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France Europe Express
viaggio fra le vite del cinema francese di oggi
Parte 2: la resa dei conti...
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La Francia ha faticato, in un modo speculare a quello vissuto dalla Germania, a identificarsi in un'Europa "diversa" dal sé: abituata a vivere un mondo a parte, forse anche per motivi geografici, le sue difficoltà di integrazione si riflettono perfettamente in un passato prossimo di isolamento, o almeno eccentricità tecnologica: dal diverso standard televisivo (SECAM) al Minitel che ha scoraggiato fino a un certo punto la diffusione di Internet, per finire con le prime scelte significative in fatto di TV via cavo/satellite e a pagamento (e in mezzo a questo, ci sta anche il mostro, miracolosamente sopravvissuto, di un'alleanza franco-tedesca per sviluppare il canale culturale ARTE, forse l'ultimo avanzo di "internazionalismo" nell'Europa-delle-regioni").

Un'identità tecnologica forte, dunque, che riflette l'orgoglio di ritenersi eccezione e lo alimenta, così come alimenta, sul versante produttivo, il costituirsi come polo centroeuropeo, un catalizzatore, una guida. E di conseguenza diventa faro a cui attingere per autori stranieri infatuati di certo stile che gronda repertorio di situazioni, le più viete e vetuste: è il caso ad esempio di Campiotti che nel suo Il Tempo dell’amore restituisce un fulgido esempio di come lo sceneggiato francese possa insinuarsi nell’immaginario straniero in carenza di ispirazione e incistarsi rilasciando mefitici cliché, che indeboliscono alcune buone idee, soprattutto evidenti nella descrizione delle scopate, in cui i francesi sono maestri. Betty Blue s’iniziava proprio con una bellissima trombata, realizzata senza tentare di farla diventare un patinato balletto come vorrebbe la prassi nordamericana che non rinuncia allo stimolo censorio una volta rappresentato dal dirottamento dello sguardo sul camino nel momento clou: adesso i corpi si avvolgono, ma spesso creano circonvoluzioni impeccabili che a noi comuni mortali non riuscirebbero mai e così facendo occultano; il cinema francese non nasconde dietro ad una cortina di glamour, ma esplicita. Purtroppo però non sempre si riesce a usare il sesso con la potenza ribelle e corporea di Scopami, perché è labile il confine tra quella carica rivoluzionaria di linguaggio e ridislocazione del proprio approccio ai meccanismi sociali individuati come risultante della percezione sessuale della realtà rispetto alla sequela di luoghi comuni di Romance, non a caso spesso paragonato al film delle due punk. Altro atteggiamento con il sesso è quello di Une Liaison pornographique, dove l’identità nazionale è incontrovertibile in ogni sequenza e nel tema e nella soluzione dell’arcano non svelato, reticenza lasciata simboleggiare da una porta rossa. Invalicabile e invece scardinata da Baise moi, che si avventura nella direzione di dare nuovo significato alla sostanza corporea del film presente contemporaneamente in O Fantasma, portoghese e perciò vero sintomo di affrancamento dall’identità nazionale.

Identità forte. Già, ma con quali basi e con quali fini?

Le basi sono ovviamente economiche e, come avviene abitualmente in questo campo, vige la legge del più forte. Dal punto di vista produttivo, non c'è dubbio che quello francese sia il più potente, insidiato solo dagli inglesi, che hanno però dalla loro la lingua più esportabile; da circa 15 anni, si è instaurato un circolo "virtuoso" che vede quasi sempre in atto una forte sinergia tra le case di produzione "classiche" e la televisione, soprattutto la pay-TV, soprattutto Canal+, con frequenti e mirate strizzate d'occhio al mercato d'oltreoceano, ovviamente non per fare concorrenza ai "kolossal" del presente, ma per inserirsi nel ginepraio a quanto pare molto redditizio (parecchie major ci sono dentro, più o meno in incognito) del cosiddetto "cinema indipendente" e con un approccio egemonico a livello continentale. E non va dimenticata anche la posizione dominante - nei confronti dei partner europei - anche nel mercato africano, che è spesso stato ridotto a suddito e clone del cinema francese, al punto che le prime forme filmiche del continente provengono da cineasti addestrati da lungimiranti registi come Jean Rouch pieni di buone intenzioni, che tuttavia hanno operato una sorta di colonialismo culturale mosso dalle migliori buone intenzioni, che ha sicuramente prodotto buoni frutti, non tutti però digeribili, visto l’ostracismo per la produzione del maledetto ribaldo Med Hondo, irriducibile a poeta come Djibril Diop Mambety per assorbirne la carica sovversiva ad un livello sopportabile per un qualunque Petit Soldat francese, magari ora reso radioattivo.

Frammenti di cinema vorticosamente sovrapposti

A proposito del rapporto con le ex-colonie, va segnalato la recente denuncia di Ferid Boughedir, critico-regista maghrebino che punta il dito contro l'esotismo vezzeggiato dai festival (Cannes in testa) e su cui si appiattiscono, forse inconsciamente, molti cineasti africani.

Poiché nell'attuale modello economico-produttivo non fa fine dichiararsi semplicemente il più forte, occorre inventarsi una missione, qualcosa che dia allo stesso tempo un retroterra e degli obiettivi: ecco allora che parte la campagna sull'eccezione culturale, una delle peggiori truffe ideologiche di questi anni. Prendete il nostro bel mondo globalizzato e i trattati internazionali che regolano il commercio in questo contesto (naturalmente col fine di mantenere una "leggera" disparità fra il "nord" e il "sud"). Bene, ora avete qualcosa per cui scandalizzarvi, perché quegli yankee bifolchi pensano di liberalizzare (con quei trattati) anche lo scambio di prodotti culturali e allora bisogna alzare le barricate: non vorremo essere invasi da montagne di film extracomunitari (notare che nella definizione ci finiscono poi anche gli asiatici, gli africani e gli australiani…), liberi di umiliare, in quanto a mercato, ogni prodotto autoctono. Facciamoglielo sapere, agli yankee, tuonavano i ministri e gli "autori", che i film non sono prosciutti o bulloni; come? Come una volta si tutelava il mercato dei prosciutti e dei bulloni: un po' di sano protezionismo alla vecchia maniera.

