Il tratto più appariscente del festival al
femminile inventato dalle donne della Mo-Viola
torinese è quello di presentare innanzitutto le
persone che producono cinema muliebre, far
scaturire dal rapporto con loro un
cortocircuito che coinvolge il prodotto in
quanto mezzo per esprimere i vari mondi
percepiti da una sensibilità che si vuole
alternativa a quella maschile. L'assunto, e la
scommessa, è quello di individuare questa
eccezione culturale. La conseguenza è quella
che si privilegiano pellicole attente a
dimensioni personali immerse in situazioni che
fanno da cornice, piuttosto che viceversa. E
forse per questo il film giudicato migliore è
quello che si occupa del movimento femminista,
cercando di farne un'analisi innanzitutto
culturale e con quella obliquità tipica del
linguaggio metaforico
E lo fanno percorrendo strade diverse:
l'attenzione per le donne palestinesi è una
costante che l'anno scorso aveva fatto scoprire
Alia Arasoughly e
Mai Masri che si ripropone quest'anno con
una regista siciliana (Nella Condorelli),
appassionata testimone della cultura
mediorientale che rende omaggio a
Figlie della terra di Canaan senza
distinzione di campo, piuttosto cercando
elementi in comune di persone sottoposte alla
visione maschile di un mondo con parametri
diversi da quelli regolati da costituzioni e
stati.
A cui fanno cornice adesso i molti contributi
del nordeuropa virati su registri diversi, ma
tutti con un fulcro centrato sul disagio di
vivere che può provenire da ricerca di
un'identità, solitudini, meschine eredità che
si rivelano unico appiglio per recuperare il
passato, l'adolescenza, raro momento di
spensieratezza piccolo borghese, fino alle
paure indotte splendidamente analizzate e
esorcizzate (sarà che le donne hanno subito
così tanti esorcismi che sono esperte in
materia); mentre i contributi spagnofoni si
inseriscono nel programma trovando nella
rimeditazione del passato -non solo personale -
l'anello che unisce i due immaginari (quello
europeo, infarcito di sospensioni della vita in
una palude ancora più statica se vista dal
punto di vista di donne immerse nella
"sicurezza" dell'occidente resa vacua dai
rapporti azzerati, e quello sudamericano,
ancora ferito dalle operazioni condor), in
particolare il film uscito vincitore per la
giuria ufficiale che ha voluto sottolineare un
originale modo di fare il punto sul risultato
di decenni di femminismo. Conferma dell'ottimo
momento creativo della cinematografia iberica
che nelle sale ha distribuito I lunedì al
sole e
Lucìa y el sexo, mentre ha
inaugurato il Festival a tematica omosessuale
di Torino Los novios búlgaros del
visionario Eloy de la Iglesia.
Non è da meno il contributo del nordamerica che
attraverso Il lamento di Didone individua un
fato da seguire, ma con consapevolezza.
Recuperando un passato di provincia sepolto, i
primi passi nel canto nel calore di una cucina
ritrovata nel ricordo, uno stupro del branco
impossibile da dimenticare, ma che riemerge
negli incontri a vent'anni di distanza e un
evento dirompente che fa da pietra angolare di
due esistenze parallele a confronto in
Perfect Pie. Con la ormai consueta
presenza dell'attrice adulta che assiste
dall'interno dell'inquadratura alla sua
ricostruzione di quell'infanzia e di quella
amicizia antica, che nasconde ancora analisi
irrisolte, intrecci nelle due esistenze e
omertà che solo ricostruendosi l'esistenza e
solo dopo si possono ripercorrere. Uscire
dall'inespresso: recupero della memoria negata
dalla provincia nordamericana, per affrontare
le conseguenze di scelte passate.
