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Fratelli Coen

La storia del cinema di genere dei
FRATELLI COEN

I fratelli Joel & Ethan Coen, passando al vaglio i generi cinematografici, mediandoli con il loro occhio personalissimo, con forti iniezioni di black humour, ironia, massicce dosi di cinefilia e intertestualità, sembrano voler realizzare una propria personale "storia del cinema di genere", lavorando in una duplice direzione: la riscoperta quasi filologica delle coordinate dei generi, e la loro ridefinizione attraverso una contaminazione mutuata dalla ricerca formale. L'esordio registico dei Coen, "Blood Simple" (1984), era un ottimo noir, crudo cupo violento, ambientato nel Texas, quasi una trasposizione cinematografica delle crime-stories, delle atmosfere e dei personaggi di Jim Thompson. Segue "Raising Arizona" (Arizona Junior, 1987), una black comedy incubico-horror-fiabesca che, al pari di Blue Velvet (Velluto Blu, 1986) di Lynch e Something Wild (Qualcosa di travolgente, 1986) di Demme, mostrava in maniera macroscopica l'apice del gioco di frammistione di generi ed atmosfere operata da una nuova generazione di registi americani, che sarebbe pervenuto ai risultati più estremi in apertura del decennio '90. Nel 1990, i Coen rivisitano il filone gangsteristico con "Miller's Crossing" (Crocevia della Morte): una gangster-story ambientata nel periodo del proibizionismo estrememamente innovativa, quasi shakespeariana, supportata da onirismo, simbolismi, crepature metafisiche nel tessuto narrativo (una trama intricatissima di cui spesso, forse volutamente, si perdono le fila a favore di aperture sui personaggi e sull'alone filosofico che veicolano e che li avvolge). In quest'opera, meno flamboyante rispetto alle precedenti, prende forma quella focalizzazione accentuata sul personaggio, in una direzione quasi intimistica, certamente psicologica, che sarà l'elemento base del film che li porterà al grande successo critico: "Barton Fink" (Barton Fink. E' Successo a Hollywood), Palma d'Oro a Cannes nel 1991. Con l'avventura hollywoodiana del commediografo Barton Fink i Coen si distaccano dalla griglia dei generi. O meglio, è come se a forza di ingurgitare, masticare e risputare generi, a forza di shakerarli con personali liquidi corrosivi, ne avessero spremuto l'essenza della propria poetica e, forti di essa, abbiano voluto tentare la scalata della montagna che ogni regista prima o poi azzarda: il metacinema. Che è di fatto un genere a sè. Coen e metacinema? Ma due "cinefaghi" che a loro volta producono "cinema cannibalistico", cinema che si nutre di altro cinema, in ultima analisi non hanno fin dal loro esordio praticato metacinema? Per certi versi, potremmo ipotizzarlo, per altri, in un'ottica post-moderna di intertestualità diffusa, dovremmo concludere che in realtà forse non esiste più un cinema che non sia metacinema. Delimitiamo, dunque, il territorio, indicando, come da copione, con il termine "metacinema" quel cinema che, a livello di narrazione, si autorappresenta e si interroga. "Barton Fink" è metacinema: ma all'ennesima potenza, concentrato, a più livelli stratificati - racconta una storia del mondo del cinema ambientata nel mondo del cinema; in tale contesto si muovono personaggi del mondo del cinema dell'epoca d'oro di Hollywood ispirati a figure realmente esistite; si interroga sul rapporto tra la scrittura per il teatro e quella per il grande schermo; mostra e svela i meccanismi di creazione di trame; denuncia la ingombrante realtà dello star-system e le regole di mercato che stanno all'origine del cinema di genere; inoltre, esiste anche un livello storico, andando il film a ripescare un'epoca ormai conclusa di quel mondo in cui gli stessi Coen agiscono; ed infine, la stessa storia del povero Barton Fink è una metafora dei meccanismi di fruizione cinematografici: spettatore di sè medesimo, di finzioni ed incubi che divengono realtà... Stratificazione ed accumulo: l'eccesso sembrerebbe la regola dei fratelli Coen. Ma tutto si può dire dei nostri, tranne che siano privi di equilibrio: formalismi al limite del gratuito, esasperazioni contenutistiche, citazionismo iperdiffuso... eppure, nel risultato finale, gli elementi si combinano sempre in qualcosa di nuovo ed affascinante, non leggero, ma nemmeno pesante - qualcosa che, pur non essendo autoindulgenza, comunque si giustifica e riscatta: dopo un loro film ronzano sempre per la testa degli interrogativi (a livello di trama, di contenuto...) le cui risposte sfuggono, ma si ha l'impressione che fosse tutto dentro il film, da scoprire, e se c'è qualcuno che ha sbagliato ci sentiamo noi colpevoli per non averlo saputo cogliere. Nel 1993, i Coen tornano alla commedia, quella pura, questa volta, quella alla Frank Capra: "The Hudsucker Proxy" (Mister Hula Hoop). Al contrario di quanto faceva Capra, tuttavia, i Coen non ambientano la loro vicenda nel presente, ma in un passato che non rispetta neppure i dati iconografici - come ha sottolineato Cosulich. I Coen prendono quel genere, e quella determinata manifestazione del genere (Capra); lo rileggono, lo interpretano, lo spogliano, lo essenzializzano, lo ri-conoscono, lo rivestono ed infine, in una esplicita operazione di "critica metacinematografica", lo riconducono al territorio che gli è proprio: la fiaba. Mister Hula Hoop non è altro che questo: un saggio di critica metacinematografica. Oggi, con il bellissimo "Fargo", Migliore Regia a Cannes '96, affrontano un nuovo sotto-genere: ancora un noir, ma ispirato ad una storia vera. Realismo. Nuove regole del gioco, dunque; e non così vicine, se si osserva bene, a quelle di "Blood Simple", come in molti hanno invece riscontrato. Il bersaglio non è più il cinema, ma direttamente la società e l'uomo medio. Riprendono un filo accennato ed abbandonato in "Arizona Junior".

 

 

 

 

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