Ha lo stesso sapore (marcio) degli allarmi demografici sull'invasione dei feroci musulmani, ma nessuno degli "autori" in trance agonistica ci ha fatto caso. Ecco così svilupparsi, con a capo i francesi, l'irredentismo culturale e, nella fattispecie, cinematografico. L'importante è distinguersi dalle "americanate", istituire (appunto) la categoria delle "americanate", utile per stroncare qualche opera in mancanza di argomenti (ci è cascato di recente anche Dario Argento a proposito di What lies beneath di Zemeckis).

Il problema sorge nel momento in cui si devono sottoporre a dazio i lavori di Paul Auster, debitori con ogni evidenza della cultura francese, ma irreversibilmente americani e recitati dal più americano degli attori, nonostante un peccato in terra di Francia gustato vent’anni fa con il suo fido Toback: Exposed, dove all’atmosfera francese si somma il dinamismo americano di Keitel, contenuto dalla europea Nastassja Kinski e dal francesissimo Pierre Clementi.

Allo stesso modo è difficile connotare come francese il prodotto finito da Besson, pervaso di atmosfere americane: è in questo meticciato spesso poco riuscito (Ronin) che va ricercato il peccato originale del cinema transalpino: l’incapacità di ridurre la propria cultura a componente di un lavoro più complesso e composito, eclettico e alla pari con gli altri contributi (perciò si recupera il massimo di nazionalismo con Jeanne d’Arc dopo aver scorazzato per i campi della globalizzazione dell’immaginario con Il quinto Elemento).

Inevitabile la ricaduta produttiva: in tale contesto, è normale che si ragioni, da parte di molti, in termini di contrapposizione a un modello e se questo modello obbrobrioso è lontano (diverso, clandestino, che è "il reato più grave" per una società resa feroce dall’intolleranza) dal nostro, l'operazione che riesce più facilmente è insistere sul proprio, adagiarsi sulla "tradizione", scavalcare la maniera e farsi formula. Chiaramente, appare la necessità di un modello, un primo della classe, ruolo che in questo frangente la Francia si accolla volentieri, avendone le doti, sia economiche sia (autocertificandosi) estetiche. Decolla anche per questi motivi l'intraprendenza dei produttori, l'affermarsi di uno stile che sicuramente prende il via da radici salde, ancora vigorosamente nutrite da "maestri" ancora in attività e per nulla lontani e che marca fondamentalmente la propria diversità dal prodotto hollywoodiano. Non che tutto il cinema francese sia uguale (vedi la prima puntata di questo excursus) e nemmeno quello europeo prodotto e/o influenzato dai francesi, però… Però, guardati con occhio smaliziato, appaiono sempre percettibilmente contaminati da questo ottuso grido all'"eccezione", spesso sterilmente accartocciati su un immaginario e un linguaggio non spregevoli ma neanche coraggiosi; sembra un po' di essere l'americano di Duello nel Pacifico, soldato senza guerra e solo con un nemico, solamente che in questo caso non c'è neppure il giapponese, ma solo un fantasma di se stessi (allora, per restare sulla metafora del film di guerra, vanno bene anche La sottile linea rossa, Jacob's ladder e Fear and desire).

Una cinematografia connotabile fino ad ora molto facilmente con il carattere nazionale e che improvvisamente sembra svilupparsi in mille rivoli diversi, personalissimi e finalmente meno francesi, primo risultato di una società multiculturale. Al punto che sembra quasi possibile rintracciare caratteri francesi maggiori in film ideati da autori non francesi (La lettera di Oliveira o il Proust di Ruiz, o gli epigoni internazionali di quella inarrivabile nouvelle vague, o addirittura i capitali transalpini per produrre i film di Kusturica o l'evidente condizionamento dei belgi, talvolta superiori ai maestri con Rosetta, ma anche con Le Mur inserito nel 2000 vu par) Ma allo stesso modo si potrebbe ulteriormente ribaltare l’approccio internazionalista al cinema francese e individuare nell'infinita sudditanza africana i prodromi per una nuova forma di cinema francese fuori dalla Francia o per riprendere la cronaca attualissima data dall'evidente parentela tra Kusturica e Lounguine: entrambi slavi francesizzati; sarà un caso che proprio i loro due film più ottimisti e pacificati, benché scatenati nel ritmo e nella stravaganza, siano quelli che derivano dalla lunga permanenza a Parigi dei due autori? Eppure la capitale francese ospita anche un ebreo poco ortodosso come Eyal Sivan e un palestinese apolide come Elia Suleiman, i cui maestri sono non a caso Godard, Antonioni, Cassavetes, Sokurov.

Dato che non vediamo l'ora di gustarci un'"americanata", abbiamo quindi deciso di improvvisare un duello western, uno scontro virtuale tra i buoni e i cattivi, i benefattori e gli untori della "Fondazione Europa". La suddivisione, piuttosto che sulle dichiarazioni esplicite a proposito dell'identità franco-europea da difendere, è basata sull'opera concreta dei personaggi citati, che vengono qui connotati con un lapidario e assolutamente personale giudizio. Noi non abbiamo dubbi su quale parte scegliere (diciamo che il nostro è un western classico…). Voi fatecelo sapere, nei modi che preferite.