Molto interessante la sezione (sud)africana,
cinematografia che si conferma originale
nell'uso dell'immagine documentaristica, questa
volta al servizio del racconto di corpi
desideranti, che lentamente - ma con
determinazione - si aprono alla propria
sessualità (Doing it!). E che ha fatto
da preludio al festival del cinema africano di
Milano, dove si sono sovrapposti i temi
visitati qui: donne ribelli all'oppressione
maschile in Senegal (Madame Brouette di
Moussa Sene Absa), ragazze insegnanti alle
prese con l'integralismo assassino del Fis in
Algeria (Rachida, Yamina
Bachir-Chouikh), ragazze ormai francesi che
sentono l'urgenza di fare chiarezza sulla
propria radice nel deserto maghrebino e
scoprono la verità sulla effettiva madre-zia
folle in un'odissea documentaria (Bent
Keltoum, di Mehdi Charef, già visto al
Torino film festival), ragazze tunisine vendute
in città per servire in case borghesi, che
hanno un alter ego in bambine con lo stesso
retaggio, duplicato una volta di più in bambole
d'argilla (Poupées d'argile, di Nouria
Bouzid).
In un festival del cinema torinese non possono
mancare le pellicole provenienti dall'estremo
oriente. La loro presenza non è mai peregrina:
in questo caso non si tratta di Pechino, ma di
Shanghai... stesse strade intasate e ricche di
movimento - spesso a noi incomprensibile e
caotico -, ma sono gli interni soffocati
dall'obiettivo a 50 mm a risultare più
significativi in una storia di indipendenza
femminile, rivendicata e perseguita, dove
l'appartamento piccolissimo e fatiscente da
riattare diventa opportunità di affrancamento
con vista sullo skyline della città in un
afflato di speranza per il futuro.
Una realtà distante, eppure sempre asiatica, è
quella coreana che conferma nella sezione
documentari (Family Project: House of a
Father) come la difficoltà sia riuscire a
inventare una rete di relazioni all'interno
della famiglia. Ma gli umori del cinema coreano sono
molteplici, come denuncia la rassegna curata
dal museo del cinema, dove l'evento più
ricorrente è la punizione, il rimanere con
la testa infitta in terra per imposizione di
qualcuno assunto come autorità.
Una bella scommessa mal pubblicizzata era
quella inaugurata quest'anno con il programma
dedicato alle scuole. Le scelte delle pellicole
forse poco incisive nel panorama deprimente
della cinematografia rivolta all'infanzia, ma
il deserto di ragazzini che ha accompagnato le
proiezioni pomeridiane rivolte a genitori
accompagnati dai ragazzini denuncia la
difficoltà di arrivare a un consumo del
prodotto cinema diverso e più esteso.
Interessante il corto premiato (Verrouillage
Central di Geneviève Mersch), che
centuplica la fiaba del principe ranocchio (qui
tartaruga), offrendo una serie di stereotipi
maschili immediatamente noiosi per la single
che poi finisce con l'innamorarsi del vicino,
avendo la casa invasa da cloni creati dalla sua
ricerca, imperniata sulla parolina magica che
rende innocuo l'incantesimo. Ma realmente
geniale è un film di Ellen Lande (The Human
Race), norvegese, che concentra in una
corsa di 2 minuti la miglior spiegazione di
quello che ci hanno fatto dall'11 settembre in
avanti: il progresso del sentimento di paura
scatenato da un'incomprensione: un cane
comincia a correre dietro a una bici, nel buio
si avverte solo la concitazione e tutti vengono
presi dal panico e cominciano a correre
sentendosi braccati. una delle migliori
rappresentazioni della paura data da un
montaggio che velocizza i già rapidissimi
movimenti degli attori, travolgendo tutto anche
la percezione e la capacità di
razionalizzare.
Nota decisamente negativa sono invece le
lungaggini, i ritardi, le approssimazioni (il
quadro non regolato per minuti o il mascherino
a volte sbagliato), ma soprattutto l'enorme
spazio lasciato alle autorità, ai committenti
che in cambio di 4 soldi (incredibile la
pochezza dei fondi elargiti a confronto della
prosopopea adottata per pubblicizzarli; il
colmo è il nuovo premio del comune, il cui
plafond è detratto dal contributo stanziato gli
anni scorsi per la manifestazione) pretendono
una passerella insopportabilmente lunga: due
ore di smancerie del solito Giampiero Leo
(regione) o gli sproloqui di Sergio Chiamparino
(sindaco) con o senza Paola Pozzi (assessore),
fanno preferire una settimana con i talebani a
Guantanamo piuttosto che sorbirsi una noia
senza motivo come quella. Non parliamo poi
della ignobile gazzarra tra proiezionista e
pubblico che avrebbe probabilmente preferito
vedere il film che era iniziato e che aveva
anche premiato.
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