Soltanto dopo un assaggio del tangibile non-senso della guerra il regista si concede la prima impercettibile concessione alla affabulazione a posteriori, fornendo un elemento salvifico al soldato perso tra fango paludoso e carni dilaniate.
- Il ponte con la propria umanità precedente passa attraverso la preminenza delle campanelle zen, presentate nel prologo e riproposte a questo punto: tramite il loro ricordo l’invadenza dei rumori della guerra (un mondo di elicotteri-lazzareto) viene sovrastata e si riesce a recuperare quell’equilibrio perduto, non a caso infatti proprio in quella sequenza in cui s’impone la musica, presenza fiction attribuita alla mente del protagonista-alter ego, sul rumore viene sancita la condizione aliena – e marcusianamente alienante – in cui si opera: "Qui si perde la cognizione del tempo". Affermazione ambigua, poiché da un lato, quello più documentaristico, espelle quel manipolo di uomini dal consesso umano, alienando loro anche la collocazione temporale,
- dall’altro introduce alla contestualizzazione che segue e si sviluppa in una considerazione storica che prelude alla presa d’atto che quella guerra è stata la perdita dell’euforia della vittoria (presente nella guerra dei sei giorni e irrimediabilmente perduta), ovvero la percezione del torto non solo appannaggio del nemico e la contaminazione del sogno sionista, nonostante un esercito informale e multietnico, composto da italiani, belgi, polacchi: in questo il lavoro oggettivo (la pura azione documentata di salvataggio dei feriti, le corse all’elicottero senza riposo… ) lascia spazio all’interpretazione di carattere collettivo e per fare ciò Gitaï sfrutta anche riferimenti all’immaginario cinematografico: "Bisogna avere l’istinto del cacciatore; uccidere. A questo serve un pilota" (lamento che sembra evocare il mitico film di Cimino per introdurre la stessa sensazione di sconfitta del Vietnam).