Victor all’aristocratica, caduta in povertà, Victoria Everglot. E qui inizia il musical, come sempre orchestrato da Danny Elfman, l’alter ego musicale di Burton, che improvvisa duetti scanzonati tra le coppie dei futuri suoceri, buffi pupazzi coniugati secondo la consueta legge dell’attrazione degli opposti: il padre di lei è piccolo e tozzo con un faccione simile a un pomo maturo dove campeggiano due occhi porcini, la madre è invece alta e statuaria, con una capigliatura a forma di pera e un gozzo prominente, impegnato a gareggiare con un petto altrettanto rigido; i genitori di Victor non sono da meno in fatto di stravaganza: il padre indossa una tuba microscopica, atta a celare un unico ciuffo di capelli irrigiditi dal copricapo, mentre la madre offre gote cadenti che annunciano un corpo a mongolfiera. I quattro sono impegnati a scendere o salire le scale - fisiche e sociali - che li porteranno a guardarsi in cagnesco per assistere alle prove della cerimonia nuziale, definita come una società, perché “il matrimonio è tutto un dare e un avere”, anche se viene precisato che i primi non potranno offrire nulla perché ormai sul lastrico e i secondi sono pronti a sacrificare il denaro, ancora caldo, a patto di poter contare sui privilegi dell’appartenere a una nuova casta. Ma al di là degli intenti poco nobili dei rispettivi genitori avidi e meschini, i due promessi sposi sono davvero innamorati l’uno dell’altra, complice un pianoforte da suonare a quattro mani con belle dita lunghe e affusolate, mentre i loro occhioni scrutano il profondo dell’animo per scovare sentimenti sinceri e romantiche tenerezze. Victoria con il suo bel faccino da faina condivide con Victor il pallore dell’incarnato e la bellezza dello sguardo (forse perché privo di ciglia) perennemente sgranato a osservare il mondo, è l’unica a portare su di sé una traccia di colore, il marrone dell’abito, anche se la tonalità risulta comunque slavata e ben presto si confonderà con il grigiore dell’ambiente circostante. Il
filiforme Victor con la smorfia ora triste, ora malinconica, di Johnny Depp
e il ciuffo ribelle del regista, appare impacciato nei movimenti: è sbadato
e stralunato come Willy Wonka e anche insofferente nei confronti dei riti
sponsali, a cui lo costringe un arcigno prelato che assomiglia alla versione
in plastilina di Ivan Il Terribile di Ejsenŝtejn o al sacerdote egizio
del film La Mummia di Terence Fisher (il riferimento è tra l’altro
confermato anche dalla positura che assumerà Victor dentro la bara), sotto
cui si nasconde l’autorevole silhouette di Christopher Lee, impegnato
anche stavolta a recitare la parte dell’officiante. Le
estenuanti prove (“Tre ore dopo” recita la didascalia) si trasformano
così in una ridicola pantomima: Victor non riesce a fare i passi giusti per
raggiungere l’altare, sbaglia mano per impugnare la candela, che dovrebbe
simboleggiare la fiamma del suo amore, riesce addirittura a spegnerne la
fiammella, fa ruzzolare l’anello sotto le vesti della futura suocera,
incendiandone il tessuto con la candela, mentre si accinge a recuperare la
fede, che avrebbe dovuto infilare all’anulare della sposa. Punito in
quanto maldestro e impreparato, verrà mandato a ripassare il copione, pena
l’annullamento del matrimonio. Così il giovane si troverà a deambulare
solitario in una foresta sepolta dalla neve, pronto a ripetere la sua parte,
stavolta senza commettere errori, a parte il fatto di compiere un gesto,
corretto in base al rituale, ma scellerato per le conseguenze che si porterà
appresso: avendo infilato l’anello d’oro al ramo di un albero, pensando
in realtà alla mano di Victoria, si troverà sposato a un cadavere. La
ritualità insomma finisce per ritorcersi contro di lui, che mal ne
sopportava già le procedure, ma l’effetto ottenuto finisce per mettere
alla berlina qualsiasi rito codificato, vero intento del film, che si dipana
in seguito in tante parodie di rituali differenti, tutti scardinati perché
