Soltanto dopo un assaggio del tangibile non-senso della guerra il regista si concede la prima impercettibile concessione alla affabulazione a posteriori, fornendo un elemento salvifico al soldato perso tra fango paludoso e carni dilaniate.

  1. Il ponte con la propria umanità precedente passa attraverso la preminenza delle campanelle zen, presentate nel prologo e riproposte a questo punto: tramite il loro ricordo l’invadenza dei rumori della guerra (un mondo di elicotteri-lazzareto) viene sovrastata e si riesce a recuperare quell’equilibrio perduto, non a caso infatti proprio in quella sequenza in cui s’impone la musica, presenza fiction attribuita alla mente del protagonista-alter ego, sul rumore viene sancita la condizione aliena – e marcusianamente alienante – in cui si opera: "Qui si perde la cognizione del tempo". Affermazione ambigua, poiché da un lato, quello più documentaristico, espelle quel manipolo di uomini dal consesso umano, alienando loro anche la collocazione temporale,
  2. dall’altro introduce alla contestualizzazione che segue e si sviluppa in una considerazione storica che prelude alla presa d’atto che quella guerra è stata la perdita dell’euforia della vittoria (presente nella guerra dei sei giorni e irrimediabilmente perduta), ovvero la percezione del torto non solo appannaggio del nemico e la contaminazione del sogno sionista, nonostante un esercito informale e multietnico, composto da italiani, belgi, polacchi: in questo il lavoro oggettivo (la pura azione documentata di salvataggio dei feriti, le corse all’elicottero senza riposo… ) lascia spazio all’interpretazione di carattere collettivo e per fare ciò Gitaï sfrutta anche riferimenti all’immaginario cinematografico: "Bisogna avere l’istinto del cacciatore; uccidere. A questo serve un pilota" (lamento che sembra evocare il mitico film di Cimino per introdurre la stessa sensazione di sconfitta del Vietnam).