Editoriale

Editoriale

16/9/99
Altri occhi sul lido

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo completo resoconto sui premi, che integra e si affianca al reportage (con ulteriore commento finale) della nostra inviata a Venezia.
Invitiamo anche voi a contattarci per collaborare con il nostro sito.
============================================

Ha vinto il film del regista cinese Zhang Yimou

56° Festival di Venezia

Si è conclusa con la vittoria di Zhang Yimou, con il suo Yi ge dou bu neng shao (Non uno di meno), la 56a Mostra Internazionale di Arte cinematografica di Venezia, svoltasi dal primo all’11 settembre. Un film delicato, intenso, quello di Zhang Yimou: Wei Minzhi, una ragazzina tredicenne, deve sostituire il maestro di una scuola elementare che si deve assentare per gravi problemi familiari. L’imperativo dato alla ragazzina è quello che nessun allievo si deve ritirare dalla scuola: se si dimostrerà in grado di amministrare completamente la situazione, l’improvvisata supplente riceverà una somma in denaro extra. Zhang Huike, l’indisciplinato della classe, costretto dall’indigenza della sua famiglia, si reca in città per cercare lavorare. A questo punto, nonostante non sappia assolutamente dove il bambino si trovi, Wei si mette sulle sue tracce per riportarlo a casa e a scuola. Zhang Yimou, che aveva vinto il Leone d’Oro già nel ’92 per La storia di Qiu Ju, ha narrato una storia servendosi di veri alunni delle scuole cinesi ed adottando uno stile solo apparentemente sciatto e disadorno, ma in realtà semplicemente realistico nella forma e fiabesco nella conclusione e nel contenuto. Lo stile quasi documentaristico di Zhang Yimou si basa su opposizioni marcate tra città e campagna, sviluppo e arretratezza, indigenza e benessere, remissione e caparbietà, puntando su uno sguardo che si impossessa dei personaggi per restituirli in tutta la loro umanità ad uno spettatore che non può non identificarsi con la complessa ricerca dell’intraprendente piccola supplente. Il premio speciale della Giuria, presieduta da Emir Kusturica, è andato invece a quello che era considerato il favorito d’obbligo per la vittoria finale, Le vent nous emportera (E il vento ci porterà con sé) di Abbas Kiarostami, storia che si districa tra i concetti di spazio e di tempo, dove il primo si dilata a dismisura in funzione del secondo, ed in cui la reiterazione delle situazioni non fa altro che sottolineare la struttura concentrica della narrazione, affacciata su un vuoto antropologico di cui l’uomo di città non si può appropriare, data la scarsa attenzione per le piccole cose, per i dettagli di un mondo sospeso in un esistenza fuori da ogni cronologia. Il film racconta di un ingegnere che giunge in un piccolo villaggio del Kurdistan iranico. La sua venuta si presta ad equivoci, anche le sue dichiarazioni non sono veritiere visto che confida di cercare un tesoro nel cimitero in cima alla collina. Cosa cerca in realtà, quali sono le sue vere intenzioni non è dato sapere. Un film affascinante, falsamente statico, sospeso nel tempo, espanso lungo la profondità di una superficie che non conosce confini. Il premio per la miglior regia è stato conferito all’altro cinese in concorso, Zhang Yuan con Guo Nian Hui Jia (Diciassette anni), pellicola che parla della fragilità dei sentimenti umani, della sproporzione tra le situazioni di partenza e le tragedie che da minimi elementi si generano. Due sorelle. Una diligente e studiosa, l’altra scapestrata e ribelle. La prima ruba una cifra irrisoria, 5 yuan, al padre e per timore di essere scoperta li infila sotto il cuscino della sorella, che viene ritenuta colpevole. Alla richiesta di spiegazione dell’accusata, la vera colpevole si chiude in un indisponente silenzio che viene rotto dal colpo che la sorella ribelle, per rabbia troppo a lungo repressa, sferra contro la testa della vittima che cade riversa in terra priva di vita. Dopo diciassette anni, la ragazza esce di prigione per un breve permesso in concomitanza con le festività di fine anno, ma soltanto grazie all’aiuto di un brigadiere (donna) della