messi in scena da scheletri o da zombie che vengono meno al loro compito di
impaurire, perché non sono più aspetti esotici, bensì familiari. Emily, ragazza dalla pelle blu e dalla bocca rossa, bella, anche se metà putrefatta (inutile precisare che è la sosia di Helena Bonham Carter, compagna del regista e voce in originale della sposa cadavere), avvolta nel suo abito nuziale dal velo di ragnatele, misteriosamente assassinata proprio mentre si accingeva a coniugarsi, è in eterna attesa, senza pace, di poter finalmente arrivare all’altare e recuperare così quel sogno tristemente infranto dalla morte. Ma Victor non può accettare l’idea di aver sposato un cadavere e si spaventa di fronte al moncherino, che esibisce un anulare con il cerchietto dorato al posto giusto, che resta aggrappato alla sua mano e cerca di trascinarlo con sé nel regno degli inferi. Il giovane fa
resistenza, scappa, scivola comicamente sui lastroni di ghiaccio, sbatte la
testa contro un albero, prova a stropicciarsi gli occhi, pensando di avere
avuto un incubo, ma la visione di quella macabra bellezza fatale non
svanisce, anzi diventa costante man mano egli si avvicina alla città, al
punto che, proprio sopra il magico ponte che separa i vivi dalla foresta
oscura, sarà inchiodato da una battuta, che viene a completare il rituale
da lui iniziato: “Adesso puoi baciare la sposa”. Emily
si avvicina per abbracciarlo e unire le sue labbra a quelle di lui,
accorgendosi che si tratta in realtà di un “respirante”. Victor verrà
immediatamente catapultato in un underground colorato e chiassoso, popolato
di allegri scheletri amanti della musica, intenti a danzare un sabba
travolgente, che è un dichiarato omaggio sia allo stile jungle di Duke
Ellington, che alla prima Silly Symphony, The Skeletron Dance,
inventata nel 1929 da quel geniaccio di Walt Disney, che possedeva già una
buona dose di humor nero.
La
danza macabra ricorda nelle scelte cromatiche cangianti i siparietti
musicali degli Oompa Loompa nel film La fabbrica di cioccolato, ma la
scenografia del saloon affastella numerosi stereotipi cinematografici: il
barista Paul è una testa mozzata che sembra uscire da un autoritratto di
Dalì, il suonatore di piano con le orbite coperte da un paio di occhialoni
neri è la caricatura di Ray Charles, i giocatori di biliardo, immortalati
con la sigaretta a penzoloni in pose alla Nick Manofredda (forse perché
cadaverica, entrando nella propensione al gioco di parole di Tim burton, che inserisce un bazar nel mondo delle ombre e lo chiama "Seconda mano"... infarcendolo di moncherini di mano nei barili, che indicano la strada a Emily sulle tracce di Victor), mettono in evidenza i loro ossicini con le articolazioni tese
nello sforzo di sorreggere la stecca, il teschio con la bombetta fa il verso
(fisico e sonoro) a Frank Sinatra, transita anche un Napoleone Bonaparte
(sosia e voce di Deep Roy, lo straordinario Oompa Loompa) preso in prestito
da un’iconografia che ricorda alcuni albi a fumetti degli anni Sessanta,
mentre il coretto degli scheletrini si anima con colori più vivi, ora
gialli e verdi, talora rossi e blu, mescolandosi con le loro ombre –
nonostante siano essi stessi “ombre” - in un sardonico teatrino, che
secondo le dichiarazioni del regista trae ispirazione anche dalla
filmografia di Mario Bava (“Siamo stati influenzati profondamente dai suoi
horror sia per la scelta dei colori che per le atmosfere”), ma che è sicuramente debitore delle suggestioni poetiche di Lotte Reiniger. La
banda assume risvolti esilaranti quando gli scheletri si prestano a
trasformarsi in svariati strumenti musicali e allora è tutto un concerto di
trombe, violini, pianoforti, in movimento ritmico, secondo gli insegnamenti
di Norman McLaren: le sue linee colorate verticali e orizzontali, incise
direttamente su pellicola, riproducevano note sintetiche una volta lette da
un proiettore sonoro, in grado di restituire lo strumento musicale ricreato
da quelle linee astratte, che ricalcavano le corde di un contrabbasso per
esempio.
