Se dovessi rispondere alla domanda se esista un'etica del cinema, più che un'etica nel cinema, risponderei che sì, esiste, e che consiste nel rispettare ognuno - film, schermo, spettatore - la consegna di stare al proprio posto. Che cosa significa un'affermazione del genere che, a tutta prima, sembra il massimo del reazionario? Significa che la partecipazione dello spettatore all'evento schermico, che in prima istanza, quella fisica, è del tutto bloccata nell'inesorabile materialità (lo schermo ha le sue dimensioni, è collocato a una certa distanza, è una superficie riflettente, ecc.), si vale di rapporti e dinamiche variabili a seconda del tipo di film. Molteplici sono infatti i parametri, le tecniche e tecnologie, gli elementi e le scelte di linguaggio che innescano una partecipazione più o meno attiva allo spazio del film e alla sua realtà.
Anzi, tanto più è rigida e bloccata la collocazione fisica (tutt'al più si può giocare sul Dolby stereo, quadrifonia e quant'altro), che infatti non dà informazione alcuna, tanto più è mutevole e creativo il rapporto film-spettatore, che coinvolge inquadratura, montaggio, movimenti di macchina, ma anche "atmosfera", realismo o irrealismo del commento sonoro e altro ancora in infinite combinazioni. Il concetto di partenza allora comincia a essere un po' meno reazionario. Non di "posti fissi" si tratta, non di una stratificazione sociale immutabile, da prendere o lasciare, ma di qualcosa che si può contrattare, che può anche fondarsi sul compromesso. E che tuttavia, una volta definita, deve essere rispettata, pena la perdita delle capacità euristiche della nostra visione.
Non per caso Godard parlava di valore morale di un carrello; e non per caso Rivette si scatenò contro il carrello avanti di Kapò, lanciando gli strali che sarebbero stati ripresi dal Daney postumo di Persévérance. Era ignobile, secondo loro, quel mettere la tecnica (la scelta linguistica del carrello) al servizio di un'idea sbagliata: la donna si getta sul reticolato elettrificato nella speranza o di saltarlo incolume, o di suicidarvisi. Finisce così. Ma dal campo medio-lungo a quel primissimo piano, quasi un dettaglio, del suo volto di sofferenza, ebbene, lo spettatore fa un salto ideale improponibile, arrogante e balsfemo. Nessuno può stare "in familiarità" con chi ha vissuto davvero lo sterminio come vittima.
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«En 1961, Jacques Rivette dénonçait avec indignation un effet de mise en scène dans Kapo, film de Pontecorvo: lorsqu'une déportée (interprétée par Emmanuelle Riva) se suicide en se jetant sur les barbelés électrifiés, un travelling avant vient recadrer artistiquement son cadavre. Cette recherche de "joliesse", dans de telles circonstances, relevait " de l'abjection", selon le titre de l'article de Rivette qui citait la phrase célèbre de Godard : "Les travellings sont affaire de morale.»
(V. Pinel in Le Siècle du Cinéma, p. 434)
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Ci sarà pure un po' di retorica, e anche di provocatorietà, ma il problema rimane. Di fronte all'evento-limite per eccellenza, dobbiamo ritrovare tutti (autore e spettatori) un certo pudore. Noi non c'eravamo. Non è sempre così. Non c'è nulla di blasfemo nel dettaglio progressivo sul cranio di Jack Celliers/Bowie che spunta dalla terra alla fine di Merry Christmas Mr. Lawrence, poiché quel movimento è un omaggio a un'icona, a un personaggio che è già diventato un'idea. Ma, per converso, non sapremmo immaginare di stare fianco a fianco con i protagonisti-lettori di Operai/contadini. Invece è godurioso lasciarsi sospendere per aria quando Spielberg ci fa accostare all'orlo della collina (E.T.) da cui si scorge la città illuminata. La combinazione di carrello avanti e zoom indietro fa venire il mal di mare ma è certo evocativa della sospensione dello sguardo, della percezione, del senso, di tutto un po'.
Allora il problema è qui: portare lo spettatore a collocarsi di volta in volta a fianco, oppure estraniato, oppure distaccato, oppure nella stessa amalgama paesaggistica (come gli spettatori della storica partita di baseball di cui racconta DeLillo all'inizio di Underworld) che fa tutt'uno di ambiente naturale-scenografico ed elemento umano. E far sì che questa collocazione, di volta in volta diversa, risponda a una chiave per fare breccia nella materia di know-how del film, un cavallo di Troia per coglierne dall'interno i nessi e le idee. Ma attenzione: nel farci trovare la nostra collocazione qualcuno sarà più liberale (penso a Wenders, che usa la musica per mediare questo rapporto a seconda della sensibilità di ognuno), qualcuno (per esempio Kieslowski) sarà più ultimativo e categorico nell'imporci la collocazione che vuole lui. L'importante è che una volta acquisito il nostro posto stiamo fermi lì e mettiamo al lavoro la nostra costruzione di nessi, interpretazioni, costruzione di senso. Mario Rigoni Stern predica in uno dei suoi ultimi racconti un'estrema tolleranza nei confronti dei piccoli predatori del bosco, in particolare le cornacchie: fino in prossimità dell'orto puoi venire, e possiamo coesistere; più in là mi crei dei problemi e non lo tollero più. È un'etica del rispetto reciproco, forse quella più dificile da trovare nella società. Chissà se a volte viene anche dallo schermo?
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