prigione riesce a trovare il coraggio di tornare a casa per una sofferta e catartica rappacificazione. Se il premio per il miglior attore è andato a Jim Broadbent per la sua interpretazione in Topsy-Turvy di Mike Leigh, la Copa Volpi per la miglior attrice è stata affidata alle meritevoli mani di Nathalie Baye per il film belga di Frédéric Fonteyne Une liaison pornographique. La Baye è perfetta nel ritrarre i dubbi, le angosce, la sofferta sensualità ammantata di ineluttabile solitudine di una donna che s’imbarca in una relazione con un uomo conosciuto tramite un annuncio su una rivista erotica. I due non si scambiano né gli indirizzi né tantomeno i nomi: la loro deve rimanere una storia basata esclusivamente sul sesso e deve durare lo spazio di un orgasmo. Ma il legame inizia a prendere piede e i due, chiusi in un ideale cerchio nel quale non è assolutamente ammesso il mondo esterno, si innamorano. Basterà un evento non programmato (la morte di un vecchio che per errore aveva cercato d’introdursi nella stanza d’albergo in cui i due si erano dati convegno) per spazzare via l’equilibrio precario che i due si erano creati. Una narrazione delicata e sofferta quella di Fonteyne, capace di introdurre nel racconto le contraddizioni dei differenti punti di vista (la storia procede in flashback, usando l’artificio dell’inchiesta sociologica con tanto di interviste ai due anonimi personaggi) che rendono evidente come la coppia si sia tristemente divisa soltanto per incomunicabilità e non per mancanza di sentimento. Triste, malinconico ma intensissimo e stupendo. Ignorati totalmente due film diversissimi tra loro, Holy Smoke di Jane Campion, storia di una rieducazione psicologica e morale che si risolve con uno scacco antitetico (il rieducatore, Harvey Keitel, si ritrova, per amore, in balia di colei che deve rieducare, uno splendida e tonda Kate Winslet), ed il difficilissimo Pas de scandale di Benoit Jacquot. Grégoire Jeancour (Fabrice Luchini), importante industriale, esce dalla prigione, nella quale ha passato alcuni mesi, ed è una persona completamente diversa: fatica a legare con la moglie (Isabelle Huppert), alla quale si rivolge con il voi, mostra una serenità che in un mondo teso e stressato appare quantomeno frutto di un problema mentale, parla quando deve tacere, tace quando dovrebbe esprimersi. Il conflitto si estende a tutta la sua famiglia, alla madre, al fratello anchor man (Vincent Lindon), fino a che, un giorno, incontra la semplicità e la dolcezza della parrucchiera della moglie, che gli appare come l’unica persona in grado di comprenderlo ed apprezzarlo nella sua nuova consapevolezza. Un film reso complicato dall’arduo profilo psicologico tratteggiato da Jacquot, completamente disinteressato nel definire di cosa si sia macchiato l’industriale Jeancour, totalmente ellittico nello svelare quali siano le rivelazioni che tutti hanno il terrore faccia, ma attentissimo nel caratterizzare nei minimi dettagli fisici e psicologici ogni minimo personaggio di quel mosaico antropologico proteiforme che è il suo film. Luchini, stupenda maschera di novello candido voltairiano, incessantemente e sapientemente in bilico tra idiozia ed illuminazione, probabilmente avrebbe meritato la Coppa Volpi come miglior attore. I 10.000 dollari di premio della 14a Settimana Internazionale della Critica sono andati invece a Mundo Grùa dell’argentino ventottenne Pablo Trapero, uno spaccato vitale, di un grande ed amaro umorismo, sulla difficile realtà lavorativa argentina. Rulo, un cinquantenne ex bassista di un famoso gruppo pop, si ritrova a dover sostenere diverse prove per poter ottenere il posto da gruista in un cantiere. Perso il posto, Rulo è costretto a cercare una nuova occupazione e la trova in un cantiere a 2000 chilometri di distanza da Buenos Aires. Ma dopo qualche tempo, anche questo cantiere chiude...Luis Margani è stupefacente nel ruolo sfatto e, nonostante le vicissitudini esistenziali, forte ed ottimista di Rulo, un personaggio che da solo regge le sorti di un film ben costruito su di lui.

Giampiero Frasca

Giampiero Frasca