Tim
Burton ha impiegato dieci anni di lavoro per dar vita a questa splendida
fiaba animata, che ha scelto di produrre e dirigere - come era già accaduto
per The Nightmare Before Christmas – insieme a Mike Johnson,
animatore di James and the Giant Peach, anch’esso tratto da un
romanzo di Roald Dahl, come Charlie e la fabbrica di cioccolato.
Assistendo alla splendida messinscena dell’intero impianto filmico,
ricercato nelle atmosfere e nella cura dei particolari, si capisce perché
sia costato così tanto tempo e fatica ai due registi, esperti in animazione
della plastilina. Victor non ne vuole sapere di abitare il mondo dei morti e desidera ardentemente ritornare dalla sua Victoria, mentre Emily non è disposta a rinunciare a quel nuovo, seppur vivente, marito, che le ha permesso di riascoltare i battiti di un cuore ormai spento e la gioia di trattenere a stento tra le falangi una fede nuziale, nonostante gli occhi escano dalle orbite per lasciar posto a un verme simile a un clown, che svolge la stessa funzione di un grillo parlante, mescolando la sua voce a quella di un ragnetto ballerino, una vedova nera pronta a spaventare il povero Victor, che intanto cerca rifugio in mezzo alle bare scoperchiate. Intenerito dal regalo della consorte, che gli consente di riabbracciare il defunto cagnolino Briciolo, anche se sprovvisto di peli, Victor decide con uno stratagemma di convincere la sposa a tornare sulla terra per poterla presentare ai suoi genitori.
Emily acconsente e con l’aiuto del saggio del regno delle ombre (uno
scheletro con le budella che gli fuoriescono dalle mandibole a guisa di
inconsueta barbetta, intento a grattarsi le giunture semimobili del capo,
ripreso in compagnia di un corvo che sembra uscito dal racconto omonimo di
Edgar Allan Poe), i due riescono a risalire le scale che conducono in
superficie con la certezza di poter far ritorno nel sottosuolo a condizione
di pronunciare la stravagante formula magica: “Saltacampana!”. Come
nel film precedente, Tim Burton si diverte spesso a mettere in bocca ai suoi
personaggi divertenti battute che sono in realtà semplici giochi di parole:
si pensi all’espressione “Rimettere insieme i pezzi” per indicare il
ricomporre le ossa fino a formare uno scheletro completo o “Muoiono dalla
voglia di venire qui e voi volete andare da loro”, come dirà il saggio di
fronte alla strana richiesta degli sposi, oppure quel “Finché morte non
ci separi” che sancisce il rito nuziale e che in questo caso ottiene
invece l’effetto di produrne l’annullamento, perché la sposa è già
cadavere e la separazione dei coniugi è pertanto una condizione naturale e
incontrovertibile. Gli
sposi escono dal regno colorato degli inferi per ritrovare la bellezza di un
chiaro di luna, attorno alla quale volteggia la solita farfalla turchina,
che invoglia Emily a danzare a sua volta, nonostante una rotula ceda e altre
ossa della gamba decidano di ballare per conto loro. Victor
ha l’intenzione di far perdere presto le sue tracce e di abbandonare nella
foresta la sfortunata ragazza: desidera ardentemente rivedere Victoria per
spiegarle l’incidente occorsogli, ma la sposa cadavere, resa ancora più
livida e bluastra dalla gelosia, farà irruzione nella stanza dove i due
giovani stanno per darsi la mano e, recitata la formula magica, lo
costringerà a ridiscendere negli inferi (è una sorta di Euridice che
riporta nell’Averno anche Orfeo). Intanto la povera Victoria si vedrà
costretta a unirsi presto in matrimonio con un pomposo e squattrinato Lord,
dall’aria melliflua e poco rassicurante, che ha deciso di rimpiazzare lo
sposo mancato, nella convinzione di poter ereditare un’ingente dote. Neppure
il prelato, a cui Victoria si rivolge per ottenere informazioni circa la
possibilità che “i vivi possano davvero sposare i morti”, aiuterà la
giovane, anzi la riporterà a casa, definendola “posseduta dal demonio”,
per consegnarla ai genitori che sono pronti a barricarla in camera.
Nell’aldilà Victor scopre che anche Emily ama suonare il pianoforte e le loro mani (compresi i moncherini che ogni tanto scappano, inseguendo le dita sui tasti) si intrecceranno in una sinfonia struggente: un inno all’amore, quello perduto e quello soltanto desiderato. Commosso dalla storia della ragazza, raccontata attraverso un nuovo e spettacolare siparietto musicale, il giovane decide che dovrà sacrificarsi: è pronto a morire per poter sposare il cadavere, strappandolo così al suo triste destino di perpetua sposa raminga. Per legittimare il matrimonio e consentire al giovane di
ripetere il suo giuramento sulla terra, i trapassati compiono un gesto
clamoroso, stabilendo di tornare in superficie per confondersi con i vivi,
nell’attesa che Victor possa morire, bevendo il veleno dalla coppa
nuziale, che, privandolo della vita, lo farà diventare finalmente uguale a
loro. Ma il macabro disegno non potrà compiersi fino in fondo, perché con
un magistrale colpo di teatro il regista decide che le due comunità possono
confondersi tra di loro in una festa finale, che restituirà i colori anche
al grigio universo dei viventi, perché il mondo dei morti, a conoscerlo
fino in fondo, è in realtà più vivace e dolce rispetto alla rigida
esistenza terrena. Un nipotino riconoscerà nel cadavere decomposto la
figura del nonno e sarà pronto ad abbracciarlo, una vedova ritroverà il
marito, una figlia il padre, e anche Briciolo scodinzolerà di gioia,
annusando il pelo della sua antica fiamma, una splendida cagnolina.
Nel
momento clou delle nozze Emily decide di mettersi da parte, impedendo allo
sposo di compiere l’estremo sacrificio: “Ho rubato il sogno di qualcun
altro e non è giusto. Io ti amo, ma tu hai lei. E poi mi hai ridato la
libertà” dirà a Victor sempre più sorpreso, unendo le mani dell’uomo
a quelle di Victoria, che stava a spiare, mescolata ai convitati.
Avrà
anche il tempo di riconoscere tra la folla la presenza di quel misterioso
Lord (lo stesso che ha sostituito Victor nel rito nuziale, ma non nel cuore
di Victoria), che la ingannò promettendole di sposarla e invece
l’abbandonò la notte delle nozze, dopo averla fatta assassinare.
All’ingrato non resterà che bere la coppa mortale destinata a Victor,
mentre gli scheletrini si divertiranno a tormentare le sue ossa con
forchette e cucchiai! La sposa cadavere uscirà di scena, gettandosi alle spalle il suo inseparabile bouquet di fiordalisi, che, dopo alcune acrobazie, finirà per approdare in mano alla sposa vivente, mentre il suo logoro abito bianco da cerimonia e le ragnatele del velo nuziale si trasformeranno in una pioggia di farfalline, pronte a raggiungere la luna, insieme al suo corpo ormai completamente sbriciolato in cenere. Una
tenerezza sincera m’invade, mentre scorrono i titoli di coda di questo
romantico, lirico, aggraziato, straziante… cartoon! E
adesso lo posso anche confessare: vedo sempre tutti i film di Tim Burton due
volte, perché uno tira l’altro, proprio come a qualcuno capita con
la marmellata, le caramelle o la cioccolata. paola tarino |